lunedì 29 settembre 2014

Arrivano i pagliacci

Per fortuna alla fine arrivano sempre. Per fortuna, dopo il numero dei trapezisti, quello in cui trattieni il fiato e ti mangi le pellicine attorno alle unghie, cercando di non affogare nella tua stessa paura, arriva sempre lo show dei pagliacci. Arriva un momento che rimedierà in qualche modo la catastrofe (se uno dei trapezisti dovesse cadere e sfracellarsi al suolo, per esempio). E se la catastrofe non avviene, rimane solo il momento da attendere mentre soffri, il pensiero felice di Peter Pan, l'altro punto in cui guardare mentre ti prelevano il sangue.
La storia dei pagliacci, comunque, non me la sono inventata io. L'ha fatto Chiara Gamberale nel suo libro Arrivano i pagliacci.


Appunto, direte voi.
L'ho comprato perché mi sono detta: finalmente un titolo come si deve. Perché mi piace la parola pagliaccio, che ti riempie la bocca, un po' come il nome Carlotta, che se ci pensi mica è tanto bello (deriva da Carlo e a me, personalmente, il nome Carlo sa di uomo di mezza età che fa l'avvocato e tradisce la moglie e il nome Carla di donna a cui i genitori non volevano troppo bene). Anche la parola pagliaccio potrebbe essere un dispregiativo di paglia al maschile. Ma pagliacci, al plurale, è più facile da pronunciare e non fa venire in mente It.


Ma dichiariamo anche lo smodato egocentrismo. Seguo Chiara Gamberale come autrice. E l'interesse deriva da alcuni tratti biografici - non solo il nome, ma anche - che ci accomunano. E per fortuna mi sta simpatica, altrimenti immaginate che brutto pensare al mio nome e associarlo non solo all'immagine in fondo stoicamente ok che ognuno si fa di sé, ma anche a una persona sgradevole. Débâcle.
Insomma l'ho comprato per una serie di buoni motivi. E l'ho letto per nessuno in particolare, se non per il fatto che non riuscivo a staccarmici. Mi starete intimamente implorando di risparmiarvi la scontata teoria secondo cui un romanzo vale solo se non riesci a mollarlo, solo se lasci tutto da parte per sapere come va a finire. No, non sono d'accordo. Ci sono libri che ti danno qualcos'altro. Per esempio, per favore, non ditemi che Anna Karenjna o i Buddenbrook ve li siete letti tutti d'un fiato. O I Promessi Sposi, mettiamo. Eppure direste che non hanno valore? A me certe volte tornano in mente le esclamazioni dei Bravi o di Don Abbondio e rido da sola. O mi immagino le feste di Natale a casa Buddenbrook e sogno un po'. E se ripenso alla settimana in cui ho letto Anna Karenjna (11-18 agosto 2012, Porto Ottiolu, Sardegna), credetemi non mi vengono in mente falò sulla spiaggia con gli amici a tarda notte o gite in barca o altre cose accorpabili nel set dei ricordi felici. Anna Karenjna l'ho letto nel disperato tentativo di portare la mente altrove e di fermare il corpo. E un libro serve anche a questo, no? A salvarti un poco dalla disperazione.
Stessa cosa con la saga di Harry Potter, che puoi leggere la prima volta per sapere come va a finire, ma la seconda e quelle successive, come per tutte le storie, lo fai per trovare altro: una compagnia rassicurante, particolari che non ricordavi, la smentita o la conferma della posizione del libro nel tuo indice di gradimento. Cose così, sicuramente lontane dalla foga narrativa. Lontanissime dall'originalità dell'impavido lettore e della sete di conoscenza.


