E' la prima volta che mi occupo di depressione in questo spazio. E lo faccio levando ogni pretesa medico-diagnostica. Semplicemente, noto attorno a me l'incedere incalzante di questa patologia e mi sembra quindi giunto il momento di fare chiarezza.
Chi non si è mai definito depresso? Perché magari era lunedì. O perché non aveva passato un esame. O ancora per la reclusione in casa a studiare.
Ecco, facciamo un passo indietro. La depressione, quella di cui sto per raccontare, è un'altra cosa. Non avendola mai provata di persona riesco solo a iconificare con le parole stati d'animo e pensieri di chi ne è realmente affetto e ha condiviso parte del suo mal de vivre.
Perché, riferimenti baudeleriani a parte, è proprio un male che colpisce la vita, nella sua essenza più profonda e nelle sue manifestazioni più spicce. Alzarsi al mattino diventa impossibile, tanto che il pigiama rimane incrostato addosso come una muta arrugginita. E la sera insieme al sole tramonta ogni speranza, è l'angoscia a farsi luna piena di un cielo senza stelle.
Più che analizzare i sintomi di quella che è classificata come vera e propria malattia e che per giunta può avere mille diversi risvolti da persona a persona, preferisco concentrarmi su due parole che stanno alla base del problema: l'amore e il rispetto, verso se stessi in primis, ma anche verso gli altri.
Non ho un verbo mio in grado di trasmettervi la dolorosa sottigliezza della questione. Ho però una lettera, scritta da una ragazza in preda a questo demone reale. Sono pezzi di vita e pezzi di cuore che continuano a farmi piangere, ogni volta che li leggo. Senza l'intenzione di rattristarvi, ve ne riporto alcuni stralci, nella speranza che abbiate anche voi spunti "altri" per riflettere. Sull'amore. E sul rispetto.
Partendo dal presupposto che una persona depressa è spesso sola, perché la maggior parte delle sue cerchie si sono allontanate per paura, esasperazione, impotenza:
Qual è il confine tra l'autotutela e l'indifferenza, il menefreghismo, l'egoismo e la codardia? Quanto è scomoda una persona che soffre e quanto è difficile ascoltarne i motivi, comprenderli e aiutare? [...] Quanto presto si dimenticano le gioie e l'amore ricevuto, o l'amicizia e la lealtà quando le situazioni si fanno complicate?
Viola (nome di fantasia) era una ragazza apparentemente fortunatissima. Aveva tutto. Tanti amici, un fidanzato che si diceva innamorato, una laurea a pieni voti e un lavoro nell'ambito da lei desiderato. Ma qualcosa girava sempre più lentamente nella sua testa. Quel qualcosa che la faceva incartare nei meccanismi più banali, generandole sensi di colpa e angosce per le questioni più futili. Sofferenze trascurate e portate avanti nella speranza che passassero da sole: l'importante era non far vedere nulla agli altri. Perché l'aveva intuito, Viola, che gli altri non avrebbero capito e l'avrebbero lasciata sola. Almeno la maggior parte di loro.
Alla fine il vaso che Viola portava in bilico tra le braccia si è fatto troppo pesante. E si è rotto, conclamando la sua depressione.
Quando è successo, come temevo, per alcune persone, anche quelle che consideravo tra le più importanti della mia vita, sono diventata una malata scomoda. Una pazza. Una paranoica.
Ed è così che Viola ha iniziato a riflettere sul senso dell'amore e del rispetto.
L'amore è quello di mia madre, che, dopo una giornata estenuante, viene da me in ospedale e non si stravacca sulla poltrona rossa, in teoria la più comoda, ma prende la seggiolina di plastica e si avvicina al mio letto, passando la notte accanto a me. Sta lì a pochi metri da quella persona - io - che si sente una merda per quello che non è riuscita a non fare, per aver ceduto alla tentazione di volerla fare finita una volta per tutte. Mi abbraccia e mi dice che va tutto bene, che non è arrabbiata con me e non è nemmeno triste (mente, ma sa che se me lo dicesse mi sentirei ancora più in colpa). Dice che è solo contenta di essere lì con me. E io so che quello avrebbe potuto essere il giorno del mio funerale. Riesce a dirmi che non sono cattiva e che andrà tutto bene, anche se un paio di giorni prima mi sono ingoiata due confezioni di triciclici (potenti psicofarmaci, ndr). Amore è il suo occhio sempre aperto al primo beep di troppo del mio cuore del cazzo che non smette di battere all'impazzata.
