In comune hanno di sicuro il prezzo. Alto, molto alto. E il fatto che quando li compri non paghi il prodotto, ma il suo nome. Il brand. Chissà se aveva pensato a questo Peddy Megui, illustratore marocchino-israelita, quando ha realizzato la serie Wheat is Wheat is Wheat, in mostra al Museum of Craft and Desing di San Francisco. Una galleria di opere in cui gli stilisti più famosi e, diciamolo, inflazionati, danno nome e cognome ai cosiddetti beni di prima necessità. Quelli che troviamo al supermercato, che ci servono, forse, e che acquistiamo non solo per la loro funzione primaria, ma specialmente per l'identità che hanno e che trasmettono in maniera quasi osmotica.
E' così che le arance si vestono Nike, il latte ha l'etichetta Apple, il burro si chiama Bvlgari, l'olio Benetton e il caffè lo fa Cartier.
La cosa più divertente sono i biscotti per la prima colazione, firmati Dolce e Gabbana: non era abbastanza beffardo il messaggio della Saiwa "impacchettati caldi", come se questo lenisse la freddura di mangiare biscottini in simil cartone. No arriva D&G a dirci che sono anche "Dolce". Poi però si corregge con il "GABBAna". Per non parlare della farina Prada. Come a dire: celiaci state attenti, il diavolo si veste anche con un pacchetto di carta.
In realtà c'è poco da ridere. Il concetto non è solo accomunare moda e prodotti di largo consumo, perché entrambi usano le armi del marketing e della pubblicità. Tutti ormai sappiamo che al supermercato non paghiamo la mela della Val di Non, ma l'uomo con la camicia a quadri e la ragazza in gonnella che ci offrono la bella-Melinda-buona-e-gustosa (e che ovviamente ci rendono la vita un po' più gioiosa). Non compriamo la pasta di grano duro, ma la casa tutta italiana, arredata però Ikea, dove sono tutti felici grazie agli spaghetti Barilla. E i bambini hanno oggi deficit immunitari talmente elevati da necessitare delle preziose vitamine, del latte pastorizzato, dei cereali appena colti e di tutti gli altri ingredienti freschi che le mamme possono trovare, indovinate un po', nelle sanissime merendine Mulino Bianco e Kinder. Quelle che spuntano dal fazzoletto bianco in modalità iper-lievitazione. Naturale, ovviamente.
Potrei andare avanti pagine e pagine a elencare le perle contenute nei messaggi pubblicitari dei marchi più famosi. E mi divertirei anche tanto, fino alla noia, ma sono cose già dette e sentite. Forse fino a sei anni fa il fatto triste sarebbe stato solo questo: che siamo tutti uno sciame di api cieche e impazzite, che finiremo per schiantarci contro il nostro pungiglione o morire impiastricciati nel miele che abbiamo prodotto. Ma dal 2008 c'è dell'altro. In pochi possono oggi permettersi di fare le api cieche tra gli scaffali dei supermercati o di sviluppare una paralisi mandibolare a forza di tenere la bocca spalancata davanti al televisore e al suo flusso di spot pubblicitari. C'è un nuovo filo, decisamente più drammatico, che unisce Prada alla farina, D&G ai biscotti e compagnia bella: sono tutti prodotti di lusso. Tanta gente non se li può più permettere. Quelli che un tempo erano i discount adesso sono diventati punti vendita normali. Avete notato come non ci sia più in tv l'allegra musichetta Lidle? Non ce n'è più bisogno, la gente ci va comunque, ormai conosce bene i luoghi di risparmio. Sono in molti, infatti, a scommettere che gli 80 euro mensili introdotti nelle buste paga degli italiani (quelli che hanno un'annualità dagli 8.000 ai 20.000 euro circa) non saranno benzina per i consumi, ma serviranno piuttosto a riempire i salvadanai domestici.
