domenica 30 novembre 2014

Rada miglior documentario italiano al Torino film festival

Alessandro Abba Legnazzi
Rada ha vinto. Hanno vinto i marinari. Ma specialmente, ha vinto Alessandro Abba Legnazzi. Trentaquatrenne, bresciano, da anni si occupa di cinema, privilegiando il filone documentaristico. Seguendo le peripezie di una scuola di barca a vela sul Garda aveva girato Il senso del vento, mentre nel 2012, sempre in una scuola, ma stavolta elementare, nasceva il lungometraggio Io ci sono (I am here), ambientato nella G.Calini di Brescia e presentato al Filmmarkfest di Milano e al Cracovia Film Market. L'esperienza di Rada inizia invece due anni fa.

A Camogli, proprio a strapiombo sulla Baia Paradiso del comune ligure, c'è una casa di riposo per gente che al mare ha dedicato tutta la vita. La G. Bettolo. Qui Alessandro ha creato quello che lui definisce non un documentario né un prodotto di finzione, piuttosto un esperimento di cinema condiviso. Condiviso perché? Gli ho chiesto quando ci ho parlato, proprio la scorsa settimana, per un'intervista al Giornale di Brescia. <<Perché - ha risposto - gli ospiti della casa, marinai in pensione, hanno scritto insieme a me la sceneggiatura. A partire dalle loro memorie, dai sogni e dai rimpianti delle loro vite, che sono poi stati romanzati. E perché - ha aggiunto - anche la troupe si è messa in scena>>. In scena e in gioco, aggiungerei. Visto che traspare proprio dal tono e dalle parole di Alessandro il tenore emotivo delle relazioni instaurate sul set. 


Renzo
<<Molti marinai erano davvero anziani e nel corso dei due anni li abbiamo persi. Così come ho perso un amico, Alessandro Baltera - a cui ha poi dedicato il premio -. E' un film a cui tengo molto, sono successe cose fondamentali in questi due anni, come la nascita di mia figlia>>.  E va bene, non sarà Martin Scorsese, ma sono particolari che colpiscono, specialmente se penso alla sua giovane età. A quanto ha già fatto e a quanto farà. E al fatto che qualche anno addietro ci distruggevamo di aperitivi in piazza Duomo. E in questo ping pong di nascite e morti non si possono non citare le ultime parole di Renzo, ex sommergibilista quasi centenario, scomparso a settembre: <<Con questo film voi mi avete guarito. Grazie>>.



Chi non è esperto del gergo di navigazione si starà chiedendo che cos'è la rada. Anche io ovviamente me lo sono chiesta e l'ho chiesto ad Alessandro, che mi ha risposto: <<E' quel momento di sospensione in cui stanno le navi quando entrano in porto e attendono la conferma prima di attraccare
Alessandro Abba Legnazzi al Tff 32
l'àncora>>. Una parentesi di non-tempo e forse non-luogo, una dimensione in cui ci si può permettere di vivere il passato o il futuro, ma non il presente. <<E tu, sei mai stato in rada?>>, gli ho domandato. Dopo avermi guardata con un'espressione del tipo: questa te la potevi anche risparmiare, ha preso la palla e l'ha rilanciata: <<Tutti lo siamo prima o poi nella vita. Quando aspettiamo cose che poi accadono o no, che vanno come vorremmo o invece diversamente>>.

E quindi i nove marinai protagonisti del film stanno "come d'autunno sugli alberi le foglie". Si potrebbe dire? Sì, magari anche senza scomodare Ungaretti. Nei 70 minuti di pellicola in bianco e nero, emerge lieve, ironica e imperdonabile la metafora esistenziale di un'attesa, di un limbo. In questo edificio fatiscente, che è a strapiombo sul mare - quindi né sull'acqua né sulla terra - in un periodo - la pensione - che è contemplazione della vita e attesa della morte. E nel frattempo, tra emozioni, ricordi, avventure leggendarie e forse mitizzate, c'è chi alza ancora la bandiera ogni mattina.


venerdì 28 novembre 2014

Ant: qualcosa di buono c'è anche in Italia

Si chiama Ant: Associazione nazionale tumori. Istituita nel 1978, oggi è anche una fondaizone. Una onlus che fornisce assistenza socio-sanitaria gratuita per i malati oncologici e per i loro familiari. Lo fa a domicilio. E a 360°. Il supporto è sia medico e farmaceutico in senso stretto, con visite a domicilio costanti e fornitura di attrezzi e medicinali necessari a garantire al paziente il trattamento sanitario di cui ha bisogno, sia psicologico e sociale, con volontari formati e professionisti che offrono sostegno ai malati e ai loro familiari.

