Birdman racconta un nuovo capitolo della storia del divismo, quella che a Brodway o forse ancora prima ad Atene, è iniziata con il teatro, per travasarsi poi nel cinema hollywoodiano. C'è chi dichiara ufficialmente chiusa l'epoca delle star con la morte di Marilyn Monroe e quella di James Dean. Una metafora reale di come anche i divi cenere da cenere sono nati e cenere diverranno. Da allora, con il neo realismo e la Nouvelle Vague, il divo diventa persona. Nemmeno attore. Sarà poi la Hollywood barocca degli anni Ottanta, con i blockbuster e gli effetti speciali, a riportare in auge il principio di attore-celebrità.
Ed è proprio in questo mondo di azione e artificio, di maschere e super eroi, che Riggan Thompson (Michael Keaton) si è guadagnato la fama grazie al personaggio-uccello Birdman. Ma finito il ventennio che va da Jurassic Park a Matrix, arriva l'11 settembre e quel terrorismo che gli effetti speciali te li fa vedere in diretta tv e senza artifici. Non serve più essere un super eroe per avere l'ammirazione del pubblico. La fama di un attore non è correlata al grado di divertimento che le sue performance producono. Al contrario, i veri vip sono gli intellettuali, gli autori, quelli che sanno recitare a teatro pièce sconosciute ai più. Addirittura i critici, che un tempo venivano definiti mancati artisti, assumono più importanza degli attori e dei registi, come dimostra nel film di Inarritu la figura della giornalista Tabitha Dickinson (Lindsay Duncan): una sua recensione sul New York Times determinerà il destino dello spettacolo.
L'olimpo dei divi è divenuto meno democratico, una nicchia in cima alla piramide sociale, che con la Grande Crisi è andata schiacciandosi sempre più. Per questo Riggan Thompson (palese l'assonanza con Ronald Regan, l'ex presidente degli Stati Uniti che ha segnato l'epoca del rampantismo e degli yuppies anni Ottanta) ormai non è nessuno, se non un grande uccello (voluto, forse, il rimando a qualcosa di triviale e pornografico) intrappolato dentro ai superati vhs.
Non si sa se Riggan sia davvero un romantico in cerca della gloria perduta, come vorrebbe farci credere il lembo di tovagliolo su cui Raymond Carver (da ubriaco) gli aveva scritto Thanks for your honest performance e che lo aveva così convinto ad affidare il suo riscatto alla messa in scena di "What we talk about when we talk about love", appunto di Carver (chiediamoci come mai non "Romeo and Juliet" di Shakespeare). O se invece Riggan sia solo un materialista, come vuole farci credere la voce del suo alter ego Birdman, che lo invita costantemente a tornare nel cinema del business e a lasciar perdere gli intellettualismi senza risvolti economici. Riggan d'altronde deve pur dar da mangiare alla sua famiglia sbrindellata. I tempi delle vacche grasse sono finiti e ha dovuto ipotecare la casa di Malibù della figlia Sam per pagare l'allestimento dello spettacolo. La contraddizione - far soldi con uno spettacolo che in pochi possono apprezzare - stupisce l'alter ego sempliciotto, materialista e ormai demodé, separando Birdman da Riggan.
Sono davvero così inconciliabili il mondo del digital surround e quello del palcoscenico polveroso? Alcuni indizi sparsi nel film sembrano darci una risposta. Innanzitutto, nell'era del web a decretare il successo o l'insuccesso di qualcosa è ancora un giornale. Un quotidiano cartaceo, il New York Times, appunto, dove la Dickinson propone le sue recensioni impietose. Al tempo stesso la crème di radical chic pronta ad acclamare o a demolire il lavoro di Riggan esce da teatro con in mano gli smart phone. Ed è con gli stessi strumenti che Riggan viene fotografato e filmato in mutande mentre attraversa una platea stradale fatta di Disney e di Mac Donald's, di quel mondo consumista e ignorante che lo ama ancora e lo ha sempre amato. Su twitter e su youtube l'ex uomo uccello ritrova la fama.
Sur(realismo) o, come direbbe Marco Belpoliti, post human, sembra essere il trait d'union tra due mondi: il commerciale e l'intellettuale, il blockbuster e il teatro. Lo stesso realismo poco reale che abbiamo visto nel primo decennio del nuovo secolo con i reality show, dove il vero si intreccia con il precostituito. Esattamente come nei salotti di Maria De Filippi o nei film d'animazione digitalizzati, in cui tutto è falso tranne l'attore che dà la sagoma al personaggio. O come Mike Shiner (Eduard Norton) che recita ovunque tranne che sul palcoscenico: lì a differenza che altrove, riesce finalmente ad avere un'erezione.
Riggan non si spara per finta, ma non muore neanche per davvero. Nella stanza d'ospedale lascia il suo alter-ego Birdman, si butta dalla finestra ma lo fa per seguire altri uccelli.
E' vivo o morto? Che cosa dice lo sguardo della figlia Sam quando guarda prima in basso con terrore
e poi in alto con tenerezza?
Non lo sappiamo. Inarritu ci fa lo stesso scherzetto che aveva già sperimentato in Babel. Allora lo spettatore veniva privato di un contenuto fondamentale: la lettera che Chieko, la ragazzina giapponese sordomuta tra i protagonisti del puzzle film, dà al poliziotto con cui ha tentato un approccio sessuale.
Che dire? Se nel 2007 uno dei film chiave sul divismo proposti agli studenti di cinema era Essere John Malkovich, Birdman nel 2015 si candida con buonissime probabilità a sostituirlo o affiancarlo.
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