La recessione si dice conclusa, ma se essa abbia passato o meno il testimone alla ripresa bisogna ancora verificarlo. Nel frattempo anche il lusso ha dovuto adeguarsi, transitando dalle passerelle d'haute couture alle corsie dei supermercati.
Non sono trascorse nemmeno due settimane da quando
Alessandra e la sua famiglia hanno dovuto consegnare le chiavi della loro
abitazione in via Toscana, a Brescia. Lo scorso 7 aprile Alessandra ha detto
addio a quella che per 26 anni è stata la sua casa. Prima, però, lei e la
sorella Valentina hanno realizzato questo video, che mi piacerebbe mostrarvi.
T’Avrei Voluta ancora. Già. Dove Tav smette di divenire il
semplice acronimo di Treno ad Alta Velocità per assumere un senso più ampio,
quello del dolore di chi si vede sradicato così, senza preavviso, senza consenso. Come suppongo molti di voi, l’unica immagine che mi compariva
davanti agli occhi sentendo l’espressione No Tav era quella dei Black Block,
che collegavo a un attivismo violento e a un calderone di istanze indefinite,
mosso più dalla ribellione pretestuosa verso “Il Sistema” che da ragioni
concrete. Ma quando stamattina ho aperto la mail e ho visto questo video, mi
sono posta alcune domande. Quanto meno ho iniziato a informarmi. Perché lo
ammetto: anche tra noi giornalisti tira spesso un vento di superficialità.
Soprattutto se le giornate sono talmente piene e le notizie così tante da non
avere il tempo di approfondire ogni singolo grido di protesta. Ebbene, è
difficile sviluppare un’opinione coerente quando in gioco ci sono interessi che
paiono tanto lontani. Per intenderci: avevo un anno quando nacque il movimento
No Tav in Val di Susa. Allora le mie priorità erano mangiare, bere, dormire,
essere cambiata, stare con la mia mamma e il miopapà, giocare e litigare con la mia
sorellina. Ma anche nel luglio 2012, sebbene la protesta avesse coinvolto una
zona molto più vicina a me, appunto quella di Brescia, l’argomento non era
certo all’apice delle mie riflessioni. D’altronde la mia casa era al sicuro.
E una nuova linea ad alta velocità non mi pareva un elemento di disturbo,
semmai una fonte di comodità. Conoscevo di sfuggita e per vie traverse
Alessandra, dovevo averla incontrata a una qualche festa di amici comuni.
Insomma, non immaginavo nemmeno la tragedia che si stava consumando nella sua
famiglia. Ed è proprio questo uno dei punti fondamentali del discorso. Finché
non ci sei dentro, non ci pensi. Finché l’astratto non diventa concreto, rimane
solo fumo negli occhi. E poi, una mattina, ti trovi davanti un video come
questo.
Non intendo dilungarmi con argomentazioni pro o contro Tav e
No Tav. Anche io, a dire il vero, preferisco approfondire la questione prima di
esprimermi a riguardo. Penso però che una storia vera, le parole di una ragazza
che ha poi un anno in più rispetto a me, sia un buon modo per uscire dal
particolarismo filosofico. Particolarismo filosofico, appunto. Sembra un
ossimoro ma non lo è: da un lato infatti tendiamo a vedere solo una fetta
estremamente limitata, di solito quella impacchettata dai mass media, delle
questioni che muovono gli attivisti, dall’altro lasciamo sospeso il tema su un
livello squisitamente retorico. Apprendiamo cioè quel tanto che basta per
recitare una frase di circostanza durante l’aperitivo con gli amici o per
rispondere al quesito imbarazzante di chi ci chiede la nostra opinione a
riguardo. Io preferisco dire che un’opinione non ce l’ho. Perché non so. Perché
finché non l’ho visto incarnato nella mia amica il problema dei No Tav non mi
ha mai interessata.
Ecco dunque Alessandra che racconta.