Perché il cancro è una malattia che prima ancora della sofferenza fisica manda in frantumi vite, famiglie ed equilibri. La notizia di quella massa estranea nel corpo di una mamma, un papà o un figlio gela qualsiasi progetto. Spesse volte cede alla depressione chi è affetto dal male, ma sono tanti anche i casi in cui vittime diventano le persone vicine. Tutti abbiamo paura della morte. Tutti ce l'abbiamo davvero vicina. Ma in pochi - e tra questi chi si trova davanti al cancro - ne vedono i confini precisi.

Nasce in quest'ottica il progetto Eubiosia. Reso operativo nel 1985, oggi si compone di venti ospedali domiciliari oncologici (Ont-Ant) in nove regioni d'Italia. Equipe di professionisti (medici, infermieri, psicologi, farmacisti, nutrizionisti, fisioterapisti, funzionari) portano nelle case dei malati prestazioni sanitarie pari a quelle ospedaliere, ma con due vantaggi fondamentali. Il primo di carattere psico-sociale, in quanto le persone malate e le loro famiglie possono restare insieme a casa, inserite nella vita di tutti i giorni e non incubate entro mura bianche e letti che odorano di disinfettante. Il secondo è di tipo economico: un ricovero ospedaliero costa circa 400 euro al giorno, mentre l'assistenza a domicilio, pur garantendo pari se non maggiore assistenza, scende a 30 euro.


E sempre in termini di costi, c'è un altro aspetto che vale la pena sottolineare. Ant è finanziata solo per il 15% dalle Asl regionali, mentre il restante 85% viene da donazioni di privati, sia attraverso le diverse iniziative di solidarietà messe in atto dall'associazione sia mediante il 5 per mille. Sono tantissimi i modi in cui la fondazione paga i professionisti che decidono di lavorare a questo progetto. E altrettanti sono i volontari che decidono di prestare tempo ed energie per Ant. Tutte le proposte messe in campo e i programmi di formazione sono consultabili sul sito dell'associazione. Io vi segnalo questa, che è a Brescia. Uno spettacolo di danza a teatro.

Come visibile anche dal portale di Ant, già in diversi hanno parlato dell'associazione. Io, per esempio, ho visto il servizio durante una puntata di Report. E sapete il motivo per cui mi ha colpito? Perché, pur non essendo esattamente fuori dal mondo, vista la professione che faccio e vista l'esperienza anche familiare in campo oncologico, non ne sapevo nulla. In altre parole: fa molta più notizia il male del bene. E allora iniziamo a invertire la tendenza. Almeno quando è possibile.


lunedì 24 novembre 2014

Expo 2015: molto pop, poco clear

Proprio in questi giorni sono giunti a conclusione gli accordi tra Expo 2015 e Orgoglio Brescia. Saranno infatti alcune aziende della Leonessa a realizzare l'Albero della vita, costruzione simbolo dell'esposizione universale che avrà luogo a Milano il prossimo anno. 
L'iter è stato ancora più difficile di un parto, molto più lungo di una gravidanza, sicuramente meno piacevole dell'atto di concepimento. E, tanto per cambiare, la trasparenza non è stata di casa a Expo.


Continue analisi e revisioni, discussioni e fasi decisionali. Ciò che risultava incomprensibile ai più - e che continua a essere un tratto distintivo della società meneghina - è come mai anche quando le si fa un piacere resta perplessa. Come mai sta sempre sul chi va là. E mai un grazie, per l'amor del cielo. Così il fare sbrigativo degli industriali bresciani ha preso il sopravvento: o vi date una mossa o tanti saluti. Questo  il monito di Giancarlo Turati, coordinatore dell'associazione di imprenditori.
Da un lato c'era la spinta di Diana Bracco, commissario del padiglione Italia e del ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina, dall'altro la retrosia di Giuseppe Sala, commissario unico di Expo. La sua paura, a quanto pare, erano e sono i tempi: troppo stretti per poter pensare anche all'Albero della vita, che, per chi non l'avesse capito, dovrebbe essere un po' la Tour Eiffel italiana. Sono ben noti i motivi della lungaggine che ha portato, a circa sei mesi dall'ouverture, lo stato di avanzamento dei lavori che vedete nella fotografia. 

