Se questo sabato fosse un colore, sarebbe il lilla. Che in
fondo è una tinta opaca, a metà tra la tenerezza del rosa e la solennità del
viola. Un colore che a me, personalmente, mette tristezza. Ma forse è giusto
così. Non c’è molto da stare allegri parlando di disturbi alimentari. E il 15
marzo è proprio la giornata nazionale della lotta contro di essi.
Questo lilla, insomma, dà l’idea di spegnere qualcosa.
L’ascolto. Il desiderio. La fame. Le relazioni. La vita. Sì, anche quella,
perché di disturbi alimentari si muore: sono la prima causa di decesso per
malattia psichica e oggi è l’anniversario della scomparsa di Giulia Tavilla,
morta a 17 anni per bulimia.
Ma il problema sta a monte: non nella poca, ma nella cattiva
informazione. Non è vero che di disturbi alimentari si parla poco, semmai se ne
parla male. Tante critiche alla società della moda e ai media, alle passerelle
e alle top model. Certo, daranno il loro contributo nocivo, ma una persona non
si ammala di anoressia o di bulimia perché vuole sfilare per le griffe. Quasi
sempre i modelli mortiferi sono molto più vicini. La compagna di banco,
l’amica, la cugina, la sorella. Oppure non ci sono modelli, ma solo la ricerca
estrema di un’identità. Detto ciò, sicuramente i media non aiutano. Perché?
Perché quando parlano di disturbi alimentari adottano la stessa modalità usata
per tutto il resto: spettacolarizzare. Quindi le storie che diventano notizia
sono solo quelle di ragazze ridotte in condizioni da biafra, vedete la campagna
che Oliviero Toscani realizzò qualche anno fa per Nolita. E poi la chiamano
prevenzione? No, ha un altro nome: istigazione. Già, perché forse chi non ha
una conoscenza sufficientemente approfondita di queste patologie non lo
immagina (e a questo punto sarebbe utile domandarsi: perché sto raccontando
qualcosa di cui non so?), ma chi è affetto da un disturbo dell’alimentazione
non si sente mai abbastanza grave per essere curato. La cura è aiuto, ok? E’
sollevarsi dal fardello della penitenza o del castigo e tutte le scuse sono
buone per non legittimarsi a imboccarla. Sia perché, almeno inizialmente, c’è
un certo piacere masochistico nel perpetrare condotte distruttive sia perché il
sintomo stesso diviene anestetico emotivo: non si avvertono più le gioie, ma
nemmeno i dolori, e allora tornare a “sentire” fa estremamente paura.
Quindi: per favore, non pubblicate foto di ragazze con ossa
in vista, dati numerici di pesi estremamente bassi, esempi di modalità
autodistruttive. E se lo fate, non dite che è per aiutare chi soffre o potrebbe
essere indotto ad ammalarsi di disturbi alimentari. Perché non è così. State
solo facendo il vostro gioco, arricchendovi in fama o in denaro, solo che i
fenomeni da baraccone, questa volta, non sono nani e ballerine ma scheletri
ambulanti. E di certo le spese qualcuno le paga. Per esempio chi si confronterà
con un ologramma di 20 kg e dirà: beh, se io ne peso 40, allora cavoli, sono
grassa e non ho bisogno di mangiare di più. O chi dirà: se lei vomita 10 volte
al giorno e io solo 3, posso ritenermi ancora sana.
Piuttosto che sbandierare numeri e immagini shock, spesso
ritoccate, dite di come si finisce di vivere in un bagno, riverse su un water,
tra schizzi di sangue. Dite come si muore smettendo un giorno di potersi
infilare i pantaloni da sole, quello dopo di camminare e il successivo di
tossire autonomamente. Ditelo che con l’anoressia e la bulimia, ma anche con le
altre e infinite patologie alimentari, non si è solo scriccioli indifesi che
suscitano tenerezza, ma anche mele marce, divorate dal verme dell’ossessione.
Che gli amici ti stanno vicini, sì, ma poi si stancano. Che non esistono più
affetti e vita sociale. Che l’unico desiderio è starsene rintanate sotto una
coperta e non vedere nessuno. Che la vita diventa rinuncia e privazione. Che le
mamme e i papà piangono. Che vivere in casa diventa un inferno. Che la mente è
invasa solo da un pensiero: come e quanto (non) mangiare. Non c’è nient’altro.
E ditelo che si può stare molto male anche se fuori non si
vede nulla, che spesso a essere più in pericolo sono proprio le persone
normopeso, quelle che non danno nell’occhio, che appaiono quasi floride, ma che
nascondono dentro l’inferno. E non si sentono nemmeno legittimate a dire: sto
male. Perché hanno paura di non essere credute.
Un messaggio ai miei colleghi giornalisti, se non si era
capito.
Passando però al concreto, ecco come l’Italia si tinge di
lilla. Lo stivale riempito di fiocchetti, a simboleggiare una lotta che
coinvolge sempre più persone, famiglie, associazioni e ospedali. Istituita da
Stefano Tavilla, padre di Giulia, l’associazione Mi nutro di vita ha dato il
via a una serie di iniziative nelle varie città italiane.
A Brescia ci sarà un aperitivo per raccogliere fondi che
finanzieranno il Centro per i disturbi del comportamento alimentare di Gussago
e l’associazione di volontariato Bucaneve. Una serata all’insegna
dell’allegria, del divertimento, dello stare insieme e anche della sana
informazione. Saranno infatti presenti, oltre ai medici del Centro di Gussago,
diverse persone toccate da dca e disponibili a offrire la loro testimonianza. A
contribuire anche l’estro culturale dei ragazzi di Officina 9, associazione no
profit che sta spopolando nel bresciano. Il tutto in un contesto elegante ma
confortevole, al Red App, locale di recentissima apertura in via Moretto 55. E
non è un caso che il nuovo tipo di pirlo (a Brescia lo spritz si chiama così)
proposto da Red App si chiami Red Kiss e sia disponibile in diverse varianti,
che vanno dal dolce della pesca all’asprino del pompelmo. Un invito ad
assaporare colori (il rosso e il lilla) e sapori della vita, usando la bocca
non solo per mangiare e per bere, ma anche per baciare.
Insieme al cocktail sarà dato un fiocchetto lilla e, per chi
lo volesse, materiale informativo sul tema. Insomma, se vi va di fare un salto
stasera in via Moretto, al prezzo di un aperitivo – e io che sono un’esperta di
spritz posso confermarne la bontà – avrete anche svolto una buona azione.
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