Tutto è iniziato nel luglio 2012. Un
articolo del Giornale di Brescia parlava di lavori e cantieri che negli anni
successivi avrebbero recato disagi al traffico e alla cittadinanza; tra questi
c’erano quelli previsti per il Tav a Brescia, con l’abbattimento di alcune
palazzine. E’ stato lì che i miei familiari e io ci siamo allarmati. C’era la
foto di casa nostra.
Abbiamo iniziato a chiedere alle amministrazioni, ma ovviamente nessuno sapeva nulla e si
rimbalzavano la colpa l’un l’altra. Ad agosto, dopo un mese che i giornali
parlavano dei lavori e degli espropri, sono arrivate le prime comunicazioni di
Italferr (ditta incaricata dei lavori per la tratta bresciana del Tav) alle famiglie coinvolte, con la
richiesta di formulare una proposta di indennizzo per l’esproprio della propria
casa. Solo in via Toscana si trattava di 23 abitazioni; alle quali si
aggiungevano le 4 di Villaggio Violino e i giardini privati di via Roncadelle,
per un totale di circa cento persone coinvolte direttamente.
Cercando
informazioni sul sito di Italferr siamo arrivati alla realtà effettiva: era già
stato tutto deciso, compreso l’ammontare degli espropri. Questo senza
che nessuno avesse dato informazioni alle famiglie coinvolte. In via Toscana si
stava generando quindi il panico totale. Considera che la maggior parte dei
residenti erano anziani che vivevano in quelle case da tutta una vita e lì
avevano cresciuto la loro famiglia.
E il Comune? E gli
altri enti coinvolti? Che risposte vi hanno dato?
Dopo parecchie insistenze e il rumore
mediatico prodotto, il 2 ottobre 2012 noi (ex) abitanti di via Toscana siamo
riusciti a ottenere un incontro con il sindaco di Brescia (ai tempi Adriano
Paroli) e Italferr. Abbiamo fatto presente di sentirci abbandonanti dalle
istituzioni, ma Italferr, con rappresentanti molto prepotenti eumanamente non coinvolti, ha ribadito di non
voler modificare il progettoper
evitare l’abbattimento delle nostre case.
Intanto, essendo vicino alle elezioni
amministrative, Paroli, sindaco Pdl in carica, ha iniziato a farci promesse di
ogni tipo: parlava di ricostruzione delle case, di salvare una delle palazzine,
di ricostruire una “piccola via Toscana” in una zona vicina. La gente era spaventata,
le mie vicine di casa più anziane e vedove si auguravano di morire prima di
dover lasciare le loro case.
Nel frattempo da Italferr era arrivata a un
vero e proprio ricatto morale: o accettate i soldi dell’indennizzo o subentra
l’esproprio coatto e venite sbattuti fuori senza prendere niente. Per il tipo
di persone che abitavano in via Toscana e per l’assenza di un movimento di
lotta No Tav sul nostro territorio, tutti si sono arresi, aspettando che le
decisioni sulle loro vite e sulle loro case venissero prese dall’alto.
Ma
nessuno degli abitanti ha fatto nulla?
In realtà qualcuno sì. Alcuni hanno dato vita a un comitato di tutela, riuscendo ad avere un incontro con i principali candidati sindaci. E’ stato così che, in una sala piena di cittadini, abbiamo proiettato il video Tav, storie di espropri a Brescia
per spiegare alle amministrazioni
e a tutti i presenti che una casa non è solo mattoni, soldi e nulla più. Una
casa è ricordi, emozioni, sentimenti. In questo incontro i candidati si sono
mostrati completamente disinformati sulla questione Tav a Brescia, fatto
seriamente vergognoso visto il costo e l’impatto ambientale che ha sulla città.In ogni caso, tutti hanno promesso
vicinanza e comprensione, anche se poi, di fatto, nessuno ha mosso un dito nei
mesi successivi.
Tu
però ti sei mobilitata. In che modo?