Ma c'è un qualcosa che va oltre le ormai fin troppo note polemiche su mazzette, corruzione e gare d'appalto truccate. Sono le persone. Sì, le persone. Quando ho iniziato la collaborazione con Expo per realizzare video-interviste che testimoniassero la multiculturalità a Milano ero anche abbastanza fiduciosa. Non dico che morissi dalla voglia di smazzarmi due mesi estivi a Molino Dorino, ma l'idea di trattare un tema importante come lo scambio culturale, di incontrare persone che avrebbero potuto stupirmi e di conoscere da vicino quella fiera che per me era un po' un luna park, non mi sembrava male.



Agli accordi iniziali, non erano ancora usciti gli scandali che poi avrebbero macchiato quello che poteva essere un lustro per tutto il Paese e specialmente per il capoluogo lombardo. Eppure, di quelle riunioni che si era detto di fare ogni settimana, di quegli aggiornamenti e quelle direttive che i miei colleghi e io avremmo dovuto avere, nemmeno l'ombra.  La prima volta che abbiamo incontrato la responsabile di social media Expo, che d'ora in poi chiamerò la Signora, nemmeno lei sapeva che cosa farci fare. Avevamo iniziato ad abbozzare idee, ma un lavoro allo stadio germinale non può tradursi in frutti se non si ha il beneplacito della committenza. E così l'affare è rimasto in letargo fino a giugno, una settimana prima che noi, giornalisti in erba, andassimo a turni di 4-5 nella sede di Molino Dorino.


Primo dictat della Signora: sui social non siate troppo spiritosi, purtroppo ora Expo non può permettersi di scherzare.
Infatti l'ironia riesce molto meglio agli altri. E chi ha torto marcio non fa molto ridere.
Ma la vera Bibbia era per noi racchiusa in una parola, anzi, un aggettivo: pop.
Quelle didascalie devono essere più pop. Quel pezzo traducimelo in versione pop.
Non è un diminutivo di popcorn, sia ben chiaro. Semmai di popolare, giovanile. Ma fatemi il piacere: la Signora avrà avuto una cinquantina d'anni: pretendeva di insegnare a noi, sbarbuti ventenni, il linguaggio dei ragazzi? Ci mancava poco che non chiedesse di scrivere k anziché ch.
Insomma, per i dirigenti social di Expo parlare italiano è poco pop. Essere chiari e spiegare tradisce un vezzo a cui non vogliono rinunciare. E per un giornalista, che magari non è nessuno, ma che forse proprio per questo nutre ancora un po' di amore verso la propria penna, è decisamente triste.

Dopo giornate trascorse a scartabellare archivi web per localizzare luoghi immortalati negli scatti vintage del Touring Club (dico: già che vi hanno dato le cartoline, non potevano lasciarvi anche le didascalie?) e a contare le vetrine in via Montenapoleone (sì, avete capito bene) o gli alberi del comune di Milano (per fortuna quello non era toccato a me), siamo passati alle interviste.

La gente doveva dire cose positive di Milano. Spiegatelo a un ballerino africano emarginato ed etichettato subito come voi tutti state immaginando. O dite al cittadino rumeno che non è il caso di raccontare che i militari nel suo Paese buttavano i dissidenti dalle finestre dopo averli uccisi, per simulare suicidi. Sarebbe stato poco pop.

Nessuno ci aveva fornito indicazioni sul formato stilistico da adottare per il montaggio, tanto che chi aveva già fatto i video (e la maggior parte sì, visto che erano da consegnare di lì a poco) si era arrangiato con il buon senso personale, pena poi dover modificare tutto secondo gli standard Expo.
Video modificati e rifiniti anche 20 volte, perché c'era sempre quel particolare che non andava. E pazienza che non prendevamo un soldo da Expo. Per quello eravamo in buonissima compagnia, visto che il 92% dei lavoratori Expo sono volontari (il che avrebbe un senso se non ci fosse in Italia un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 40%). Pazienza anche sul fatto che venissimo trattati come pezze da piedi, e che addirittura non avessero voluto mettere troppo vicini il logo della scuola di giornalismo e quello di Expo. Il motivo - dicevano - era che non c'era una vera e propria collaborazione. Non so che cosa intendessero per collaborazione, ma intuisco che se avessimo finanziato in un modo non solo fattuale ma anche monetario le casse Expo, un po' più vicini ce li avrebbero fatti mettere.