Ero partita, comunque, dal romanzo della Gamberale. Sì, come tutte le penne impazzite, inizio con un'idea e uno scopo e mi perdo nell'impacchettare il messaggio. Non abbiatene male, faccio così anche durante le chiacchierate con gli amici, o le confidenze intime con mia sorella, che la gente alla fine si altera, perché si sente un tantino presa per i fondelli. Come quelli che ti portano un pacco regalo enorme e poi ti fanno scartare a matrioska mill'un scatole e scatoline e poi alla fine il regalo magari nemmeno è all'interno della confezione iniziale, ma in un luogo suggerito da un rebus su un bigliettino all'interno del pacco più piccolo. 
Di solito, però, al punto c'arrivo.
Infatti adesso comincio a raccontarvi, per esempio, del perché mi è piaciuta Allegra Lunare, la protagonista di Arrivano i pagliacci. In primo luogo, non vi sembrerà un granché come motivazione, ma il suo nome mi ha ricordato quelle persone strane, tipo folletti ubriachi in un mondo di gnomi da giardino. Come Luna Lovegood, che in Harry Potter e l'ordine della fenice, dopo aver rassicurato Harry sul fatto che non è pazzo a vedere i Thestral (cavalli neri scheletrici, che nessuno vede tranne chi si è trovato a tu per tu con la morte), si mette a parlare del budino al cioccolato.


Ero partita prevenuta su Allegra. Il fatto che il suo film preferito fosse Dirty Dancing mi lasciava perplessa, perché ecco, mi sa di gusto un po' retrò, che vuole però sembrare semplice e originale al tempo stesso. Una cosa quasi radical-chic. Poi mi son fatta due conti e ho pensato che, se Allegra è nata nel 1980, Dirty Dancing sta a lei come Titanic sta a me (1988). Non è un commerciale finto, che sarebbe stato peggio della antipaticissima nicchia.
Costruire protagonisti imperfetti e riuscire ad amarli profondamente è sempre una delle difficoltà più grandi. Perché significa dare vita e non vivere un personaggio. Fare il tifo per lui senza essere lui. Solidarietà e non identificazione. In definitiva: biografia senza il prefisso auto. E non è facile, credetemi, perché per portare avanti una storia, inevitabilmente bisogna attingere dall'esperienza personale. Puoi documentarti quanto vuoi, ma il vocabolario delle emozioni devi averlo scritto tu. E quindi il rischio è di creare protagonisti-statue-greche: perfetti, ma inveri. Non difettanti ma difettosi. Terribilmente insopportabili, tranne a te che scrivi e che ti senti loro, ti senti che se il romanzo dovesse essere una pièce teatrale o un film, la parte del(la) perfettissimo/a sarebbe la tua. E allora così non vale.
Il rischio però è anche quello di cadere nell'eccesso opposto. Cioè di prendere le distanze da tutto e da tutti e quindi scrivere un racconto in cui l'autore è solo ed esclusivamente narratore. E è un narratore giudicante e impietoso con i personaggi. Tipo Manzoni, ma ok Manzoni se lo poteva permettere, io mica tanto. Da qui, il passo per arrivare al moralismo è davvero più corto di quelli che facevo al liceo quando andavo in bagno durante le lezioni e volevo ritardare il più possibile il rientro in classe.
Invece allegra è tonda, non nel senso fisico, perché per fortuna non si parla del suo aspetto esteriore se non di "capelli castani e occhi verdi-marroni, che però sulla carta d'identità ha fatto scrivere solo verdi. E altezza 1,69 m". Dico per fortuna perché uno avrà pure il diritto di immaginarsela come vuole, no? E specialmente di non aver a che fare con lo stereotipo della ragazza cicciona che tutti prendono in giro ma che alla fine ha successo comunque e la congiunzione avversativa si potrebbe anche levare perché di solito quando arriva al raggiungimento della felicità è anche snella, visto che le sventure prima affrontate l'hanno smagrita senza bisogno di diete. (E tante grazie.) Oppure, peggio ancora: la ragazza magra come un chiodo ma complessata per questo. (Poverina eh). Magari presa in giro per i suoi capelli rosso ramato. (Guarda caso, una rarità). 
I punti neri, invece, li ho proprio graditi.
Il discorso che vi facevo prima sui personaggi lo capirete benissimo se e quando leggerete di Vera. Chi non vorrebbe essere come lei? Invece la odierete dal primo istante. E in questo caso la bravura della Gamberale scoppietta in quei fuocherelli di ironia che bruciano le doti impeccabili della superba psicoterapeuta Vera Salesani.
Un padre intellettual-rivoluzionario-aspirante-neoborghese, una madre americanina che infarcisce le frasi di parole inglesi (ma parole inglesi che più o meno tutti conoscono), un fratello che soffre della sindrome di Down, due zie lesbiche e un'amica presumibilmente ninfomane a cui la madre ha dato il nome Zuellen, che doveva essere Sue Ellen di Dallas ma né la donna - tale Paoletta, la zoppa - né l'impiegato dell'ufficio anagrafe sapevano come si scrivesse. Questi e molti altri i fili di corda umana che intrecciano il tappeto del romanzo. Lo stesso tappeto con gli elefanti di casa Lunare, forse. La stessa plastica di cui dovrebbe essere fatto l'orologio della Swacht con le bandiere delle varie nazioni. O le cornici di plastica che fanno da salvagente a gente che un tempo era (in)felice e oggi chissà.