Da agosto 2012, conoscendo gli attivisti di
Rete Antinocività Bresciana, insieme ad altri abitanti della zona ho creato un
gruppo, inizialmente composto da 3-4 persone, tra cui io e mia sorella
Valentina. L’obiettivo era informare sul Tav nella nostra città. Il gruppo è
poi cresciuto e abbiamo dato vita ainiziative di ogni tipo: spettacoli di teatro, presidi, volantinaggi,
presentazioni di libri, proiezioni di video, dibattiti ecc. Adesso partecipiamo
anche a livello nazionale a una lotta che negli ultimi tempi è emersa non solo
come lotta contro un treno, ma contro un modello di sviluppo che non funziona.
Essendo parte di Rete Antinocività per noi
la questione ambientale di Brescia è un punto fondamentale per far emergere
come i soldi pubblici vengano spesi per grandi opere inutili, i cui i profitti
vanno a pochi, mentre l’ambiente e la salute dei cittadini sono all’ultimo
posto nell’agenda della amministrazioni. I soldi con cui verrà costruita la
tratta (2 miliardi solo per il lotto Treviglio-Brescia) sono di tutti e vengono
tolti a sanità, istruzione e altri servizi al cittadino. L’inquinamento
acustico, la devastazione ambientale, l’aumento del traffico e delle polveri e
i disagi dovuti ai lavori riguarderanno ognuno di noi. Molte persone ancora non
sanno, o forse fingono di non sapere. Come i negozianti e i cittadini che si
troveranno i cantieri davanti alle attività, sotto le finestre di casa. Per ora
non c’è, quindi non è un problema. La storia della Val Susa e di altre città
già segnate dal Tav purtroppo non è arrivata nel modo giusto. Credo che in
questo caso i mass media abbiano creato lo stereotipo del No Tav = Black Block,
che spaventa chi non conosce i motivi e le modalità di questa lotta e perciò se
ne tiene alla larga.»
Ma
chi avesse voluto o lo volesse ora, è libero di informarsi? Insomma, vi hanno
fatto vedere il progetto dei lavori e gli atti di esproprio?
Solo dopo diversi mesi di attesa, a dicembre
Itaferr ci ha mostratogli atti,
permettendoci però di visionare solo una parte della documentazione, già
arbitrariamente selezionata, senza che quindi potessimo verificare la
correttezza delle procedure di esproprio e l’idoneità dell’opera.
Non
avete pensato di rivolgervi a qualcuno per far valere i vostri diritti?
Eccome, l’abbiamo fatto, ma non è così
semplice. Affidandoci a un avvocato, abbiamo fatto ricorso al Tar (Tribunale
Amministrativo Regionale), però abbiamo dovuto poi ritirarlo ancor prima della
udienza preliminare, a causa delle tempistiche che Italferr ci ha imposto e
perché lo imponeva l’accordo per la cessione obbligatoriadella casa.
Che
cosa significa “cessione obbligatoria della casa”? Come si può essere obbligati
ad abbandonare la propria casa?
Si può. La chiamano '“espropriazione per
pubblica utilità” ed è un provvedimento giuridico che sacrifica il bene privato
per il bene della collettività. E’ iniziata a settembre del 2013 e si è
conclusa questo aprile.
Sembra
di essere nell’ex Unione Sovietica. Invece siamo in Italia. Che cosa ne pensi?
Sai quale sarebbe il bene della collettività
offerto dalla Tav? Un guadagno di 10 minuti di tempo tra Milano e
Brescia. A che costo però? Due miliardi di euro e capannoni, case, campi
espropriati e distrutti e un biglietto che sarà inaccessibile a tutti. Ma
ovviamente per far sì che questo sia visto come un bene e non come un danno
collettivo, è stato trovato un rimedio.
Quale?
Rendere il più inefficienti possibili i
servizi presenti, con ritardi, disservizi e soppressioni dei treni. Così,
invece di pensare a un ammodernamento, si costruisce una nuova opera con tanti
profitti e tanta mafia.
