Je suis Charlie Hebdo. Tutti lo siamo. I colpi di kalashnikov che alle 11,30 del 7 gennaio 2015 hanno annegato nel sangue il numero 10 di rue Nicolas Appert non hanno "solo" trucidato dodici persone, hanno ucciso la
libertà. Una carneficina, quella che ieri ha annientato la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo al grido "Allah Akbar", che colpisce l'umanità intera. Nel diritto di informazione, che non si esplica soltanto con il dare e ricevere notizie, ma anche con la possibilità di esprimere la propria opinione. Una libertà posta a fondamento della democrazia, perché, attraverso il flusso eterogeneo di cronaca e di critica, ogni essere umano si costruisce un credo, politico, etico, religioso e di altra sorta, ed è meno debole davanti ai soprusi dei poteri. Non a caso, il giornalismo viene definito "cane da guardia della democrazia".
Art. 18 Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.
Art. 19 Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
(Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, Onu, 10/12/1948)
Nessuna religione e nessuna politica ha potere di vita o di morte sull'uomo. Siamo indignati, per la brutalità con cui sono stati soppressi diritti insopprimibili. Atterriti, per l'ennesima strage in quella che dovrebbe essere una società civile. Ma dovremmo essere anche preoccupati, perché quegli uomini incappucciati hanno sgretolato in una manciata di minuti un lungo percorso di integrazione culturale, che ha cercato di farsi strada per decenni, in Occidente come in Oriente, tra cristiani e musulmani. Il dialogo è messo in pericolo insieme alla credibilità dei gruppi islamici moderati. Dei cittadini musulmani emigratii in Europa e negli Stati Uniti e di quei paesi che, pur avendo l'Islam come religione di Stato, perseguono la pace tra tutti i cittadini del mondo.
L'attentato ha allargato la faglia tra il noi e il voi, alimentando xenofobia e ignoranza. Per capirlo bastano le dichiarazioni di alcuni politici "Abbiamo il nemico in casa" (Matteo Salvini), "Stop alle moschee" (Giorgia Meloni) e soprattutto vanno tenuti d'occhio i social network. E' in queste piazze virtuali che le voci rimbombano, deformate e deformanti, che le generalizzazioni funzionano benissimo perché sembrano democratiche, quando in realtà sono solo più semplici da capire. Il rischio delle notizie in tempo reale è proprio questo: la foga di sapere e dire qualcosa a riguardo non si incastra nella complessità dei fenomeni. Così nascono gli slogan razzisti ed estremisti, così si generano stereotipi e leggende metropolitane. Così chi non ha ragioni per parlare può affidarsi alla rabbia e alla paura della gente.
A uccidere non sono solo i colpi di kalashnikov ma anche le parole.
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