C'era bisogno di queste fotografie. Che solo un'altra immagine può spiegare in maniera compiuta.
Le prime, non serve che lo si dica, fanno parte della galleria - tanto orrorifica quanto reale - sulla morte di Stefano Cucchi, 31enne romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto sei giorni dopo per motivi che a quanto pare "non sussistono". Quest'ultima, per chi non l'avesse riconosciuta, è il fotogramma del cortometraggio surrealista Un chien andalou che Salvador Dalì e Luis Bunel realizzarono nel 1928. La metafora è presto svelata: tagliare un occhio significa ferire lo sguardo dello spettatore per violentarne la coscienza. La stessa pornografia delle immagini (di guerra) su cui ragiona Marc Augé. Scatti talmente brutali da non poter essere ignorati. Esattamente come i serial-video sulle decapitazioni dell'Isis che hanno sconvolto la popolazione occidentale negli ultimi mesi. Che cosa c'è di tanto diverso tra la morbosità di una foto pornografica e il voyerismo di Stefano Cucchi nella camera iperbarica?
E allora pongo la domanda a cui ho risposto qualche riga più su. Servivano davvero queste fotografie?
Ci sarebbero state pari attenzione e solidarietà sulla vicenda di Stefano se non fossero state diffuse immagini di lui ridotto a uno scheletro, pestato e specialmente morto?
Si sarebbe tornati a parlare di conflitti medio orientali se non fossero girati i video delle decapitazioni?
Ognuno si risponda da solo.
Nella mia, di risposta, c'è un rammarico. Perché sì, si è dovuti passare sopra la dignità umana per rivendicare diritti della stessa umanità. In definitiva, a Stefano è stato tolto lo statuto di uomo per ben tre volte. Dapprima, quando l'hanno pestato come un animale e lasciato morire senza sostegno e cure. Poi quando è stato negato il fatto-reato. Infine, quando sono state diffuse le immagini di lui cadavere, al fine di risvegliare le coscienze dei giudici e dell'opinione pubblica.
Ma ci sono altre domande che fanno prurito.
La Corte d'appello ha assolto tutti gli imputati perché, come recita il Codice di procedura penale al secondo comma dell'articolo 530:
Manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile.
Esistono prove del reato?
Le prove che il fatto sussiste sono evidentemente note, a meno che le fotografie diffuse siano abile mossa di Photoshop, ma, posso assicurarvi, è facilissimo scoprire se uno scatto è stato post prodotto e dubito che i giudici non abbiano verificato la questione.
Esistono persone fisiche o giuridiche accusate di aver commesso il reato?
C'erano soggetti indagati, e poi imputati, dall'identità ben definita. Quegli stessi soggetti che lo hanno pestato, che lo hanno lasciato morire di fame e di sete, che non si sono evidentemente preoccupati delle sue condizioni. Quindi non solo gli agenti della polizia penitenziaria, non solo i medici e gli infermieri del reparto detenuti al Pertini, ma anche il giudice che alla convalida del fermo ha affermato di non aver nemmeno guardato in faccia Stefano. Perché, se lo avesse fatto, si spera che le cose sarebbero andate diversamente. (Si spera). Doveva proprio essere molto impegnato quel giudice, per non alzare nemmeno lo sguardo, anche davanti a una voce decisamente provata, che non riusciva a proseguire il discorso e continuava a scusarsi per questo (le registrazioni lo provano).
Il fatto costituisce reato?
Va bene, ammettiamo pure che non sia stato possibile identificare una serie di azioni precise da far confluire nella categoria di reato. Facciamo finta che il pestaggio non sia reato, che la non somministrazione di cure da parte del personale sanitario non sia reato (un ghigno amaro potrebbe però farci immaginare il loro solenne giuramento di Ippocrate). In ogni caso, è risaputo che l'Italia, il Paese del Papa, il Paese della famiglia (tradizionale), il Paese del perbenismo, non ammetta l'eutanasia. Nè contempli il suicidio. La lunga vicenda di Eluana Englaro ce lo ricorda per bene. Quindi, ammettiamo che Stefano Cucchi, vuoi per i suoi problemi di tossicodipendenza, vuoi per l'anoressia, vuoi per l'innegabile stato confusionale in cui poteva versare in quei giorni, si fosse rifiutato di assumere cibo e medicine. E stesse, come testimoniano medici e infermieri, tutto il giorno interamente coperto da un lenzuolo. Non è forse eutanasia o istigazione al suicidio il non intervento? Perché a un qualsiasi soggetto non detenuto (e specialmente non tossicodipendente) sarebbero state imposte l'alimentazione artificiale e la somministrazione di medicinali, anche a costo dell'interdizione temporanea? Anche senza essere esperti in diritto, è evidente lo scavalcamento di priorità: sono state privilegiate le misure cautelari a cui Stefano era sottoposto, penalizzando il bisogno di cure. La famiglia, infatti, non ha potuto confrontarsi con i medici sul suo stato di salute. Quindi né spiegare le patologie dell'uomo né intervenire per decidere al suo posto. In sintesi:un cittadino non in grado di intendere e di volere è stato lasciato agire in senso autodistruttivo. Oltre che, non dimentichiamolo, è stato vittima in precedenza di azioni lesive da parte di funzionari di pubblico servizio.
E qui arriviamo all'ultima, spinosa, domanda. Il reato è stato commesso da persona imputabile?
Secondo il Codice di procedura penale non è imputabile chi non è in grado di intendere e di volere. Cioè chi non può rendersi conto della gravità e delle conseguenze del suo gesto e quindi non può aver voluto coscientemente il danno che esso ha provocato. Si tratta, per lo più, di persone con infermità mentale - permanente o anche solo temporanea (purché rilevata al momento del fatto) -, di soggetti in stato confusionale dovuto all'assunzione di alcol o droga (quando però questa sia indotta da altri in maniera coercitiva o ingannevole) e altre situazioni simili prescritte dal Codice. Ebbene, non sembra che le persone prese in causa avessero queste caratteristiche. Che non potessero però essere punite, per motivi in cui non vale la pena addentrarsi, è chiarissimo.
Resta tuttavia un tema spinoso, che va al di là del caso Cucchi ma di cui il caso Cucchi è purtroppo diventato l'emblema. Il processo che si è svolto per due gradi d'appello e che continuerà in Cassazione è un processo alla vittima. In pratica, non ci si è preoccupati di capire chi e che cosa abbia contribuito alla morte ingiusta di un uomo, ma se quell'uomo in fondo meritasse o meno di morire. A conferma di un sistema penitenziario che, anche quando per legge si professa incentrato sulla riabilitazione e non sulla punizione, sul ristoro alla vittima e non sulla vendetta sociale e personale, nei fatti concreti agisce in tutt'altro modo.
La vita rientra tra i diritti inviolabili dell'uomo. E la magistratura italiana, così attenta alla tutela dei principi costituzionali, dovrebbe saperlo bene. Ma evidentemente una persona affetta da tossicodipendenza o disturbi mentali è un po' meno persona. Un detenuto è un po' meno uomo.
E Stefano Cucchi è stato ed è trattato come non-uomo e non-persona.