In
ogni caso, ancor prima che alla città, il danno l’hanno fatto a dei cittadini
in particolare. Quelli di via Toscana. Voi. Che tipo di indennità avete
ricevuto in cambio?
Con l’aiuto di un tecnico il comitato è
riuscito a imporre a Italferr di riconsiderare il valore effettivo di ogni
abitazione e così l’indennizzo è divenuto più congruo al valore della casa, ma
non ci ha comunque permesso di ricomprarne una di uguali caratteristiche e
soprattutto non ha tenuto in considerazione il danno morale a chi, come noi, si
è visto costretto ad abbandonare abitudini e ritmi di vita consolidati. Tra
l’altro, il fatto che Italferr avesse aumentato i soldi degli indennizzi,
probabilmente per levarsi un sassolino della scarpa e procedere alla velocità
della luce alla costruzione di un’opera che prima o poi tutti avrebbero
criticato, ha fatto sì che la gente ci prendesse meno sul serio. Gli abitanti
interessati erano già contenti di prendere più della miseria prospettata e chi ci
era vicino ci vedeva come i fortunati che avevano preso palate di soldi,
ovviamente basandosi più sulle voci che sui fatti. D’altra parte anche una
buona parte del movimento bresciano ha subito etichettato come venduti coloro
che per la disperazione si erano arresi.
In
tutto questo, come è cambiata la tua quotidianità e quella della tua famiglia?
Abbiamo passato un anno e mezzo veramente
devastante, pieno di sofferenza, rabbia e frustrazione per non essere riusciti
a fare nulla per la nostra casa e per non avere fatto capire che il passaggio
del Tav creerà danni a tutti. Per noi la lotta No Tav non finiva terminata una
riunione; per mesi si è parlato solo di quello in casa, ogni pranzo e ogni
cena. Con le difficoltà che un nucleo famigliare può avere nell’affrontare la
cosa. Mia sorella Valentina e io vivevamo sole con nostro padre, che, essendo
in pensione e avendo due figlie disoccupate, aveva deciso di proteggerci
accettando l’esproprio. Ma Valentina e io volevamo invece lottare con le altre
famiglie.
E
adesso?
Consegnare le chiavi sarà perdere una parte
di questa battaglia, perdere una parte della nostra vita, ma non ci fermerà.
Questo è successo a noi e non deve più accadere. La gente ha il diritto di
essere informata. Pensa che alcune persone di via Toscana avevano comprato casa
da poco e nessuno li aveva avvisati di quello che sarebbe successo. Questo non
è accettabile. Tutti devono capire che dietro a quest’opera si nascondono
corruzione, devastazione dei territori, pericoli per la salute dei cittadini e
le generazioni future.
Lo so, è Pasqua, non Natale, quindi non dovrebbe forse
valere la regola: siamo tutti più buoni. E infatti meglio così. Giusto perché,
se dobbiamo farci venire le carie, tanto vale che siano colombe (quelle di
pasta, canditi e mandorle) e uova di cioccolato a farcele venire. Tuttavia,
proprio perché sono giorni di festa e ci penseranno prozie, nonni e cognati a
mettere il becco in tante faccende che il buon senso denominerebbe “affari
nostri” (dal come-sei-vestita al non-è-ora-che-ti-trovi-un-fidanzato al
ti-preferivo-coi-capelli-corti al
perché-non-mangi-la-trippa-che-ho-impiegato-cinque-giorni-a-cucinare), colgo
l’occasione per riflettere su un tema che mi incuriosisce da un po’.
Un’opportuna premessa. Vivi e lascia vivere. Banale,
certamente, ma non così scontata. Quanto meno per la maggior parte di noi.
