Regia di Pascal Chaumeil, Gran Bretagna, 2013
Chi non ha mai pensato al modo più eclatante per farla
finita? Spero in tanti, ma temo purtroppo non sia così. E allora, se
attraversando gallerie buie dei vostri tragitti esistenziali, o più
semplicemente spinti da una curiosità macabra ed egocentrica, vi siete chiesti
come potrebbe essere il vostro funerale, quante persone ne prenderebbero parte
o, questio magristralis, che cosa si prova nel frammento temporale che divide
la vita dalla morte, questo film vi potrebbe interessare.
E’ il secondo, in meno di un anno, che parla di morte,
l’ennesimo che porta in scena morti viventi. Ma se la profondità del tema si
accompagnava in Still Life a una
parallela lentezza narrativa e alla serietà fino mai eccessiva dei personaggi, Non buttiamoci giù affronta in maniera
del tutto opposta una delle più grandi tragedie umane. Non la semplice morte,
ma la morte voluta, vista come unica soluzione di fronte a un futuro
invisibile, o forse solo offuscato. Senza stilare liste di pro e contro per cui
valga la pena (soprav)vivere o farla finita, i quattro protagonisti si
ritrovano contemporaneamente, la notte del 31 dicembre, sul tetto di un
grattacielo londinese. Con la medesima intenzione: buttarsi giù. Il primo è
Martin, stella televisiva oscurata da un passato recente che non gli fa onore:
la relazione sessuale con una minorenne. Divorziato, con due figlie. In fila dietro
di lui c’è Maureen, noiosa donna di mezza età con un figlio disabile, che si
offre di aspettare il suo turno con discrezione. Starà voltata di spalle mentre
Martin precipita nel vuoto e poi si butterà a sua volta. Ma a interrompere e
arricchire il quadretto grottesco arriva Jess, ragazza irriverente e sfrontata,
figlia del ministro ombra dell’istruzione e con una sorella maggiore dispersa.
Mentre i primi due la trattengono dal gesto estremo – non si sa se per
questioni di diritto alla precedenza o per non perdere a loro volta il coraggio
– arriva il quarto membro della banda: J.J., detto pizza-boy per via del suo
lavoro, il quale, in una gara a chi ha il motivo migliore per suicidarsi,
rivelerà agli altri di avere un tumore al cervello.
E così, nel tentativo di dissuadersi a vicenda, i quattro
perdono temporaneamente di vista il motivo per cui si sono ritrovati su quel
tetto e, poche ore dopo, sottoscrivono un patto: aspetteranno il
14 febbraio per suicidarsi. Dopo aver firmato l’accordo sul retro del biglietto
d’addio di Maureen, nell’ordine iniziano: un nuovo anno, un intreccio di
vicende che si altalenano tra l’assurdo e il banalmente reale e, soprattutto,
una splendida amicizia.
Quale sarà la loro sorte di lì a sei settimane? Vorranno
ancora forzare il fato, fermare i dadi del destino, o si renderanno conto che
nulla è più irrimediabile della morte?
Questa pellicola si presta tuttavia a un’altra riflessione
che covo da un po’. L’impatto mediatico del suicidio. Che cosa significa?
Quando è lecito per giornali e tv annunciare una morte autoindotta e quando invece ciò si trasforma nell’ennesimo atto di spettacolarizzazione del macabro? Perché,
per esempio, non si dà quasi mai notizia delle tante persone che si lanciano
sotto i treni o di quelle che si addormentano per sempre imbottite di farmaci?
E perché invece hanno risonanza certi episodi, come i recenti suicidi dell’imprenditore
veneto e del disoccupato siciliano? In questo frangente una spiegazione c’è. E,
a mio parere, legittima. Se infatti nel secondo caso ci può essere una valenza
sociale e di stimolo alle autorità, visto che l’imprenditore e il disoccupato
si sono entrambi suicidati nell’arco di 24 ore per il lavoro, gli annunci di morte
riuscita, magari correlati al clamore e alle reazioni di shock che ne derivano,
sono solo benzina sul fuoco per altri suicidi. Ed è un po’ questo il punto. Una
delle cause scatenanti di questi gesti è proprio il senso di
impotenza, di invisibilità, di assenza (propria e di un senso generale) provati
da chi ne è protagonista. Uso questo sostantivo non a caso. Il motivo che spinge a suicidarsi è proprio il desiderio di sentirsi
protagonisti e non comparse, attori e non spettatori, soggetti e non oggetti,
almeno per una volta, almeno nell’ultimo atto della propria vita. Non mi
addentro nelle ragioni psicologiche e cliniche che possono indurre a sostenere
una scelta del genere. D’altronde non sono una psicologa né una sociologa, ma
mi guardo intorno, lo faccio innanzitutto per istinto naturale e poi per
lavoro. E penso: in un qualche modo non è tutto dentro la testa di queste
persone. E’ sì uno spettacolo grottesco che si auto-allestiscono, ma lo fanno
perché ne sentono il bisogno, perché crescono e vivono in una società in cui se
non sei qualcuno non sei nessuno. E scusate, se così non fosse,
non avrebbero così successo i reality-show e i giochi a premi, dove tutti, in
teoria, possono diventare famosi. Va bene, questa è una generalizzazione fin
troppo estrema, di certo non tutti aspiriamo a essere celebrità, però in tutte
le cerchie, in tutte le reti sociali, aleggia un senso di rivalsa, un desiderio
di essere il centro. Non credo sia del tutto sbagliato, ognuno deve essere in
grado di rendersi l’eroe o la principessa della propria favola, ma appunto deve
imparare a farlo da solo, altrimenti ci sarà sempre un altro pronto a metterlo
nell’angolo.
Ed è un po’ questo senso di marginalità, di auto-esclusione
sociale e affettiva, a far incontrare Martin, Maureen, Jess e J.J. (tra l'altro, non riesco a non notare la simmetria nella scelta dei nomi: due che iniziano con M e due con J, un maschio e una femmina per tipo) sul tetto di
quel grattacielo. Tutti e quattro hanno apparentemente valide ragioni per dire
addio al mondo, ma non sono quelle valide ragioni a solleticare in loro l’idea
del suicidio. Pensateci: i più disperati, in realtà, sono quelli che non
conoscono il motivo per cui si disperano.
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