lunedì 27 aprile 2015

La casa sul meteorite

Un romanzo giallo che ha per protagonista uno scrittore golfista sinceramente non l'avrei mai
comprato né letto. Non l'avrei fatto perché sono come la maggior parte dei lettori: erroneamente convinta che esistano un genere, una tipologia di personaggi e una serie di contesti in grado di piacermi. Tutto il resto non è escluso, ma guardato con una convinta quanto inconfessabile diffidenza.

Insomma, se quella sera di dicembre non avessi incontrato in un bar Roberto Van Heugten, aurore di La casa sul meteorite, se non l'avessi reputato simpatico (o antipatico) e quindi interessante, non starei scrivendo questa recensione. Il fatto poi che la trama si svolga nella città in cui vivo - o quasi, visto che il giallo è ambientato sulla riviera gardesana - ha senza dubbio giocato a favore. Perché sapete, Brescia non è Roma, Milano, Parigi o New York, che di romanzi ivi ambientati ne hanno mille e più. La mia è una provincia né piccola né grande, né rustico borgo antico né metropoli dichiarata. Ne conviene che resti spesso nell'ombra, che in terre mie si faccia quel tanto di cui si parla poco. E allora viene naturale il senso di gratificazione nel trovare anche solo citato all'interno di un libro il paesello in cui so che abita una mia amica e in cui fanno lo spiedo buono (Serle). O il comune che per anni insieme a mia sorella ho sfottuto per il suo nome strano (Polpenazze). E quelle colline vestite di vigneti averle ben impresse. Conoscere il sapore del Chiaretto che lo scrittore offre al suo cliente e al prete incauto in uno dei primi capitoli. Immaginare che quel formaggio consumato a merenda sia la Rosa Camuna e quel salame il nostrano che si produce nelle campagne qui attorno.


Essermi fatta un'idea di Roberto Van Heugten prima di leggere il suo libro probabilmente mi ha influenzata, ma è stato un buon pre- il suffisso che ho anteposto al mio giudizio. Lo è stato perché ha accresciuto la piacevolezza della lettura, laddove mi sono divertita a rintracciare i confini tra autore, narratore e protagonista. Barriere estremamente labili, invero. E non solo perché uno scrittore costruisce una storia ponendovi un (altro?) scrittore come protagonista, ma anche da particolari che la mia mente aveva probabilmente captato le tre volte in cui ho visto Roberto e messo a fuoco solo
quando mi sono immersa nelle righe del suo romanzo. Anche Facebook mi ha dato una mano. Lì ho scoperto che gioca a golf e che ama il cibo. Una foto lo ritrae con un sigaro infilzato tra le labbra, mentre provoca l'obiettivo immerso in una nuvola di fumo. E mi sono detta: ma come? Tutto quel lamentarsi del protagonista per i toscanelli del povero Enzo (lo scialbo uomo desideroso di far mettere per iscritto la sua biografia)?

Ebbene sì, degli scrittori bisogna proprio diffidare, perché tutto ciò che è vita diventa romanzo e forse anche viceversa. D'altronde il miglior modo per costruire storie è distribuire la propria esperienza su un ventaglio di personaggi: magari dare a uno un vizio e all'altro una virtù che ci appartengono. Prendere spunto dal neo sul naso di un professore per trasferirlo su quello di una giocatrice di poker incallita. Riempire le stanze di un cottage inglese del profumo di torta alle mele annusato tante volte in casa di nostra nonna. E chi mi dice che anche io - incosciente e sprovveduta - non sia stata concime di qualche scrittrice o scrittore che mi spiava senza che me ne accorgessi?

La casa sul meteorite non è Il Codice Da Vinci o il Circolo Dante, non ci sono mille nomi da tenere a mente né dietrologie da smascherare. Un po' di attenzione però è necessaria, come per ogni giallo che si rispetti. E, sempre perché di giallo stiamo parlando, nonostante l'analisi induttiva, si corre il serio rischio di restare sorpresi dal finale.  


sabato 18 aprile 2015

iNonno

Chi l'avrebbe mai detto che tra le app dei nostri telefonini sarebbero comparsi anche i nonni? Vecchie memorie narrate attraverso la tecnologia di ultima generazione: è questo il senso di iNonno, applicazione pensata per smartphone e tablet con lo scopo di valorizzare il patrimonio storico, culturale e artistico del territorio lombardo attraverso le testimonianze di persone anziane.