Perché, c’avete mai fatto caso? Siamo talmente abituati a considerare il nostro
modus vivendi il modus vivendi che spesso giudichiamo, critichiamo, deridiamo
quello altrui. No gente, così non va. Non si chiama libera opinione, ma
mancanza di rispetto. Ecco allora che entro nel vivo dell’argomento. Il
veganismo. Che c’entra? Vi starete chiedendo. Beh, partiamo dal presupposto che
chi scrive non ha mai pensato né sta pensando di convertirsi a tale regime,
adora carne, pesce e latticini e non rinuncerebbe mai a un maglione di lana. E,
diciamolo pure, inizialmente si è trovata parecchio a disagio vedendo inondata
la propria home di facebook da auguri pasquali che esortano a non uccidere gli
animali. Ma come, il coniglio che mi piace tanto? E la faraona ripiena della
mamma? Che male faccio? Insomma, questo per farvi capire che non è mia
intenzione promuovere una campagna vegana e che sono io la prima a non avere
una sensibilità così marcata verso gli animali da rinunciare – perché per me di
rinuncia si tratterebbe – a uno stile di vita che per forza di cose comporta il
sacrificio di qualche essere vivente. Ciò non toglie, comunque, l’esigenza di
approfondire le ragioni e la motivazione di chi intraprende una simile scelta.
E, proprio perché ho imparato che non è tutto bianco o nero, non tutto giusto o
sbagliato, ammetto che ci sono alcuni principi a cui si ispirano i vegani che
vorrei fare anche miei. Senza privarmi di nulla, per l’amor del cielo, ma
semmai avvicinandomi a un modello di vita più sostenibile e sano. Infatti con
veganhood, veganmood e veganwood (le ultime due, espressioni da me coniate) mi
riferisco proprio a un ritorno alla natura, a uno stile di vita più rispettoso
di essa, oltre che di noi stessi.
Il veganismo nasce dalla concezione che non sia necessario,
oltre che costruttivo, restare immersi nel flusso della quotidianità senza
chiedersi se si stia facendo tutto il possibile affinché questa quotidianità
abbia un futuro. Bisogna aprire gli occhi. Il pianeta sopravvivrà se ci
abbandoniamo allo spreco e al consumo di risorse scarse? Noi stessi arriveremo
all’età dei nostri nonni se continuiamo a imbottirci di prodotti iper-trattati
e sottoposti a processi chimici per coprirne la scarsa qualità? L’ecosistema
non è un gioco a somma zero: mors tua vita mea. Non siamo come i cavernicoli,
che se volevano sopravvivere dovevano uccidere le fiere e metterle sul fuoco.
Ma specialmente: possiamo vivere, e meglio, anche senza quelle abitudini di
consumo smodato che impoveriscono i nostri sensi, oltre che il nostro
portafogli.
Appunto, non è una summa al veganismo, perché io stessa
ritengo che si possa vivere in salute e nel rispetto degli altri esseri viventi
pur facendo uso di elementi di origine animale. E adoro seitan, tofu e burger
di soia, ma solo per una questione di gusto, tanto quanto mi piace una buona
tagliata. Un vegano puro probabilmente storcerebbe il naso, perché si tratta di
persone con un fortissimo senso etico, che hanno fatto una scelta. Ruotare di
360° il proprio stile di vita per allinearsi a un modello bio-compatibile.
Perché essere vegani non significa solo bandire la carne, vuol dire che tutti,
e dico tutti, gli elementi di origine animale vengono esclusi dalla propria
dieta, alimentare e di consumo in genere. Per intenderci: niente pesce, uova e
latticini, ma anche niente borse, vestiti e accessori in pelle, niente maglioni
di lana, niente o pochissimi prodotti industriali. Ed è sul concetto di base
che vorrei soffermarmi e invitarvi a fare altrettanto. Non necessariamente
rinnegare ciò che deriva dagli animali, ma semmai ciò che proviene dallo
sfruttamento di essi. Facciamo un esempio pratico: le uova. Mi sono sempre
chiesta che male ci fosse nel consumare un prodotto che in fondo è inserito nel
ciclo di vita: la gallina, per sua natura, depone le uova. Sì, ma c’è una
differenza tra covatura naturale, che comporta un numero ristretto di uova in
un determinato arco di tempo, e l’allevamento forzato delle galline, in cui
queste vengono stimolate, anche attraverso mangimi e procedimenti chimici che
poi ne deteriorano inevitabilmente il frutto, a deporre un numero di uova
elevato all’ennesima potenza. Il quadrato dell’industria.