Alla fine, comunque, i video non sono stati pubblicati. Non si sa perché. Gli intervistati continuano a contattare me e i miei colleghi per avere notizie delle loro storie, di come hanno usato il loro tempo, di cosa ne è stato delle interviste,
Ho scritto una mail, poi due, poi tre, alla Signora. Senza risposta. Poi mi sono stancata di fare la stalker. Ma insomma, quando vedo la stupenda - dico davvero - informazione fatta per Expo, quando penso che è frutto di tante persone a cui è stato riservato un trattamento simile al mio, beh, a "Nutrire il pianeta. Energia per la vita" ci credo poco.


lunedì 17 novembre 2014

Food-sharing: quando il buonismo fa male


<<Finisci quella minestra! Pensa ai bambini che muoiono di fame...>>
Alzi la mano chi non si è mai sentito dire questa frase. E vi auguro che fosse solo una minestra e non qualcosa di peggio. Gli Italiani hanno un innato spirito umanitario. D'altronde, si sa, siamo il Paese del Papa. Siamo la terra dello Stato Vaticano. Da noi ci sono più chiese che letti. E siamo davvero bigotti: abbiamo imparato dalle nostre nonne, che uscite da messa sparlavano con le altre comari, per poi farsi il segno della Croce.
La carità è  dovere morale di ogni buon cristiano. Ma solo verso chi ne ha davvero bisogno. Giusto o
sbagliato che sia, non è questa la sede per valutarlo. Seguendo invece una logica più gretta e materialista, questo modo di fare ci costa caro. In termini di sprechi, per esempio. In Italia si buttano ogni anno 12,3 miliardi di euro in cibo. Ogni cittadino produce 50 kg di rifiuti all'anno e nell'Unione Europea si sprecano ogni 12 mesi 89 milioni di tonnellate di cibo. Per dare l'idea, ogni settimana ciascuno di noi brucia 7 euro così, solo buttando quella mela un po' ammaccata o lasciando ammollire i biscotti che sembravano tanto buoni in pubblicità ma che in fondo non ci piacciono proprio. Per non parlare dell'impossibilità di programmare in maniera precisa i nostri consumi alimentari, visto che le occasioni per consumare pasti fuori casa si moltiplicano, specialmente per chi conduce una vita frenetica. E dato che le confezioni sono sempre più in maxi formato, anche se i nuclei familiari si riducono costantemente. Pensate solo allo yogurt: ha una scadenza breve ed è quasi sempre venduto minimo in pacchi da due. Se non piace o non lo si mangia tutti i giorni, rischia con tutta probabilità di finire nella spazzatura.


Se le famiglie italiane imparassero a ridurre gli sprechi, risparmierebbero 515 euro all'anno. Altro che bonus. Ma  non siamo gli unici a esserci trovati davanti a questo problema. Nel resto d'Europa, però, hanno trovato soluzioni efficaci. A partire dalla Germania, che nel 2012 ha inaugurato il food-sharing.
La pratica è presto detta: chiunque abbia del cibo in avanzo, che sa di non poter consumare prima della scadenza, anziché buttarlo via lo regala. Come? Attraverso la rete. Il sito di food-sharing mette infatti in evidenza i prodotti disponibili, la loro data di scadenza e, ovviamente, la città in cui si trova il donatore. Chiunque può accedere al servizio. Dall'operaio al professore, dallo studente alla casalinga. Ci si accorda sulla modalità di scambio, che può essere postale ma anche a mano. E Danke sehr, auf wiedersehen.  A due anni dalla sua fondazione, foodsharing.de ha già tolto dal macero 43.792,12 kg di cibo, con più di 50mila utilizzatori del servizio e la community Facebook arrivata a 67.168 like. Anche in Italia, nemmeno un anno dopo, è stato fatto lo stesso tentativo. Quattro ragazzi catanesi hanno sviluppato il servizio di ceste on line, su ifoodshare.org. Eppure da noi pare non funzioni. Di certo il motivo non è la mancanza di bisogno, quanto la difficoltà - anche e soprattutto psicologica - di accesso. Sia per donare sia per beneficiare è necessario registrarsi. Azione senza dubbio legittimata dalla necessità di mettere in contatto chi offre e chi prende, ma non motivata solo da tale scopo. Infatti, secondo l'intento dei fondatori e in generale dell'associazione, il servizio era destinato solo ai bisognosi. Chiunque richiedesse un prodotto doveva dunque sottoscrivere una certificazione on line. Come a dire: dimostrami che sei povero. Un po' umiliante, no? Da pochissimo tempo non è più così e il sistema è aperto a tutti, ma la mentalità si è radicata. Gli scambi passano attraverso la Caritas e le registrazioni servono anche per verificare che una persona non chieda troppo e troppo spesso. Che non se ne approfitti, insomma. E di sicuro anche queste regole possono trovare la loro ragion d'essere, ma in tal modo ammazzano un progetto che non è stato pensato in un'ottica giustizialista quanto su un principio di consumo intelligente. Quindi il fine primario non è donare, ma non sprecare.


