Gli
egiziani sono bravissimi a fare la pizza. Ma perché un laureato in Egitto
diventa pizzaiolo in Italia?
I
lavori altamente qualificati sono off
limits per gli stranieri provenienti da Paesi non dell’Ue. C’entra ben poco
la crisi occupazionale, che al contrario sta incrementando le richieste di
professionalità specializzate, e il problema non si colloca nemmeno nella
saturazione del mercato. L’Italia ha bisogno di tecnici, creativi e scienziati,
ma non è in grado di trattenere i suoi, figuriamoci di attirarne da altri
Paesi. Eppure, se la “fuga dei cervelli” è ormai diventata un ritornello stanco
e abusato, il rifiuto degli stessi passa decisamente in sordina. Giovani o meno
giovani, uomini e donne che hanno studiato in Paesi extra europei, davanti alla
richiesta di poter esercitare in Italia la professione per cui si sono formati
trovano una porta sbattuta in faccia.
La
questione ha un nome e un cognome: discriminazione
di cittadinanza nel mondo del lavoro. Interi settori in grave carenza di
personale altamente qualificato rimangono inefficienti perché sia il pubblico
sia il privato non sono incentivati ad assumere lavoratori che non abbiano la
cittadinanza europea. Vincoli amministrativi demotivanti, ostacoli burocratici
troppo onerosi, diffidenza. Eppure già nel 2009 – quando la crisi economica era
ancora timida nel vecchio continente – la direttiva
2009/50/CE del Consiglio dell’Unione europea invitava i Paesi membri alla
creazione della Blue Card, un
permesso di soggiorno speciale (oltre i tre mesi) per i cittadini extra europei
che si prestavano a esercitare professioni altamente qualificate all’interno di
uno dei Paesi dell’Unione. L’obiettivo era quello fissato dal Consiglio europeo
di Lisbona nel marzo 2000: “trasformare la Comunità, entro il 2010,
nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in
grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori
posti di lavoro e maggiore coesione sociale”.
Il
testo di Bruxelles poneva però alcuni limiti: le politiche di assunzione, per
esempio, non potevano essere praticate per quei settori in cui i Paesi terzi
erano già carenti di risorse e di personale. Veniva inoltre raccomandata forte
attenzione per le “assunzioni etiche” in ambito di sanità e di istruzione. Come
dovesse essere però concretizzato il concetto di “etica” non era chiarito.
Veniva invece specificato che per “lavoro altamente qualificato” si intende un
impiego regolare – non in nero – per il cui esercizio servano e siano stati
svolti studi superiori. Come normalizzare poi i titoli derivanti da percorsi
diversi rispetto a quelli del Paese ospitante spettava ai singoli Stati, i
quali, sempre secondo la direttiva 2009/50/CE, erano tenuti ad accertarsi che i
posti vacanti non potessero essere coperti da forza lavoro nazionale o
comunitaria. In pratica la Blue Card era vista come rimedio in extremis già nel testo di partenza, presupposto non
ideale per favorire il cosiddetto “afflusso di cervelli”.
La
direttiva Ue ha sonnecchiato sulle scrivanie di Parlamento e Governo italiani
per tre anni. Finalmente, nel 2012, il suo recepimento, con il decreto legislativo n.108 del 28 giugno.
Il provvedimento aggiungeva l’articolo 27-quater al Testo Unico Immigrazione: i lavoratori
stranieri extracomunitari altamente qualificati potevano fare ingresso in
Italia, con apposito visto, al di fuori del regime delle quote, quindi in ogni
periodo dell’anno e senza che vi fossero i limiti numerici fissati con i
“decreti flusso”. Nell’articolo 27-quarter erano considerati lavoratori
altamente qualificati gli stranieri in possesso di un titolo di studio
rilasciato da istituti di istruzione superiore post-secondaria dopo un percorso
formativo di almeno tre anni. Ai soggetti interessati era concesso un permesso
di soggiorno elettronico: di durata biennale se titolari di un contratto a
tempo indeterminato; per un periodo pari a quello del rapporto di lavoro più
tre mesi, se in possesso di un contratto a termine. La Blue Card dava diritto a
un trattamento “pari a quello dei cittadini” e al ricongiungimento immediato
con i famigliari.
Anche
in questo caso valeva però la regola dell’”ultima spiaggia”: il datore di lavoro
che avesse voluto presentare la domanda avrebbe dovuto preventivamente
verificare al Centro per l'Impiego competente l'impossibilità di assumere un cittadino
comunitario. La successiva richiesta di nulla-osta, presentata con apposita
procedura online, doveva essere corredata da una proposta di contratto di
lavoro, o offerta vincolante, della durata di almeno un anno, insieme alla
certificazione dal Paese di provenienza del cittadino straniero che confermasse
il titolo di istruzione e la qualifica professionale. Il requisito retributivo
lordo annuale non doveva essere inferiore al triplo del livello minimo previsto
per l'esenzione alla spesa sanitaria: 24.789 euro. Una cifra modesta, se
confrontata con il minimo richiesto dalla Germania (46.400 euro), dall’Olanda
(63.000 euro) e dalla Francia (stipendio superiore alla media annuale del
compenso lordo nel settore di riferimento, calcolato annualmente dal Ministro
per l'Immigrazione).