Al tempo stesso, forse un po’ ingenuamente, mi sono sempre
sentita un corpore sano (sulla mens continuo a riservarmi il beneficio del
dubbio) nel mio beveraggio mattutino di latte o nell’analogo consumo di yogurt.
Tanto calcio per le ossa, proteine per i muscoli, fibre per l’intestino, zuccheri
semplici per il cervello, liquidi per i reni. Una bomba, insomma. Ovviamente –
e qui si spiega la mia reticenza alla mens sana – la mia pia illusione si è
sempre avvalorata di un quadretto idillico pastorale ad hoc. L’allegra mucca
che scampanella felice, munta dal nonno di Heidi nella pittoresca baita della
Selva Nera. Non immaginavo nemmeno lontanamente che per produrre il fresco
latte di x marca a bovini e suini venissero introdotte sonde nel ventre per
spremere più latte, per togliere il caglio, per pastorizzare il tutto. Cioè,
pastorizzato deriva da pastore, no? E allora non può essere negativo. Invece
sì.
E la carne argentina. O i deliziosi spezzatini messicani.
Una prelibatezza. Magari non farà male, quanto meno non se ne consumi una
porzione quella sera festeggiando al ristorante o ne compri un po’ dal
macellaio di fiducia. Ma di certo il danno esiste, non lo si può negare. Avete
presente tutte le campagne che sosteniamo e condividiamo contro il
disboscamento, l’effetto serra e compagnia bella? Ecco, sappiate che per
allevare intensivamente i bovini in centro e sud America vengono abbattuti
ettari ed ettari di verde. Insomma, non ci mangiamo solo il fegato di vitello,
ma anche il polmone del pianeta.
Tutte queste note informative non vogliono essere un
incentivo a smettere di consumare carne e derivati, ma a farlo in maniera più
consapevole, preferendo, dove è possibile, prodotti a kilometro zero,
provenienti da realtà piccole, quindi non soggetti allo sfruttamento intensivo
degli animali e al trattamento chimico che comporta la lavorazione industriale.
So che non è facile: chi vive in città, specialmente nelle metropoli, non può
andare dal contadino a prendere la frutta e la verdura, non ha l’allevatore di
fiducia che gli vende le uova e il latte e di certo non ha il tempo di cucirsi
i maglioni con lana appositamente scelta. Ma non è nemmeno obbligato a girare
come un cieco nei supermercati e ficcare nel carrello i primi prodotti messi
alla sua altezza sugli scaffali. Non ci si deve per forza fiondare al Mc
Donald’s in pausa pranzo, perché tanto la carne negli hamburger è di qualità (e
infatti costa 2€ perché il Mc è un istituto di carità, non una multinazionale),
il grana è padano doc (certamente, infatti, Mc Donald’s si rifornirà in
esclusiva dai produttori romagnoli, non da quelli statunitensi o ungheresi che
vendono il Parmisan a un terzo del prezzo italiano) e il pane rustico (la
dolcezza sarà forse data per osmosi dalle barbabietole con cui è fatto il
ketchup’s e i semi di sesamo saranno naturalmente incorporati).
Insomma, se è vero che occhio non vede, cuore non duole,
sarebbe forse il caso di indossare un paio di occhiali. Quelli della
consapevolezza. Semplici gesti, come leggere le etichette dei prodotti e
scegliere quelli con la lista di ingredienti meno lunga. Riabituarsi al consumo
di cibi fatti in casa o, quanto meno, non confezionati. Non usare l’automobile
se si devono percorrere 200 metri, fare un giro al mercato anziché al
distributore automatico o nel megastore. Convincerci che si può fare la doccia
anche senza far scendere le cascate del Niagara o lavarsi i denti e spegnere il
getto mentre li si spazzola.