L'amore è quello di mio nonno, che sotto il sole cocente di luglio, alle 13 viene a trovarmi in bicicletta. Ha 84 anni e non guida più. Viene tutti i giorni e si mette a piangere se piango o si commuove con me davanti a un video. Mi dice che sono "bellissima e toga". Anche se ho fatto la cazzata. Anche se ho le occhiaie, non lavo i capelli da giorni, ho tutti i segni dei cerotti e delle ventose e sembro un pulcino spennato.
L'amore è quello del mio terapeuta verso suo padre. Me l'ha raccontato, sai? Che l'ha perso a 20 anni, che era un appassionato di campagna e natura e che ora lui ha investito la maggior parte di quello che ha per costruire una villa come sarebbe piaciuta al suo papà. E ora le cose che facevano insieme le fa da solo, ma con lui dentro.
L'more è quello di mia sorella, che ha conservato la lucidità giusto il tempo per chiamare il 118 e poi per un giorno non ha voluto vedermi, arrabbiata e spaventata. Ma alla fine è venuta. A spiegarsi e a scusarsi. Ed è rimasta. Amore sono le sue mani che mi accarezzano il viso e mi asciugano le lacrime. Sono i suoi abbracci e il suo voler stare con me.
L'amore è quello del fidanzato di una ragazza che c'è qua con me ricoverata (Viola si trova in una clinica riabilitativa, ndr), che, tornato stanco dal lavoro in fonderia , senza saper minimamente cucinare, si sforza di prepararle tutto quello che i medici le hanno raccomandato di mangiare. Che chiama sempre in clinica per sapere come sta e appena la vede gli si illuminano gli occhi. Lui le aveva detto che non l'avrebbe abbandonata e non l'ha fatto.
L'amore, probabilmente, è quello che per tutta la vita non sono riuscita ad avere verso me stessa, quello che magari non mi avrebbe fatta sentire sempre l'ultima ruota del carro, la bambina goffa che deve sforzarsi per restare a galla ed essere accettata. Mi sono sempre sentita una persona immeritevole e la conseguenza logica è che per avere un po' di amore, per sentirlo vivo e pulsante, dovevo sforzarmi al massimo, fare piaceri, regali, chiedere sempre scusa anche quando mi facevano un torto. In pratica, non essere me stessa.
Va da sé che il concetto di amore includa quello del rispetto. Viola ne parla in calce alla lettera, dicendo:
Mi sono chiesta spesso se il mio modo di fare, il mio essere sempre gentile e leale, nel senso di non fare sgambetti, di non fare la stronza per ottenere quello che volevo, di evitare agli altri qualunque cosa che non volevo fosse fatta a me, sia parte della mia dignità o mi abbia portata a calpestarla. Ho sempre pensato che preferisco star male mille volte perché sono stata buona e disponibile e così l'ho presa in quel posto, piuttosto che star male anche una sola volta perché sono stata stronza e ho danneggiato qualcuno.
Una risposta a tutte queste domande che affollano la mente di Viola io non ce l'ho. E non ce l'avete nemmeno voi, immagino. Perché l'amore, il rispetto e mettiamoci anche la dignità viaggiano sui binari incrociati dell'autostima e della biologia. Ciò che auguro a Viola e a tutti coloro che soffrono di depressione è di non perdere la speranza. La stanza buia in cui si trovano non si accenderà con un click dell'interruttore artificiale. Né verrà qualcuno con una candela. Saranno loro ad aprire la finestra e far entrare i raggi di sole.