Il progetto è nato nella Scuola di Dottorato in "Formazione della persona e del mercato del lavoro" dell'università di Bergamo e ha già preso piede anche a Milano e a Brescia. A riempire le mappe delle città lombarde sono contenuti multimediali - interviste audio, video, testi e immagini - forniti dagli anziani che, in questo modo, raccontano aneddoti ed esperienze storico-personali.

Le testimonianze, contestualizzate da un cappello introduttivo, sono suddivise sia per aree geografiche, mediante le mappe, sia per tema. Diverse associazioni e archivi storici hanno messo a disposizione il loro patrimonio per accrescere e mantenere aggiornati i contenuti di iNonno.

Un'applicazione non solo narrativa ma anche informativa, che contiene una sezione specifica in cui vengono segnalati eventi, manifestazioni e conferenze relativi al recupero della memoria storico-culturale, oltre che opportunità per svolgere attività di volontariato all'interno di cooperative sociali e case di riposo per anziani.

L'iniziativa, sorta in previsione di Expo 2015 e finanziata da Regione Lombardia, ha l'obiettivo di favorire lo scambio intergenerazionale, con la modalità del racconto orale, tipica dei nonni, inserita nel contesto digitalizzato e iper-testuale dei ragazzi di oggi.

domenica 12 aprile 2015

Sì alle palme, ma solo in spiaggia

Le palme stanno bene solo sulle spiagge. Altrove sono kitsch o peggio portano effetti dannosi. Come nel caso dell'olio.
Chi di voi (non) ha mai sentito parlare dell'olio di palma? Negli ultimi anni è diventato lo spauracchio dei consumatori più informati, ma da lungo tempo è stato il servitore invisibile (in tutti i sensi, e poi scoprirete perché) dell'industria alimentare.

Facciamo un passo indietro. Dai frutti delle palme da olio, detti Elaeis guineensis, si ricava appunto l'olio di palma. Non lo dobbiamo quindi confondere con l'olio derivato da altri frutti che crescono anch'essi sulle palme, come l'olio di cocco o l'olio di semi di palma, detto anche olio di palmisto.

Gli Elaeis guineensis sono molto deperibili e, dopo essere raccolti, vengono sterilizzati a vapore, snocciolati, cotti, pressati e filtrati. L'olio che se ne ricava, di colore rossastro, non è ancora il comunemente noto olio di palma. Si tratta semmai di una sostanza rossastra, ricca di beta-carotene e dall'odore di violetta. Decisamente poco versatile per l'industria alimentare. Ma ecco che arriva un nuovo processo di raffinazione, che in pochi minuti, con la bollitura, distrugge tutti i carotenoidi e gli antiossidanti - il pregio della sostanza iniziale - lasciando solo, indovinate un po' - i grassi saturi, di cui gli esperti in nutrizione consigliano un consumo moderato. A questo punto l'olio di palma ha assunto le sue fattezze ideali: trasparente o giallo chiaro, inodore, insapore, semi-solido a temperatura ambiente.

Decisamente più economico rispetto a burro, olio di semi di girasole, olio di cocco e ovviamente olio d'oliva. Perfetto per dare una consistenza irresistibilmente cremosa a creme e glasse. E sì, purtroppo anche alla Nutella. Ma non solo. Ideale per friggere, visto che la sua composizione chimica ha legami semplici e stabili (al contrario, per esempio, dell'olio di oliva) e quindi resiste bene alle alte temperature. Dona croccantezza ai biscotti secchi che abbiamo saggiamente preferito a quelli al burro, considerati invece bombe indigeribili. Conferisce friabilità ai crackers che le mamme si ostinano a propinare ai loro bimbi come merendina sana per rompere la mattinata scolastica. 