A
distanza di tre anni, però, ecco il flop
della Blue card. Carente in Europa, quasi inesistente in
Italia. Solo 16mila i nulla osta di
lavoro rilasciati dai Paesi membri dell'Ue, 13mila in un unico Stato (la
Germania). Da noi appena 118. [Dati Agenda europea sulla migrazione maggio 2015].
Numeri bassissimi, considerando le premesse alla base del progetto: la popolazione
attiva nell’area comunitaria diminuirà del 50% entro il 2050. Secondo uno
studio condotto da Bdo International e dall’Hamburg Institute of International
Economy, Germania, Portogallo e Italia sono i Paesi europei con il più basso
tasso di natalità e per far fronte alla progressiva perdita di forza lavoro
devono incrementare il flusso di migranti inseriti nelle loro economie.
La
discriminazione attuata mediante le barriere all’ingresso nel mondo del lavoro altamente
qualificato non solo contrasta con i principi etici a cui fanno riferimento le
politiche dell’Unione, ma addirittura stride con gli interessi della stessa Comunità.
La
carta blu è stata inserita nell’Agenda europea al fine di favorire il
potenziamento e la valorizzazione della direttiva 2009/50/CE, eliminando gli
ostacoli alla sua realizzazione. Tale riesame, discusso lo scorso 26 giugno,
riguarda il campo di applicazione della carta blu: il parere degli imprenditori
sulle soluzioni per renderla efficace e il miglioramento della mobilità
all’interno dell’Ue per chi ne è in possesso. Nel frattempo, a maggio 2015, in
Italia è stata semplificata la procedura di acquisizione della Blue card: le
aziende che sottoscrivono un protocollo d’intesa con i ministeri dell’Interno e
del Lavoro possono far arrivare i lavoratori altamente qualificati inviando una
semplice comunicazione via internet allo Sportello Unico per l’Immigrazione,
senza dover attendere una successiva autorizzazione. Il lavoratore si reca poi
al consolato italiano nel suo Paese, dove gli viene fornito il visto d’ingresso
in Italia. Una volta qui, sottoscrive il contratto di soggiorno e richiede la Blue
card.
Questo
è solo un esempio della difficoltà – italiana ed europea - a integrare in
maniera effettiva gli stranieri nelle varie realtà professionali. Un tipo di
discriminazione che fa da silicone all’ingresso nel mondo del lavoro per
migliaia di soggetti e che si sviluppa non in ufficio o in fabbrica ma prima
ancora di potervi entrare. Persino i concorsi pubblici sono per la maggior
parte inaccessibili ai cittadini di Paesi terzi, nonostante dal 2013 le PA
siano tenute per direttiva comunitaria a riscrivere i bandi, eliminando la
clausola di cittadinanza. A prescriverlo è stata la legge n. 97 del 6 agosto 2013. Con forti limitazioni. Innanzitutto
gli immigrati non possono entrare nella magistratura, nella polizia o nell’esercito,
dal momento che hanno “diritto” ad aspirare soltanto a ruoli che “non implicano
esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o non attengono alla tutela
dell’interesse nazionale”. La normativa europea dà inoltre la possibilità di
partecipare ai concorsi pubblici solo a chi è in possesso di un permesso di
soggiorno CE di lungo periodo, a chi ha ottenuto lo status di rifugiato o la
protezione sussidiaria. Restano dunque esclusi gli stranieri con permesso di
soggiorno semplice a tempo limitato e anche per gli altri la tutela è solo
formale, visto che ben poche amministrazioni hanno adeguato i loro bandi di
concorso. A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Milano (5 marzo 2015)
ha ritenuto discriminatorio il bando per l’accesso alle graduatorie di
insegnamento DM 353/2014 nella parte in
cui esso prevede il requisito di cittadinanza italiana o comunitaria, senza
includere i titolari della carta blu. Lo stesso bando ha inoltre collocato gli
stranieri ammessi alle graduatorie di III fascia per l'insegnamento di conversazione
in lingua estera in posizione subordinata rispetto ai cittadini italiani. Oltre
alla modifica del regolamento e alla riapertura delle domande di iscrizione con
adeguata pubblicità, il Miur ha dovuto rimborsare alla parte lesa più di 3.000
euro.
Alberto Guariso |
“La
discriminazione – sostiene l’avvocato Alberto Guariso, esperto di diritto del lavoro
– in questo come in altri casi non è provocata solo dal razzismo, ma è frutto
della mera inerzia da parte delle pubbliche amministrazioni, che spesso non si
scomodano ad adeguare i bandi alla normativa vigente”. Secondo Guariso, “nemmeno
le cooperative si salvano, perché inseriscono gli stranieri soltanto in
realtà professionali basse, creando una segmentazione del mercato e della
società: ai cittadini i lavori qualificati, agli altri quelli degradanti”.