Sono gli oggetti in questa storia i perni dell'io-narrante Allegra Lunare/Chiara Gamberale. 20 e 22 anni che spingono l'urgenza di raccontare, prima di dire addio a un piccolo mondo - la casa, appunto -, prima di affidare quel mondo a un'altra storia - quella dei signori Godalla -, prima di perdersi definitivamente e di ritrovarsi per un po'. Meglio, comunque, che la cosa ve la spieghi Chiara (Gamberale!)
Ho scritto Arrivano i pagliacci quattordici anni fa: avevo ventidue anni, ero alla ricerca pazza di non sapevo neanche io che cosa e quello che scrivevo lo era con me. Quando si fa così il rischio è quello di dare voce a un’urgenza, anziché riflettere bene per dare urgenza a una voce. E forse l’ho corso.
E sì, certi rischi vanno corsi. Fosse anche per la possibilità di trasformare un mi in un ci e un me in un noi

martedì 23 settembre 2014

Quell'eco, tanto logico quanto chic

Il verde sta all’eco come il rosso sta al radical. Sempre chic è. Prima è arrivato il commercio equo e solidale, poi la scoperta del biologico e del mercato a km zero. Da qualche tempo ha fatto la sua comparsa anche l’architettura sostenibile. Tetti erbosi, soffitti e pavimenti in legno e ovviamente quelle pareti trasparenti che fanno tanto clean, tanto pulito, quanto il cibo vegano che ormai spopola fotografato sui social network. Ma chi si figura la baita del nonno di Heidi, scoprirà purtroppo che non basta vendere il latte fresco della mucca che scampanella allegra sulle montagne per pagare casa.


Quanto costa quindi l’ecosostenibilità? Dipende. Ci sono senza dubbio soluzioni abbordabili, ma non immaginate le raffinate casette da rivista allo stesso prezzo dell’edilizia popolare: gli edifici eco-compatibili sono dall’8 al 20% più cari rispetto a quelli tradizionali. Il vero beneficio, però, si può ottenere sul lungo periodo, con risparmi sui consumi che sfiorano l’80%, e con le detrazioni fiscali. I risvolti economici sono stati analizzati da Irena (agenzia intergovernativa per le energie rinnovabili), Servizio Studi della Camera e Cresme (centro ricerche economiche, sociali e di mercato per l’edilizia e il territorio) alla fine del 2013 nel rapporto REthinking Energy. Lo studio mostra come le fonti rinnovabili stiano diventando sempre più competitive rispetto alle fossili, grazie per esempio alla diminuzione dei costi, che dal 2008 sono scesi dell'80% per il fotovoltaico e del 18% per l’eolico. Inoltre, grazie agli incentivi fiscali al 65% e al 50% dell’Ecobonus e della legge di stabilità, nel 2013 sono stati realizzati interventi per 27,5 miliardi di euro (+40% sul 2012) e per il 2014 si stimano investimenti per 33 miliardi da parte delle famiglie: una cifra importante, che vale il 2% del Pil italiano. 