Tanto è vero che sul sito tedesco non si fa riferimento ai bisognosi, che pure possono di sicuro trovare un sostegno ma che, pensateci, se dovessero sottostare ai requisiti di povertà ortodossa, allora non avrebbero nemmeno un pc e una connessione internet. La finalità è togliere il rimorso di aver buttato ciò che sarebbe potuto venire utile ad altri. O di procurarsi qualcosa che serve all'ultimo minuto senza doversi recare al supermercato. <<Si stanno avvicinando le vacanze e hai ancora il frigo pieno?>> Oppure: <<Vorresti cucinare le lasagne in casa ma ti manca giusto quell'ingrediente?>>. Questi gli esempi addotti dal sito tedesco (anche se le lasagne made in Germany mi mancavano). Invece sul portale italiano prevalgono i temi del volontariato e delle donazioni.  Risultato? La

comunità di scambio-cibo su Facebook arriva a mala pena e tremila persone, degli utilizzatori diretti non c'è traccia e l'unico numero di assistenza segnalato non risponde. Le ceste sono pochissime, quindi toccano solo alcune città. Magari serviranno ai bisognosi, ma non aiutano a sopire lo spreco. 

E chi ancora non ha il pc? Chi non è tecnologico? Premesso che ora un po' di dimestichezza telematica è utile a tutti, nel Nord Europa hanno trovato altre soluzioni. 
Per restare in Germania, è partita l'iniziativa dei frigoriferi: a Berlino, per esempio, ce ne sono 2 posizionati per le vie della città e aperti 24 ore su 24. Uno si trova nel quartiere Prenzlauer Berg, su Malmoestrasse 29, all'interno di uno dei capannoni dell'Hausproject M29; l'altro, doppio, a Kreuzberg, è collocato nel cortile delle Tommy-Weisbecker-Hauses, su Wilhelm Strasse 9. Dentro ci si può trovare di tutto: cibo di turisti e berlinesi, ma anche scorte in eccedenza portate da gestori di banchi e mercati, di panetterie e ristoranti. A questi frigoriferi, sempre a disposizione, se ne aggiungono altri 19, che sono però ospitati all'interno di servizi commerciali e quindi sottostanno ai loro orari di apertura-chiusura. Anche in questo caso l'accesso è universale: l'unico imperativo è prendere solo ciò che si consumerà per se stessi e lasciare cibo in adeguate condizioni igieniche. In ogni caso, accanto ai frigoriferi ci sono sempre saponi e spugnette. Nulla viene sprecato: le rimanenze dei frigoriferi, assieme ad altre offerte raccolte in giro per la città, ogni mercoledì e nel weekend vengono usate dai volontari per preparare un pasto in grado di saziare fino a 250 senza tetto.


Anche la Francia si è data da fare: la scorsa  estate è stata presentata una proposta di legge che obbligherebbe i supermercati a donare i cibi invenduti e ancora utilizzabili alle associazioni benefiche. Sempre français è l'iniziativa di Ipermarché. Poiché di solito vengono buttate tonnellate di frutta e verdura assolutamente buone e commestibili, ma semplicemente di dimensioni o aspetto non commerciabili, il food-market ha proposto una soluzione curiosa. Mettere in esposizione i brutti ma buoni con il 30% di sconto e, al tempo stesso, vendere in un banco vicino succhi, frullati e centrifughe realizzati con gli stessi e confezionati con packaging accattivanti. I clienti che non si fidano possono quindi provare i surrogati e testare l'effettiva bontà del prodotto.