In realtà stilare un elenco è impossibile, oltre che controproducente, perché porterebbe a inutili allarmismi. Non possiamo evitare di introdurre grassi saturi, anzi, non dobbiamo. Il burro, che pure rientra in questa categoria, contiene importanti vitamine ed è utile anche per un buon funzionamento dell'intestino. Senza contare che assumere grassi saturi prima e dopo un robusto cocktail alcolico aiuta a ridurre gli effetti del fastidiosissimo post-sbronza. Il problema dell'olio di palma, in definitiva, è che ha tutti i difetti e nessun pregio degli altri grassi saturi. Ma non per questo vale la pena concentrare tutte le nostre energie quotidiane per procacciarci esclusivamente cibo salutare. Possiamo avere di meglio, semplicemente usando buon senso e moderazione: nessuno avrà scritto sull'epigrafe: morto per aver mangiato una crostatina contenente olio di palma. Vero è che la quasi totalità di prodotti presenti sugli scaffali dei supermercati lo contiene, spesso mascherato dall'espressione "grassi/olii vegetali". Da dicembre 2014 la normativa europea (Regolamento Ue n. 1.169/2011) ha reso obbligatoria l'enunciazione di ogni singolo componente di questi non meglio identificati grassi e olii vegetali, sospettando - per così dire - che qualcuno facesse l'Azzeccagarbugli della situazione. 

Di fatto, tante etichette non sono ancora a norma, ma state pur certi che, con tutte le polemiche cantate e urlate nell'ultimo periodo, se un'azienda non usa olio di palma lo scrive e lo ripete a chiare lettere. Le altre tacciono. Tranne quelle che proprio non se lo possono permettere, come Barilla e Ferrero, che hanno fornito spiegazioni sull'utilizzo dell'olio di palma nei loro prodotti. Con risultati discutibili. Barilla, per esempio, si dilunga in un'ampia descrizione dell'impiego aziendale sull'ingrediente incriminato, ma, per dirla in forma popolare, si butta la zappa sui piedi. Uno degli aspetti che forse poteva alleviare la posizione di questo grasso cancerogeno e della sua coltivazione decisamente poco ecofila, è la forza lavoro impiegata in Indonesia, Malesia e Uganda, regioni che detengono circa il 90% delle coltivazioni. Insomma, il concetto era: se quest'olio è dannoso per la salute, è causa di deforestazione su chilometri di polmoni verdi, stravolge le regole concorrenziali di mercato perché sfavorisce i produttori che utilizzano ingredienti genuini, almeno dà un lavoro, seppur modesto, a molte persone nei paesi in via di sviluppo. E invece no: Barilla pone così tanti paletti ai produttori in loco - per il rispetto dell'ambiente, certo, ma allora evitiamo addirittura l'olio di palma, no? - che ci si chiede se esistano partner all'altezza dell'azienda parmigiana. O se invece si giunga a compromessi. O se ancora, al di là di tutto, queste coltivazioni siano davvero un'opportunità per gli indigeni e non portino invece bambini a raccogliere semi dalle piante ed essere ricompensati poi con pochi spiccioli.



Purtroppo, soprattutto in Italia, il dibattito è ancora troppo acerbo per aver prodotto risultati concreti. Va bene, Mulino Bianco, dopo la segnalazione de Il fatto alimentare si è decisa a togliere la dicitura "ingredienti della tradizionale pastafrolla" dai suoi Inzupposi. Ma non ha tolto l'olio di palma dalle materie usate per questi biscotti dal nome così elegante.

In Francia la lotta è ben più avviata, tanto che è stata imposta una tassa sui prodotti che contengono l'olio di palma. La Gran Bretagna, ancora nel 2009, aveva vietato l'immagine in uno spot pubblicitario, che mostrava la lavorazione dell'olio di palma all'interno di una campagna eco-sostenibile. Da noi è arrivato il Fatto alimentare con una petizione a cui hanno già aderito in più di centomila.
Dovrebbe essere un diritto di tutti. Dei consumatori, non più obbligati a sezionare le etichette alimentari alla ricerca dei pochi prodotti - spesso nemmeno allettanti - che non contengano olio di palma. Dell'ambiente, che sta andando incontro a una progressiva deforestazione e bruciatura dei terreni, con danni climatici e all'ecosistema che purtroppo vengono ribaditi solo a catastrofi avvenute. Delle popolazioni in via di sviluppo, che possono essere aiutate a valorizzare i loro prodotti e non a distruggerli per venderli a basso prezzo. Ai produttori dell'industria agro-alimentare, affinché diano vita a un regime di concorrenza libera e reale, non drogata.

