lunedì 12 gennaio 2015

La bambina, il mercato e la cintura

Forse le avevano promesso che in quel mercato avrebbe potuto comprarsi qualche dolcetto. O un giocattolo. Oppure che poteva tenersi i soldi avanzati dagli acquisti che le avevano commissionato. O ancora, più tragicamente, le avevano mostrato una via verso il paradiso, un luogo dove tutti i bambini hanno un tetto sopra la testa, genitori ad accudirli, pasti regolari e balocchi con cui divertirsi. 
Forse le avevano detto che la cintura era per proteggerla. Invece l'ha fatta esplodere, probabilmente con un telecomando a distanza.
Sono queste le ipotesi con cui si cerca di delineare il contorno delle stragi che sabato 10 e domenica 11 gennaio hanno insanguinato i mercati nigeriani di Maiduguri e di Potiskum. Gli scoppi sono partiti dai corpicini di tre bambine. Avevano dieci anni a far tanto, ma di loro non possiamo dire Je suis, perché non avevano un nome né un cognome. Perché non erano francesi ma nigeriane. Perché sono figlie di quella miseria che ha dato in pasto se stessa ai fondamentalisti di Boko Haram. Orfane, probabilmente. Oppure vendute da familiari troppo poveri per non accettare soldi e protezione.


Ricordano le vittime sacrificali delle sette sataniche, che immolano sull'ara del male i corpi puri dei bambini. O gli agnelli offerti dagli ebrei in ricordo dell'Agnus Dei, Gesù, che sacrificò Se stesso sulla croce. Tutte le religioni sacrificano. Tutte le religioni combattono o hanno combattuto. Quando parliamo della jihad islamica ci scordiamo delle crociate cristiane. Quando piangiamo i 17 morti di Parigi ci scordiamo dei 23 morti nigeriani.
Non è una questione di colpe e di responsabilità. E' il tripudio della rabbia e della paura, perché di esse si alimentano le divisioni tra noi e voi, tra cristiani e musulmani, tra occidentali e orientali. Il bisogno di sentirsi uniti contro un nemico comune: concreto, mirato e mirabile.
Dopo il 1945 l'asse di scontro è stata per oltre 50 anni orizzontale: ovest-est, Stati Uniti ed Europa Occidentale contro Unione Sovietica ed Europa Orientale. Dopo l'11 settembre 2001 l'asse è diventata verticale: nord-sud, emisfero cristiano contro emisfero musulmano. Che cos'hanno in comune la guerra fredda e la guerra contro il terrorismo fondamentalista? Entrambe si legittimano di valori. Tutti più o meno condivisi e condivisibili. Tutti altrettanto contestati e contestabili. La libertà (di commercio, di proprietà e iniziativa privata, di manifestazione del pensiero, della donna), l'uguaglianza (di diritti, di beni e consumi), la pace anche a prezzo della guerra. Non sono tutti principi che potremmo associare agli uni e agli altri schieramenti?
Queste guerre hanno però alla base un altro elemento, che ne costituisce il collante. Sono conflitti che si sostanziano e si muovono verso interessi economici. Il petrolio. Il gas. I monopoli commerciali.
La guerra fredda aveva il carattere della post-modernità. Fredda era perché si reggeva su minacce. Perché le armi nucleari erano diverse da cannoni, mitragliatrici e carri armati. Perché, pur nella paura e talvolta nella paranoia, la società civile si era tenuta ben lontana dai micro scacchieri bellici che rappresentavano le miniature di quel conflitto internazionale. Vietnam, Balcani, paesi dell'Est Europa e del Medio Oriente, dove ad armare e ad aizzare le pedine locali c'erano palyers globali.
L'11 settembre ha segnato il giro di boa verso un ritorno all'arcaicismo e alla tribalità. Il mezzo dell'epoca contemporanea, l'aereo, si è schiantato contro il simbolo che della stessa ha rappresentato progresso, accentramento demografico e sviluppo urbano: il grattacielo. Mietendo migliaia di vittime e riportando la lotta alle armi da fuoco. Colpi di kalashnikov e bombe anche nelle città dell'Occidente civilizzato e sviluppato. Madrid, 2004; Londra, 2005; Parigi, 2015. Giusto per ricordare i casi più eclatanti. E tra una coltellata e l'altra inferta a Europa e Stati Uniti, di morti ce ne sono milioni in tutte quelle località che la maggior parte di noi non saprebbe nemmeno cercare sul mappamondo. 
Coloro che uccidono nel nome della jihad, della religione o dell'Islam provocano atteggiamenti di
islamofobia, che lo vogliano o meno.
Queste le parole del Presidente iraniano Hassan Rohani. Ma se è vero che gli attentati infrangono i tentativi di integrazione globale, dovremmo anche chiederci: è davvero possibile, e specialmente è davvero voluta, questa integrazione? Non sarà una parola più elegante per invocare la glocalizzazione in stile Mc Donald's e rendere il mondo fatto di non-luoghi?
Il problema è che sono le stesse minoranze a non auspicarla, poiché leggono in quella parola un altro significato: omologazione e perdita di identità culturale. D'altronde in Occidente la conditio sine qua non per l'integrazione è il rispetto, da parte delle minoranze, delle regole della maggioranza. E allora sarebbe forse meglio porsi un obiettivo più modesto e realistico: la convivenza pacifica. Accanto alla condivisione di quello che può essere condiviso: un campo da calcio, una pizza, un pacco di pennarelli tra compagni di classe.
L'alternativa è un pianeta costituito non da società, ma da brandelli di esse. Il morbo che distrugge i popoli si concretizza così nel corpo spezzato della piccola al mercato di Maiduguri: un pezzo sulla strada uno tra le gabbiette dei polli.

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