Un'altra idea è venuta dal Regno Unito, dove Sainsbury's, una delle principali catene di supermercati, ha messo a punto un sistema di risparmio energetico che si basa proprio sullo smaltimento dei rifiuti biologici, i quali vengono trasformati in biogas e poi convertiti in energia elettrica, usata all'interno degli stessi supermarket.
D'altro canto, anche l'Italia non resta con le mani in mano. Se il 5 febbraio scorso è stata istituita la giornata nazionale contro lo spreco alimentare, e quattro mesi più tardi è stato approvato il Pinpas (piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari), il prossimo 24 novembre verrà presentata la Carta di Bologna, dal titolo "Stop food waste, feed the planet". E speriamo che Expo 2015 serva almeno a sensibilizzare pezzi piccoli e grossi su questo tema.


mercoledì 12 novembre 2014

La crisi nel piatto?

Italiani, popolo di buongustai. Lo dicono e lo pensano in tanti. Ma anche le cifre sembrano confermarlo. Le nostre famiglie dedicano infatti alla spesa alimentare una quota decisamente maggiore rispetto al resto dell'Europa e agli Stati Uniti.
Gli ultimi dati completi sono del 2013 e mostrano che in Italia il 15.2% dei consumi finiscono nel piatto (o nella pattumiera, ma questo è un altro discorso), il 6% in più rispetto alla Germania e il 3 e 4% se confrontata a Francia e Regno Unito. In pratica l'Italia supera del 2,2% la media europea. Per mangiare l'italiano medio - sì quello che <<quest'anno ho avuto fame ma per due settimane ho fatto il ricco a Porto Cervo, che belloooo!>> - spende 285 euro al mese, 30 in più rispetto al tedesco, che però ha anche uno stipendio più alto. Quindi in percentuale la quota che i cugini d'Oltralpe sborsano per la pappa è di gran lunga inferiore. Ciò è senza dubbio dovuto al minore potere di acquisto degli italiani, ovvero un rapporto più svantaggioso tra busta paga e costo della vita, ma non solo. Altri sono i fattori ipotizzabili, come il prezzo più elevato - per fortuna ancora direttamente proporzionale alla qualità - dei cibi inclusi nella dieta mediterranea. Pensiamo, per esempio, al costo di un litro di olio d'oliva (circa 11 euro) e compariamolo con 1 kg di burro (8 euro) o di margarina (7 euro). O al prezzo della pasta, decisamente superiore rispetto a quello delle patate. O al nostro pane fresco, paragonato al pane confezionato in cassetta nel resto del mondo. 

Anche il fatto che, tutto sommato, la cucina mediterranea sia ancora tra le più ricche di verdura e frutta, gioca sicuramente a favore della salute ma non del portafoglio, specialmente visti i rincari e la stretta correlazione alle condizioni metereologiche per i raccolti. Un'indagine svolta due anni fa negli Stati Uniti (questa) rileva come non solo l'Italia, ma anche tutti i Paesi mediterranei, abbiano una spesa alimentare media più alta rispetto agli Stati nord-occidentali. Le uniche eccezioni sarebbero Russia e Ucraina, ma non dimentichiamo che si tratta di Paesi in perenne stato di embargo, dove la situazione politica influenza notevolmente quella economica.


Insomma, stando a questi dati gli Italiani quando si siedono a tavola se ne infischiano del portafoglio vuoto e della crisi: vanno da Eataly e comprano le arance biologiche, non rinunciano alla cena fuori (almeno una volta alla settimana) e al caffè al bar (almeno una volta al giorno). Anche i fast food sono in crisi: tanto che Mc Donald's ha rinunciato a un po' del machismo americano per glocalizzarsi, ovvero proporre menu ispirati al palato italiano. Parmesan e Tomato Spaghettis, no? Non contenta la M dorata ha commissionato un'indagine alla Nielsen,  e ne è uscito che il 67% dei consumatori sono particolarmente attenti al rispetto dei disciplinari di sicurezza. Detto, fatto. Qualche tempo dopo la Mc -prima azienda in Italia - ha ottenuto lo standard Qualivita, garanzia di trasparenza e veridicità della comunicazione ai clienti sui prodotti e i servizi offerti. Non aggiungo altro, affidando le conclusioni al vostro spirito critico.


