Ho il cancro.
Hai il cancro.
Quale delle due frasi è più difficile da pronunciare? Non c'è una risposta. Così come non esiste una strategia universalmente valida per comunicare in presenza di questa malattia. Il cancro fa talmente rabbrividire da non poter essere nemmeno nominato. Spesso lo si chiama il brutto male, perché di fatto è l'incarnazione - metaforica e fattuale - della più grande paura umana: la morte.
Sotto sotto, anzi nemmeno troppo nel profondo, lo pensiamo tutti: di tumore non si guarisce mai. Convinzione in molti casi validata dalle statistiche, in altri completamente smentita. Resta il fatto che nessuna malattia atterrisce più del cancro. Un po' come l'hiv nel secolo scorso. Ma la paura cresce in maniera direttamente proporzionale all'ingrossarsi del silenzio, alla costruzione dei tabù. Quindi la prima arma per sconfiggerla (la paura, non la malattia) è parlare.
Ovviamente a sproposito. La Società italiana di Psiconcologia (Sipo) ha redatto una lista di buone prassi da tenere nel dialogo con le persone malate di tumore. Tra queste alcune restano questioni aperte, che continuano a dividere le diverse scuole di pensiero.
Partiamo dal nodo più insidioso. E' giusto mentire sulla diagnosi? Secondo la Sipo no. Il paziente deve sapere la natura della sua malattia. La persona è malata, non stupida. E trattandosi del suo corpo e della sua vita, farà adeguate ricerche per scoprire la verità. Il rischio, dunque, è che una volta appurato che gli è stata raccontata una bugia, perda completamente la fiducia nei medici e nei familiari. Va da sé che un clima di diffidenza nella malattia può essere solo dannoso, tuttavia la decisione non è così lineare.
Avete mai provato a dire a vostro padre (o a vostra madre, o a vostro figlio, o a vostro fratello): hai un tumore? Non è facile. Ed è invece probabile che la persona interessata si demotivi a tal punto da sviluppare sindromi depressive che influiscono sulla sua salute fisica. Che fare dunque? La Sipo consiglia di mantenere un atteggiamento il più positivo possibile, che porti il malato a lottare per la guarigione, a vedere una via d'uscita. A questo proposito, sempre secondo la Società italiana di Psiconcologia, non è bene trattare il paziente come se non fosse più in grado di fare nulla, levandogli tutti gli gli incarichi e le responsabilità che aveva prima della malattia. E' giusto trovare un compromesso tra esigenze fisiche e mentali.
Resta però un grande punto interrogativo. Come comportarsi quando una speranza proprio non c'è? Quando i giorni sono contati? In quei casi il dramma soverchia ogni ragionamento logico. E la risposta va calibrata in base al carattere di chi se ne sta per andare. Di solito le persone più razionali preferiscono saperlo, per prepararsi alla fine. Altri stanno meglio costruendosi una favola. Tuttavia, se anche non sanno che stanno per morire, lo sentono.
Il presupposto fondamentale a ogni tipo di approccio è comunque la consapevolezza che chi è malato - gravemente malato - cambia. Non si può pretendere di relazionarsi con la stessa persona di prima, perché la malattia, di qualunque natura essa sia, sposta il baricentro dall'esterno all'interno, dal mondo all'io. Da malati si è egoisti, perché la fatica di vivere toglie le energie per essere aperti agli altri. Comprendere questa dinamica è la prima chiave d'accesso per restare in contatto.
Qui tutti i consigli di Sipo.