Da un lato emerge quindi la crescita significativa delle rinnovabili negli ultimi anni, dall’altro si evidenzia però che senza potenziare ulteriormente gli investimenti e accelerarne la diffusione, non si potranno evitare gli impatti disastrosi del cambiamento climatico e rispettare il limite massimo dei 2 gradi centigradi di riscaldamento medio del pianeta sarà un’utopia.
Bisogna vivere verde, dunque. Come? L’ultima frontiera dell’ecologia è la casa passiva, cioè un'abitazione priva degli impianti convenzionali di riscaldamento. E’ detta passiva perché si assicura il benessere termico tramite il calore solare irraggiato attraverso le finestre e mediante quello prodotto all’interno dell'edificio e dagli occupanti stessi. Nipote della Green House americana, la casa passiva è arrivata in Italia con Norbert Lantschner, fondatore e direttore di CasaClima, il sistema di certificazione energetica degli edifici ritenuto dall’Onu una delle 21 azioni concrete da mettere in atto contro il cambiamento climatico. Partendo dal presupposto che il consumo domestico assorbe il 40% dell’energia primaria e che nei tetti, nelle pareti e nelle porte si nasconde una grande dispersione del calore, il progetto CasaClima o Casa Passiva si propone di ridurre il consumo energetico: dai 20 litri di gasolio per metro quadrato abituali a meno di un litro per mtq. Una famiglia che normalmente spende 1500-1800 euro annui per 100mtq ne spenderebbe così solo 200.

La prima casa passiva, la Passiv Haus di Darmstadt-Kranichstein

Non solo: un’abitazione simile produce anche energia da riutilizzare per usi nazionali e questa soluzione costituisce anche un’ importante possibilità di crescita sostenibile per i Paesi in via di sviluppo, oltre che un settore fertile per la fioritura di nuove figure professionali.
Un processo intelligente, che parte, proprio in senso letterale, dalle fondamenta: la costruzione deve avere un orientamento che massimizzi la luminosità interna della casa. E’ poi necessaria un’adeguata schermatura, quindi pareti grandi e spoglie, per lo più in vetro, che facilitino l’accumulo di energia. Infine, un’estetica compatta, sul modello delle serre.
Progetti irrealizzabili per l’Italia? Pare di no. Sicuramente il modello tedesco non può essere applicato a stampo nel nostro Paese, viste le differenze climatiche e di risorse naturali a disposizione. Nell’ottobre del 2013, tuttavia, a Bollate (Milano) è nata la prima casa passiva mediterranea, appunto realizzata secondo le caratteristiche morfologiche nostrane: una villetta di tre piani quasi interamente in legno. E non è finita: a Cascina, località San Prospero (Pisa), è in costruzione una casa passiva in canapa e calce.

La casa passiva mediterranea di Bollate

In costruzione la casa passiva in Calcecanapa, a Pisa


Ammettiamolo, però: alcuni di questi esemplari sembrano container. Ma se i primi modelli partenopei di casa passiva appagano l’ambiente e non l’occhio, Lantschner non ha lasciato nulla al caso e, dopo aver lasciato a febbraio 2012 la direzione di CasaClima, è ora a capo di un nuovo progetto, chiamato Climabita. Questo, rispetto alla creatura primogenita, pone un’attenzione particolare alla piacevolezza e alla qualità estetica.

L'interno di una casa passiva secondo il modello Climabita

La raffinatezza verde era già stata assodata dal Bosco Verticale di Stefano Boeri, realizzato nel quartiere Porta Nuova di Milano. Non certo un omaggio alle 900 specie arboree che ospita sulle sue terrazze né un esempio di architettura sostenibile, ma uno spunto di riflessione sul gusto estetico del ritorno alla natura, visto che il residence è stato annoverato tra i 5 grattacieli più belli del mondo. E quella dei giardini verticali è una tendenza che sta disegnando il nuovo perimetro dell'architettura contemporanea. Non solo suggestiva, ma anche utile, visti gli indubbi benefici per la termoregolazione e il filtraggio dalle polveri presenti nelle aree metropolitane, sempre più povere di spazi verdi. Un modo, quindi, per conciliare le esigenze dell'ecologia a quelle della cittadinanza.