Eppure, secondo altre indagini,  i consumi di cibo e beni di prima necessità sono in calo e dal 2009 è aumentato del 40% il numero di italiani che fa la spesa al discount. L'Istat ha confermato questi dati, spiegando che il fenomeno dei Penny Market e Lidl ha preso piede specialmente al Sud e che la regione più cara resta la Lombardia. Coldiretti, inoltre, riporta che il 50% degli italiani hanno ridotto il consumo di cibi pronti e surgelati, preferendo l'home made per questioni economiche e di salute.
Crisi o non crisi per l'alimentare? Eataly o Lidl? Slow o fast-food? Nutrire il pianeta e/o comprare l''iPhone? Un'altra contraddizione è infatti questa: gli italiani spendono molto di più per mangiare in vacanza e molto meno durante l'anno. Non è una novità, tanto che nei villaggi turistici le formule all inclusive si differenziano da Paese a Paese, in base al target. E gli Italiani sono fra gli unici che pretendono anche il pranzo. La fortuna delle guide Michelin e Gambero Rosso o, per volare più basso, di Tripadvisor. Anche il boom degli agriturismi va nella stessa direzione. Così come le smart box gastronomiche. La gente sceglie le località turistiche soprattutto per mangiare (e postare sui social ciò che ha nel piatto). 
Dieta nei giorni feriali e sfondamento gastrico on holiday? Non proprio: piuttosto, una società sempre più interessata al cibo, sempre in cerca della sublimazione occhio-palato-contesto. Il piatto diventa un po' la nuova tracolla Louis Vuitton o le nuove scarpe Chanel. Non a caso, si sente il bisogno impellente di fotografarlo e mostrarlo agli amici.

domenica 2 novembre 2014

Caso Cucchi: tra eutanasia e pornografia




C'era bisogno di queste fotografie. Che solo un'altra immagine può spiegare in maniera compiuta.


Le prime, non serve che lo si dica, fanno parte della galleria - tanto orrorifica quanto reale - sulla morte di Stefano Cucchi, 31enne romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto sei giorni dopo per motivi che a quanto pare "non sussistono". Quest'ultima, per chi non l'avesse riconosciuta, è il fotogramma del cortometraggio surrealista Un chien andalou che Salvador Dalì e Luis Bunel realizzarono nel 1928. La metafora è presto svelata: tagliare un occhio significa ferire lo sguardo dello spettatore per violentarne la coscienza. La stessa pornografia delle immagini (di guerra) su cui ragiona Marc Augé. Scatti talmente brutali da non poter essere ignorati. Esattamente come i serial-video sulle decapitazioni dell'Isis che hanno sconvolto la popolazione occidentale negli ultimi mesi. Che cosa c'è di tanto diverso tra la morbosità di una foto pornografica e il voyerismo di Stefano Cucchi nella camera iperbarica?

E allora pongo la domanda a cui ho risposto qualche riga più su. Servivano davvero queste fotografie? 
Ci sarebbero state pari attenzione e solidarietà sulla vicenda di Stefano se non fossero state diffuse immagini di lui ridotto a uno scheletro, pestato e specialmente morto?
Si sarebbe tornati a parlare di conflitti medio orientali se non fossero girati i video delle decapitazioni?
Ognuno si risponda da solo.

Nella mia, di risposta, c'è un rammarico. Perché sì, si è dovuti passare sopra la dignità umana per rivendicare diritti della stessa umanità. In definitiva, a Stefano è stato tolto lo statuto di uomo per ben tre volte. Dapprima, quando l'hanno pestato come un animale e lasciato morire senza sostegno e cure. Poi quando è stato negato il fatto-reato. Infine, quando sono state diffuse le immagini di lui cadavere, al fine di risvegliare le coscienze dei giudici e dell'opinione pubblica.

Ma ci sono altre domande che fanno prurito. 
La Corte d'appello ha assolto tutti gli imputati perché, come recita il Codice di procedura penale al secondo comma dell'articolo 530:

Manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile.

Esistono prove del reato? 
Le prove che il fatto sussiste sono evidentemente note, a meno che le fotografie diffuse siano abile mossa di Photoshop, ma, posso assicurarvi, è facilissimo scoprire se uno scatto è stato post prodotto e dubito che i giudici non abbiano verificato la questione.

