<<Finisci quella minestra! Pensa ai bambini che muoiono di fame...>>
Alzi la mano chi non si è mai sentito dire questa frase. E vi auguro che fosse solo una minestra e non qualcosa di peggio. Gli Italiani hanno un innato spirito umanitario. D'altronde, si sa, siamo il Paese del Papa. Siamo la terra dello Stato Vaticano. Da noi ci sono più chiese che letti. E siamo davvero bigotti: abbiamo imparato dalle nostre nonne, che uscite da messa sparlavano con le altre comari, per poi farsi il segno della Croce.
La carità è dovere morale di ogni buon cristiano. Ma solo verso chi ne ha davvero bisogno. Giusto o
sbagliato che sia, non è questa la sede per valutarlo. Seguendo invece una logica più gretta e materialista, questo modo di fare ci costa caro. In termini di sprechi, per esempio. In Italia si buttano ogni anno 12,3 miliardi di euro in cibo. Ogni cittadino produce 50 kg di rifiuti all'anno e nell'Unione Europea si sprecano ogni 12 mesi 89 milioni di tonnellate di cibo. Per dare l'idea, ogni settimana ciascuno di noi brucia 7 euro così, solo buttando quella mela un po' ammaccata o lasciando ammollire i biscotti che sembravano tanto buoni in pubblicità ma che in fondo non ci piacciono proprio. Per non parlare dell'impossibilità di programmare in maniera precisa i nostri consumi alimentari, visto che le occasioni per consumare pasti fuori casa si moltiplicano, specialmente per chi conduce una vita frenetica. E dato che le confezioni sono sempre più in maxi formato, anche se i nuclei familiari si riducono costantemente. Pensate solo allo yogurt: ha una scadenza breve ed è quasi sempre venduto minimo in pacchi da due. Se non piace o non lo si mangia tutti i giorni, rischia con tutta probabilità di finire nella spazzatura.
Se le famiglie italiane imparassero a ridurre gli sprechi, risparmierebbero 515 euro all'anno. Altro che bonus. Ma non siamo gli unici a esserci trovati davanti a questo problema. Nel resto d'Europa, però, hanno trovato soluzioni efficaci. A partire dalla Germania, che nel 2012 ha inaugurato il food-sharing.
La pratica è presto detta: chiunque abbia del cibo in avanzo, che sa di non poter consumare prima della scadenza, anziché buttarlo via lo regala. Come? Attraverso la rete. Il sito di food-sharing mette infatti in evidenza i prodotti disponibili, la loro data di scadenza e, ovviamente, la città in cui si trova il donatore. Chiunque può accedere al servizio. Dall'operaio al professore, dallo studente alla casalinga. Ci si accorda sulla modalità di scambio, che può essere postale ma anche a mano. E Danke sehr, auf wiedersehen. A due anni dalla sua fondazione, foodsharing.de ha già tolto dal macero 43.792,12 kg di cibo, con più di 50mila utilizzatori del servizio e la community Facebook arrivata a 67.168 like. Anche in Italia, nemmeno un anno dopo, è stato fatto lo stesso tentativo. Quattro ragazzi catanesi hanno sviluppato il servizio di ceste on line, su ifoodshare.org. Eppure da noi pare non funzioni. Di certo il motivo non è la mancanza di bisogno, quanto la difficoltà - anche e soprattutto psicologica - di accesso. Sia per donare sia per beneficiare è necessario registrarsi. Azione senza dubbio legittimata dalla necessità di mettere in contatto chi offre e chi prende, ma non motivata solo da tale scopo. Infatti, secondo l'intento dei fondatori e in generale dell'associazione, il servizio era destinato solo ai bisognosi. Chiunque richiedesse un prodotto doveva dunque sottoscrivere una certificazione on line. Come a dire: dimostrami che sei povero. Un po' umiliante, no? Da pochissimo tempo non è più così e il sistema è aperto a tutti, ma la mentalità si è radicata. Gli scambi passano attraverso la Caritas e le registrazioni servono anche per verificare che una persona non chieda troppo e troppo spesso. Che non se ne approfitti, insomma. E di sicuro anche queste regole possono trovare la loro ragion d'essere, ma in tal modo ammazzano un progetto che non è stato pensato in un'ottica giustizialista quanto su un principio di consumo intelligente. Quindi il fine primario non è donare, ma non sprecare.
