Abbiamo una ragione in più per essere felici: rendere tali
anche gli altri. La felicità si diffonde in maniera dinamica nelle reti sociali:
lo dimostra lo studio del Framingham Heart Study, pubblicato dal British
Medical Journal.
Dal 1983 al 2003, attraverso ripetute rilevazioni, 4.739
soggetti, denominati ego, hanno dichiarato il loro grado di felicità con la
CES-D, la scala depressiva del Centro di studi epidemiologici. La CES-D si
compone di 4 voci relative a come i partecipanti si sono sentiti nella settimana
precedente all’esaminazione: «fiducioso nel futuro», «felice», «Mi
sono goduto la vita», «Ho avvertito di valere quanto le altre persone». A
ognuno di questi stati è stato assegnato un punteggio da 0 a 3 e tutti e
quattro i risultati sono confluiti in un numero finale, da 0 a 12, ovvero dal
minimo al massimo grado di felicità. Ogni ego è stato poi associato ad altri 18
soggetti, detti alter: madre, padre, una sorella, due fratelli, tre figli, due
amici, cinque vicini e tre colleghi di lavoro.
Ed ecco che cosa ne è derivato. Più una persona è
socialmente connessa più aumentano per lei le probabilità di essere felice e le
persone felici tendono a instaurare relazioni reciproche. La centralità di un
individuo nella sua rete locale è quindi il motore primario per la sua felicità
futura, ma il meccanismo non è reversibile: una maggiore felicità non assicura
una successiva centralità nella rete. La felicità si diffonde da un individuo
all’altro, ma devono esserci prossimità fisica, vicinanza temporale e un grado
di separazione limitato. Una persona che vive a circa 1,6 km di distanza ed è
felice accresce del 25% la possibilità che un suo amico lo diventi. Effetti
simili si sono visti in coniugi coresidenti (8%), fratelli e sorelle che vivono
fino a 1,6 km di distanza (14%) e vicinato (34%). Il beneficio tende però a
decadere nel corso del tempo: le probabilità per gli ego di essere felici
diminuiscono dal 43 al 22% a seconda che i rispettivi alter esaminati lo siano
stati nei sei mesi o nell’anno precedente. E non conta tanto la profondità del
legame, quanto la frequentazione. Ecco perché sono più incidenti i rapporti con
i vicini di casa rispetto a quelli con familiari e coniugi che vivono distanti.
Influisce anche il sesso: le donne sono tendenzialmente meno
infelici degli uomini e i legami più potenti sono quelli omofili, cioè tra
persone dello stesso genere. Il fattore più forte, tuttavia, è la direzionalità:
hanno molta più rilevanza i rapporti amicali reciproci rispetto a quelli
percepiti come tali solo da una delle due parti. Prova ne è che la felicità di
un alter in una relazione mutuale accresce del 63% le possibilità dell’ego di
essere felice in futuro, mentre lo stesso stato in un legame univoco determina
un incremento solo del 12%.
Ma c’è un’altra buona notizia. Mentre la felicità è contagiosa,
l’infelicità lo è meno: se una persona diventa felice accresce del 9% le
probabilità che lo diventino anche i suoi contatti, ma se diventa infelice le
possibilità che lo diventi anche chi la circonda scendono al 7% .
La felicità può quindi rientrare a pieno titolo nei criteri
di determinazione della qualità della vita, inoltre azioni che la accrescono,
come le misure a tutela della salute pubblica, potrebbero generare effetti a
cascata, migliorando così l’efficacia e i costi degli interventi. Se infatti la
malattia è una fonte di infelicità, fornire cure migliori a chi sta male
accrescerebbe non solo la sua felicità ma anche quella di chi lo circonda,
dando quindi maggiore dignità alle politiche sociali.
Nessun commento:
Posta un commento