Esistono persone fisiche o giuridiche accusate di aver commesso il reato?
C'erano soggetti indagati, e poi imputati, dall'identità ben definita. Quegli stessi soggetti che lo hanno pestato, che lo hanno lasciato morire di fame e di sete, che non si sono evidentemente preoccupati delle sue condizioni. Quindi non solo gli agenti della polizia penitenziaria, non solo i medici e gli infermieri del reparto detenuti al Pertini, ma anche il giudice che alla convalida del fermo ha affermato di non aver nemmeno guardato in faccia Stefano. Perché, se lo avesse fatto, si spera che le cose sarebbero andate diversamente. (Si spera). Doveva proprio essere molto impegnato quel giudice, per non alzare nemmeno lo sguardo, anche davanti a una voce decisamente provata, che non riusciva a proseguire il discorso e continuava a scusarsi per questo (le registrazioni lo provano). 

Il fatto costituisce reato?
Va bene, ammettiamo pure che non sia stato possibile identificare una serie di azioni precise da far confluire nella categoria di reato. Facciamo finta che il pestaggio non sia reato, che la non somministrazione di cure da parte del personale sanitario non sia reato (un ghigno amaro potrebbe però farci immaginare il loro solenne giuramento di Ippocrate). In ogni caso, è risaputo che l'Italia, il Paese del Papa, il Paese della famiglia (tradizionale), il Paese del perbenismo, non ammetta l'eutanasia. Nè contempli il suicidio. La lunga vicenda di Eluana Englaro ce lo ricorda per bene. Quindi, ammettiamo che Stefano Cucchi, vuoi per i suoi problemi di tossicodipendenza, vuoi per l'anoressia, vuoi per l'innegabile stato confusionale in cui poteva versare in quei giorni, si fosse rifiutato di assumere cibo e medicine. E stesse, come testimoniano medici e infermieri, tutto il giorno interamente coperto da un lenzuolo. Non è forse eutanasia o istigazione al suicidio il non intervento? Perché a un qualsiasi soggetto non detenuto (e specialmente non tossicodipendente) sarebbero state imposte l'alimentazione artificiale e la somministrazione di medicinali, anche a costo dell'interdizione temporanea? Anche senza essere esperti in diritto, è evidente lo scavalcamento di priorità: sono state privilegiate le misure cautelari a cui Stefano era sottoposto, penalizzando il bisogno di cure. La famiglia, infatti, non ha potuto confrontarsi con i medici sul suo stato di salute. Quindi né spiegare le patologie dell'uomo né intervenire per decidere al suo posto. In sintesi:un cittadino non in grado di intendere e di volere è stato lasciato agire in senso autodistruttivo. Oltre che, non dimentichiamolo, è stato vittima in precedenza di azioni lesive da parte di funzionari di pubblico servizio.

E qui arriviamo all'ultima, spinosa, domanda. Il reato è stato commesso da persona imputabile?
Secondo il Codice di procedura penale non è imputabile chi non è in grado di intendere e di volere. Cioè chi non può rendersi conto della gravità e delle conseguenze del suo gesto e quindi non può aver voluto coscientemente il danno che esso ha provocato. Si tratta, per lo più, di persone con infermità mentale - permanente o anche solo temporanea (purché rilevata al momento del fatto) -, di soggetti in stato confusionale dovuto all'assunzione di alcol o droga (quando però questa sia indotta da altri in maniera coercitiva o ingannevole) e altre situazioni simili prescritte dal Codice. Ebbene, non sembra che le persone prese in causa avessero queste caratteristiche. Che non potessero però essere punite, per motivi in cui non vale la pena addentrarsi, è chiarissimo.

Resta tuttavia un tema spinoso, che va al di là del caso Cucchi ma di cui il caso Cucchi è purtroppo diventato l'emblema. Il processo che si è svolto per due gradi d'appello e che continuerà in Cassazione è un processo alla vittima. In pratica, non ci si è preoccupati di capire chi e che cosa abbia contribuito alla morte ingiusta di un uomo, ma se quell'uomo in fondo meritasse o meno di morire. A conferma di un sistema penitenziario che, anche quando per legge si professa incentrato sulla riabilitazione e non sulla punizione, sul ristoro alla vittima e non sulla vendetta sociale e personale, nei fatti concreti agisce in tutt'altro modo.

La vita rientra tra i diritti inviolabili dell'uomo. E la magistratura italiana, così attenta alla tutela dei principi costituzionali, dovrebbe saperlo bene. Ma evidentemente una persona affetta da tossicodipendenza o disturbi mentali è un po' meno persona. Un detenuto è un po' meno uomo. 
E Stefano Cucchi è stato ed è trattato come non-uomo e non-persona.