Il Bosco Verticale di Milano

L’eco, dunque, non è solo –logico. Oltre alla necessità di risparmiarci futuri dissesti ambientali e l’esaurimento delle risorse scarse, siamo attratti da qualcos’altro. L’illusione di vivere "come una volta", coltivando l'insalata nell'orticello della nostra terrazza al quindicesimo piano. La magia di una casa silvestre, come quelle degli hobbit.
Eco, vintage e fantasy, in effetti,  stanno vivendo la gloria di uno stesso palcoscenico.

In Scandinavia costruivano case green già millenni
fa, realizzandole con le cortecce delle betulle, per  rivestirle poi di tufo.
 Le porte erano piccole non per la bassa statura degli abitanti, 
ma per la scarsità del legno necessario a realizzarle

sabato 6 settembre 2014

Nell'arte i luoghi (dei) comuni

Due mostre partorite dalla geografia bresciana. Inaugurate a due giorni di distanza. 
La prima, Mater Brixia, paesaggio contemporaneo è una fotografica sulla città, realizzata da Officinanove e allestita all'interno del Museo Diocesano. Vernissage 5 settembre e 19 ottobre, dalle 19.30 alle 21.30.
La seconda, Armonie espressive, è costruita sui dipinti di Elio Roberti, artista valsabbino che ha trasferito su tela i suoi luoghi all'interno della Galleria L'Altra Arte di Delfina Platto, a Bagnolo Mella. L'esposizione verrà inaugurata domani alle 17 e resterà aperta, dal martedì alla domenica, fino al 25 settembre.
Non c'è nulla di più magico dello shock nel guardare qualcosa che quotidianamente vediamo e basta. Luoghi e oggetti comuni, quasi banali, che puff...in un istante rispondono a un nuovo perché. Che non è quello del fare, non solo, ma quello del sentire. E' la tecnica di Marcel Duchamp, che nella sua decontestualizzazione esibisce come opere d'arte una ruota di bicicletta, un orinatoio, un ferro da stiro e tanti altri arnesi che in genere ci si aspetta di trovare in un ripostiglio o in un garage, non certo in un museo.


Esattamente lo stesso meccanismo alla base di queste due mostre.
Mater Brixia ricompone la struttura cittadina, articolandosi sugli elementi che ne fanno da cardini. Le porte, punti di uscita e di entrata dell'urbe post-moderna, confini inclusivi ed esclusivi. Porte antiche (Venezia, Milano, Cremona, Trento) e porte moderne (la stazione, l'aeroporto, i caselli autostradali). Poi le vie sotterranee: la metropolitana. Uno squarcio alle varie fermate che costellano la città e attraversano zone diversissime per aspetto, funzioni e ceti che le popolano. Infine le mutazioni: vecchie fabbriche riconvertite in centri commerciali o spazi pubblici disegnati in un'epoca e colorati successivamente con le tinte della contemporaneità.
Oltre alla qualità tecnica delle fotografie, c'è un quid in questa carrellata di visioni urbane. La stretta emotiva che ti si appiccica addosso mentre guardi con il solo intento di osservare ciò che di solito vedi perché ci passi davanti. E così finalmente vedi, vedi! Le piramidi di vetro fuori dal metrò, lo skyline dal Castello e dal Crystal Palace, la piazza antica che si riflette sul letto d'acqua di una fontana raso terra di recente costruzione.  E' bello non tanto e non solo perché la fotografia ne restituisce linee compatte e pulite, di solito impercettibili allo sguardo nudo. E' bello specialmente perché lo conosci benissimo, lo conosci tanto da riconoscerti al suo interno. Quella figura per strada, ripresa di spalle, quell'auto che sfreccia dopo il casello, la casa che proietta la sua ombra sull'asfalto...tutto questo potresti essere tu.