mercoledì 8 aprile 2015

L'abito non fa la principessa

Se è vero che l'abito non fa il monaco, lo stesso non si può dire per le principesse Disney. Trisavore (ma più imperiture e avvedute) delle Barbie, portano pregi e qualità (i difetti non li hanno, ma il binomio suona meglio) nel loro essere in costume. Come Cenerentola, che non è sfuggita alla filmizzazione. Nell'attuale put-pourri di carne e disegni, di libri e schermi, non poteva mancare al cinema la storia della fanciulla che si recò al gran ballo a bordo di una zucca trainata da topi e lucertole.

Ci ha pensato Kenneth Branagh, con un lungometraggio molto fedele alla fiaba che la Disney mise in cartoon nel 1950, a prelevarla dai testi dei fratelli Grimm e di Charles Perrault
Naturalmente Cenerentola è bionda. Da bambina indossa un vestito bianco a fiori, con le ballerine azzurre. Crescendo sembra prediligere il rosa confetto, ma non abbandona le fantasie floreali.
La fata madrina (Helena Bonham Carter), buona pace all'anima sua, le fa notare che al ballo con il vestito della prima comunione non è il caso di andarci. Ma mica si prende la briga di fargliene uno più adatto alla sua età (mettiamo che sedici anni non li abbia ancora, tutto quel pizzo e taffetà è comunque uno smacco). Però cambia il colore. Azzurro puffo. Con tanti brillantini, veli e velette. Forse non aveva capito, la fata, che quella sera il principe doveva scegliere la moglie, non la torta nuziale. Il vestito, comunque, le stava bene. Ma solo perché a indossarlo era Lily James (quella di Downtown Abbey e di Broken).



Ma veniamo alle mise più interessanti. Le sorellastre. Innanzitutto, da gemella omozigote, non ho potuto non notate, con amarezza, che Anastasia e Genoveffa sono identiche. Cambia solo il colore dei loro abiti. Come se un cattivo non abbia diritto a una personalità definita. O meglio: come se l'essere uguali sia di per sé già un punto a sfavore, una magagna da affibbiare all'antagonista. Di fatto, la questione ha una sua logica: una mezza mela non è una mela piccola. Se avete due magliette identiche le userete con meno cura, sicuri di poter contare sulla riserva. Il doppio, o l'unicum diviso a metà, deprezza il valore. Più o meno per la stessa ragione che muove i mercati: all'aumentare dell'offerta rispetto alla domanda, i prezzi delle merci calano. 

Anastasia (Holliday Grainger) e Genoveffa (Sophie McShera), in ogni caso, sono vestite meglio di Cenerentola. Tralasciando gli abiti tempestati di finti rubini e zaffiri, dal gusto eufemisticamente pacchiano, la sera del ballo, altre loro tenute non sono da bocciare. Almeno non del tutto. Per esempio quei golfinetti anni Settanta nelle ultime scene del film. Deliziosi. Anche i colori, rispetto al tripudio di puffo e big bubble indosso alla protagonista, hanno una certa dignità. Giallo e viola, con qualche deviazione nel magenta e nell'arancione. Tinte che nella semiotica cromatica delle fiabe sono quasi sempre associate ai cattivi (pensiamo solo a Malefica, alla matrigna di Biancaneve, a Ursula nella Sirenetta...Fanno eccezione Esmeralda e Anastasia, che, pur essendo eroine, sono vestite rispettivamente di viola e di giallo).



La matrigna, Lady Tremaine, appunto. Cate Blanchett fa la sua comparsa vestita di nero. Uno stile dark che ricorda tanto la sua corrispettiva de La bella addormentata. Poi la vediamo trasformarsi in leghista convinta. Con un'acconciatura per cui dovremmo dubitare della sua indifferenza agli animali. Il raccolto sembra fatto apposta per ospitare un nido di uccellini.