Tanto è vero che sul sito tedesco non si fa riferimento ai bisognosi, che pure possono di sicuro trovare un sostegno ma che, pensateci, se dovessero sottostare ai requisiti di povertà ortodossa, allora non avrebbero nemmeno un pc e una connessione internet. La finalità è togliere il rimorso di aver buttato ciò che sarebbe potuto venire utile ad altri. O di procurarsi qualcosa che serve all'ultimo minuto senza doversi recare al supermercato. <<Si stanno avvicinando le vacanze e hai ancora il frigo pieno?>> Oppure: <<Vorresti cucinare le lasagne in casa ma ti manca giusto quell'ingrediente?>>. Questi gli esempi addotti dal sito tedesco (anche se le lasagne made in Germany mi mancavano). Invece sul portale italiano prevalgono i temi del volontariato e delle donazioni. Risultato? La
comunità di scambio-cibo su Facebook arriva a mala pena e tremila persone, degli utilizzatori diretti non c'è traccia e l'unico numero di assistenza segnalato non risponde. Le ceste sono pochissime, quindi toccano solo alcune città. Magari serviranno ai bisognosi, ma non aiutano a sopire lo spreco.
E chi ancora non ha il pc? Chi non è tecnologico? Premesso che ora un po' di dimestichezza telematica è utile a tutti, nel Nord Europa hanno trovato altre soluzioni.
Per restare in Germania, è partita l'iniziativa dei frigoriferi: a Berlino, per esempio, ce ne sono 2 posizionati per le vie della città e aperti 24 ore su 24. Uno si trova nel quartiere Prenzlauer Berg, su Malmoestrasse 29, all'interno di uno dei capannoni dell'Hausproject M29; l'altro, doppio, a Kreuzberg, è collocato nel cortile delle Tommy-Weisbecker-Hauses, su Wilhelm Strasse 9. Dentro ci si può trovare di tutto: cibo di turisti e berlinesi, ma anche scorte in eccedenza portate da gestori di banchi e mercati, di panetterie e ristoranti. A questi frigoriferi, sempre a disposizione, se ne aggiungono altri 19, che sono però ospitati all'interno di servizi commerciali e quindi sottostanno ai loro orari di apertura-chiusura. Anche in questo caso l'accesso è universale: l'unico imperativo è prendere solo ciò che si consumerà per se stessi e lasciare cibo in adeguate condizioni igieniche. In ogni caso, accanto ai frigoriferi ci sono sempre saponi e spugnette. Nulla viene sprecato: le rimanenze dei frigoriferi, assieme ad altre offerte raccolte in giro per la città, ogni mercoledì e nel weekend vengono usate dai volontari per preparare un pasto in grado di saziare fino a 250 senza tetto.
Anche la Francia si è data da fare: la scorsa estate è stata presentata una proposta di legge che obbligherebbe i supermercati a donare i cibi invenduti e ancora utilizzabili alle associazioni benefiche. Sempre français è l'iniziativa di Ipermarché. Poiché di solito vengono buttate tonnellate di frutta e verdura assolutamente buone e commestibili, ma semplicemente di dimensioni o aspetto non commerciabili, il food-market ha proposto una soluzione curiosa. Mettere in esposizione i brutti ma buoni con il 30% di sconto e, al tempo stesso, vendere in un banco vicino succhi, frullati e centrifughe realizzati con gli stessi e confezionati con packaging accattivanti. I clienti che non si fidano possono quindi provare i surrogati e testare l'effettiva bontà del prodotto.
Un'altra idea è venuta dal Regno Unito, dove Sainsbury's, una delle principali catene di supermercati, ha messo a punto un sistema di risparmio energetico che si basa proprio sullo smaltimento dei rifiuti biologici, i quali vengono trasformati in biogas e poi convertiti in energia elettrica, usata all'interno degli stessi supermarket.
D'altro canto, anche l'Italia non resta con le mani in mano. Se il 5 febbraio scorso è stata istituita la giornata nazionale contro lo spreco alimentare, e quattro mesi più tardi è stato approvato il Pinpas (piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari), il prossimo 24 novembre verrà presentata la Carta di Bologna, dal titolo "Stop food waste, feed the planet". E speriamo che Expo 2015 serva almeno a sensibilizzare pezzi piccoli e grossi su questo tema.
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