Chi non vive in città, chi trascorre le vacanze sulle valli che incorniciano l'hinterland, o più semplicemente chi coglie ogni possibile occasione per scappare dalla frenesia urbana sarà di certo più interessato alla seconda mostra. Anche Armonie espressive è una giostra visiva che ruota attorno al baricentro della quotidianità. In un contesto naturalizzato, però. Le onde erbose che fanno da tappeto alle passeggiate domenicali dei bresciani, i paeselli dove le campane suonano ancora ogni quarto d'ora, i fiumiciattoli in cui tutti abbiamo lanciato sassi da bambini, ma anche la fatica di una strada in salita o la tristezza di venti anime oltre gli ottanta, rimaste a popolare comuni in cui a esodare non sono solo i corsi d'acqua, ma anche le nuove generazioni. Panche in legno su cui siedono le comari a fare maglia e uncinetto, a chiacchierare dei giorni che furono, della gente che c'è e di quella che se n'è andata. E a zittirsi, con precisione quasi tecnologica, al passaggio di un forestiero. Una quotidianità che non si vive solo nei luoghi, in questo caso, ma anche nelle cose che fanno i luoghi. Fiori, frutta, alberi spersi ai margini di campi arati.
Roberti predilige gli elementi e le tinte terrestri, coniugandoli però a quelli acquiferi nell'incedere delle stagioni: i cieli cupi o tersi, bui o soleggiati umorizzano stradine e pinete, i manti nevosi recitano il letargo invernale, il riverbero delle pozzanghere, figlie dei temporali estivi, genera riflessi di luce che invadono la tela. Una pittura materica, quella dell'artista valsabbino, che ha percorso una parabola inconsueta: dal rigore e la serietà degli esordi alla leggerezza pacifica e solare di oggi. 


Città e valle.
Urbano e agreste.
Fotografia e pittura.
Ma con un denominatore comune. Il luogo. Quello che passiamo e trapassiamo ogni giorno, che è talmente nostro da non appartenerci neanche un po'. O forse che ci appartiene talmente tanto da non sentirlo nemmeno nostro.

martedì 2 settembre 2014

Attaccami, insultami…ma parla di me

Mai sentito parlare di Diego Diaz Marin? Quasi sicuramente no, altrimenti non avrebbe avuto bisogno di fare quel che ha fatto.
E' il motto dei vip, o meglio, degli aspiranti tali: non importa come, importa che si parli di me. E allora parliamone pure.
Diego Diaz Marin è un fotografo andaluso che lavora per la rivista di moda Harper's Bazar e che ha messo il suo estro creativo al servizio di vari brand, anche molto noti. Cavalli, Acquazzurra e Schield, giusto per fare qualche nome.
Negli ultimi mesi la sua fama si è espansa oltre i confini della nicchia fashion-addicted, con discussioni scoppiettanti, polemiche e anche una bella denuncia. La colata di miele che ha attirato il vespaio è stata la campagna pubblicitaria autunno/inverno 2014-2015 per Schield gioielli. 
Titolo: "Disorder Sisters".


Diverse associazioni per la lotta contro i disturbi alimentari hanno messo in allarme AgCom (Autorità garante per la comunicazione): quello non è uno spot di gioielli, ma un inno alla bulimia. Non deve essere diffuso.
Marin è stato denunciato. L'offesa di queste immagini rapaci non è solo al buon costume e alla sensibilità, ma anche e specialmente alla salute, per il messaggio che bisbiglia infimamente. Schield è un marchio di gioielli che si colloca nelle fasce alte del mercato. Roba da ricchi. Non tutti se lo possono permettere. E le due androgine fanciulle hanno quel velo etereo che rende la loro inquietudine distruttiva quasi affascinante. Per equazione: i disordini alimentari e i disturbi psichiatrici più che malattie mortali paiono tenenze chic. Roba da ricchi, appunto.
La replica è stata talmente ingenua da destare il sospetto che all'interessato non importasse molto difendersi: <<Non era assolutamente mia intenzione inneggiare alla bulimia>> (e infatti questo si era capito benissimo, lo scopo era usare la bulimia per scatenare la polemica) <<Volevo solo raccontare la storia di due sorelle che fanno giochi pericolosi tra loro>> (Pericolosi, appunto. Ma quali giochi? Non hanno forse un nome? E specialmente: mettersi le dita in bocca ed essere spettrali voi lo chiamereste "gioco"?).
Forse voleva imitare la mossa furbetta di Oliviero Toscani, che nel 2007, con la campagna "No anorexia, Nolita" tappezzò le città con la gigantografia mortifera di Isabelle Caro, modella belga morta tre anni dopo per anoressia. 