Anche per il principe (Richard Madden) tenuta green, con una giacca sfavillante quasi quanto i suoi occhi. Ma i costumisti non risparmiano nemmeno a lui qualche beffa. Come le simpaticissime calzamaglia bianche, che, con grande delusione delle signorine, non lasciano purtroppo trasparire nessuna dote particolare in zona sottombelicare.



Una chicca ve la lascio come dulcis in fundo. Notate i collant di Ella, ben visibili quando il principe le infila la scarpetta (di cristallo, ma comodissima). Mia nonna ne andrebbe matta.



mercoledì 1 aprile 2015

Intercettazioni, tutto regolare

Qualcuno inizierà a parlare in codice mentre è al telefono. Anzi, c'è chi lo fa già. Lo spauracchio delle
intercettazioni affanna Italia e italiani in questa corsa a piedi nudi verso lo svecchiamento anti-corruzione e anti-burocrazia.
I politici paiono più immolati dei capretti e degli agnelli che troveremo in tavola tra qualche giorno. Due casi recenti, quello dell'ex ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi e quello dell'ex premier Massimo D'Alema, ornano l'altare del sacrificio. Come è possibile - si chiedono costoro - che i giornali pubblichino stralci di intercettazioni in cui compaiono i nostri nomi senza che nessuno abbia avviato un'indagine a nostro carico? Un affronto alla reputazione, un insulto alla dignità umana?

Sono pochi quelli che, nel sentire tali urla di dolore, riescono a rimanere indifferenti. La strategia è pressapoco la stessa usata da Silvio Berlusconi quando dirottava le sue inadempienze civiche e le sue (ir)responsabilità pubbliche sul piano personale. Rivendicare il diritto alla privacy come ogni cittadino, mantenendo però l'impunità e l'insindacabilità delle più alte figure istituzionali. Qualcosa non quadra. Non solo perché esiste un limite alle libertà del singolo ed è sancito dal bene collettivo, di cui l'informazione è la pietra angolare. Qualcosa non quadra anche perché le acclamazioni scandalizzate vanno contro norme legislative che gli stessi gruppi politici e parlamentari a cui questi signori sono legati hanno approvato e sottoscritto.

Era luglio 2010 quando la Commissione Giustizia alla Camera approvò un emendamento dell'Udc (che, giusto per chiarire, insieme a Ncd - a cui appartiene Lupi -, costituisce la coalizione di Alleanza popolare) che sopprimeva la norma, inserita nel ddl intercettazioni al Senato, con la quale si estendeva la necessità di chiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza prima di usare e pubblicare i testi delle intercettazioni effettuate nell'ambito di indagini verso terzi, ma in cui comparivano anche i parlamentari. Emendamento votato anche dal Pd (di cui è membro D'Alema).

In altre parole, se prima non potevano essere utilizzate in toto, senza autorizzazione del Parlamento, le registrazioni in cui comparivano deputati e senatori, adesso l'obbligo di richiesta alla Camera o al Senato vale solo se l'intercettazione viene usata per indagare direttamente contro un parlamentare, mentre rimane libera e pubblicabile (entro i limiti previsti dalle regole dell'ordinamento giudiziario) se a essere indagato è un terzo. 

Il perché è abbastanza evidente. Prima dell'abrogazione di quella norma, i parlamentari diventavano scudi di protezione a vantaggio di soggetti e attività criminose, le cui comunicazioni non potevano essere utilizzate solo perché magari compariva il nome di un membro del Parlamento e la relativa camera di appartenenza votava il segreto. 

La possibilità di usare le intercettazioni in ambito giornalistico, pubblicando sui quotidiani gli atti delle indagini, non solo consente di fare luce su soggetti che, anche se non in politica, hanno un ruolo sociale importante e coinvolgono tanti cittadini, ma mettono anche i politici in una condizione di pubblicità costruttiva, dove, sentendosi vincolati al ruolo di cui si fanno portatori, più difficilmente agiranno contro il bene comune.