Già in quel caso non ci voleva nemmeno un QI medio per capire che l'intento era ben lontano dalla sensibilizzazione verso i rischi dei disturbi alimentari. Tant'è vero che anche allora i cartelloni furono presto rimossi. Non prima di aver soffiato sul falò dell'indignazione, ovviamente non per spegnerlo, ma per aizzarlo. Non prima di aver dato nelle mani di una donna malata la ragione per rimanere tale (d'altronde l'anoressia l'aveva resa famosa in tutto il mondo). Non prima di aver più o meno subliminalmente incitato all'emulazione migliaia di soggetti già sensibili al tema. Non prima, guarda un po', di aver rimpinguato il conto in banca di Oliviero.
Non è stata né la prima né l'ultima volta che Toscani se n'è uscito con le sue zingarate: schiaffi al decoro e alla sensibilità che sarebbe troppo generoso chiamare provocazioni. Ricordiamo tutti il bacio tra la suora e il prete per Benetton, così come sta circolando proprio in questi giorni, su tutti i media, la campagna di Fratelli d'Italia contro le adozioni gay. 


Il fotografo ha gridato allo scippo, accusando il movimento politico di aver indebitamente usato una sua fotografia. Ammettiamo anche che Toscani non fosse d'accordo. Che, poverino, non sapesse l'uso che sarebbe stato fatto del suo scatto. Resta la concretezza dell'oggetto incriminato: un'immagine con due coppie omosessuali, ritratte con il volto losco mentre sembrano contendersi un tenerissimo neonato. Oliviero non ha negato di averla scattata. Photoshop non arriva fino a questo punto. E comunque ammetterà anche lui che è difficile credere che i responsabili della comunicazione di FdI siano talmente sprovveduti da usare in una campagna del genere una fotografia d'autore senza il consenso dello stesso.
Insomma, perdonatemi se mi sorge il dubbio che Toscani non sia poi tanto dispiaciuto che in questi giorni si parli tanto della faccenda.
Sulla stessa scia, ma con la responsabilità della ditta produttrice, si colloca lo spot per la linea di vestiti Pakkiano, della Ghiaia Tonon di Motta di Livenza, un'azienda di abbigliamento nel trevigiano. "Salvata da morte certa" il titolo del video: una donna, in chador nero, si prepara a essere lapidata da alcuni uomini musulmani, ma all'improvviso arriva un messaggero: <<Lei veste Pakkiano>>, grida. Gli uomini  lasciano cadere a terra le pietre e la condannata si toglie il velo per mostrarsi in realtà ragazza bionda dai tratti nordici, con una t-shirt dalla scritta:"Sono ancora vergine".


Voleva forse essere un'ammiccamento alla difficile convivenza tra il Veneto leghista e la comunità musulmana? Un non-si-sa-di-che-utilità richiamo ai conflitti arabo israeliani che stanno insanguinando il Medio Oriente? Chi lo sa. Di fatto, il video, che sta raccogliendo migliaia di visualizzazioni sul web, ha innalzato un coro unanime di proteste contro la strumentalizzazione religiosa a scopo pubblicitario.
Fiato alla bocca, volume al portafogli. Una lezione ormai nota allo spagnolo Marin, già piuttosto incline all'aggressività iconica, come dimostrano i servizi passati per Schield (2012), dove l'allusione alla tossicodipendenza è quanto meno lineare:


e "Psichotic love" per Roberto Cavalli (2013).


Insomma, questione di tecnica affinata nel tempo. Per raggiungere uno scopo preciso. Appunto la polemica scatenata dalla campagna Schield 2014-2015. Infatti, sebbene probabilmente non vedremo mai Disorder Sisters sui muri urbani, sulle riviste o nei banner, adesso tutti sappiamo chi è Diego Diaz Marin.