D’altronde una decina di anni fa solo la raccolta
differenziata ci sembrava l’ultima frontiera dell’ecologia. Chi avrebbe mai
pensato che sarebbe divenuta un’abitudine più o meno consolidata? E lo stesso
dicasi per le auto elettriche.O per i sacchetti di plastica biodegradabile,
che abbiamo accolto con ghigni schifati (non solo per il loro odore di funghi
essiccati, ma anche perché non potevamo uscire dal supermercato riempiendo le
sportine fino all’orlo, pena la rottura di queste). Anche i pannelli solari
stanno diventando una realtà sempre più diffusa e, se avete fatto un giro al
Salone del Mobile e al Fuori Salone la scorsa settimana, vi sarete senza dubbio
accorti che uno dei temi dominanti era proprio l’ecologia, la crescita
sostenibile. Anche nel design, anche nella moda. Certo, purché non sia solo una moda. Il bio, l’ecologia, il
veganismo. Per adesso, comunque, male non è, perché se verde è trendy, avremo
almeno qualche vaga speranza di coinvolgere anche chi agisce mosso dalla
fascinazione e non dalla sensibilità.
Per chiudere il cerchio, mi ricollego al discorso iniziale:
se vi troverete con un commensale vegano a tavola, quest’oggi, per favore evitate
di guardarlo come un marziano, chiedendogli, magari con la bocca masticante
agnello, da dove la prende la vitamina B12 o come fa a star bene con le sue
verdure. Saranno affari suoi. Al tempo stesso, si spera che l’amico green non
guardi gli altri come alieni, facendoli sentire in colpa a ogni boccone di
selvaggina che deglutiscono. Saranno affari loro.
Un quintetto di baldi giovani. Vivono a Brescia. Studiano e lavorano. Uno di loro è mio amico dai tempi delle medie, gli altri li ho conosciuti per caso. E per caso ho scoperto il loro progetto.
Come ormai avrete capito, non resisto davanti alle persone con spirito d'iniziativa e coraggio, per questo li ho pedinati e intervistati. E ArteTempo ha dato loro spazio, come fa a ogni sentore di dinamismo e positività.
Il campione del mondo di Cosplay è tutto italiano. Andrea Vesnaver si è lasciato intervistare nel giardino del chiostro del Museo Diocesano di Brescia.
Ecco il video, realizzato da Marco Puoti, direttore, fotografo e videomaker di ArteTempo, con la collaborazione dell'artista bresciana Federica Cocco.
Un pesce può anche essere fuor d’acqua, ma respirare lo
stesso. Accade a Pamplona. A Ginevra. A Roma. A Londra. A Singapore. In Costa
Azzurra. E’ il pesce di Babele, quello che vive ovunque, ma senza mai abitarci
davvero. E’ italiano, di Vibo Valentia, ma il suo nome si declina in forme
ibride, che ne confondono l’appartenenza: Rino, Chris, Ivan, Francesco o anche
solo “io”. Sono queste le voci che danno vita ai protagonisti delle storie di
Babelfish. Punti di vista eclettici su un mondo tanto dispersivo quanto
costante, fatto di persone e di cose che scorrono nel flusso del tempo e dello
spazio. E allora essere in Francia, in Italia, in Malesia o altrove poco cambia
nell’intimità psichica di personaggi votati al nomadismo esistenziale. Sono i
flâneur dei giorni nostri: individui che vagano per strade e luoghi di città
straniere, catturando immagini e particolari che restano invece invisibili agli
occhi degli abitanti integrati. C’è infatti uno stacco, un salto che interrompe
il flusso della concretezza quotidiana e ne trasporta frammenti nel mondo
interiore dei personaggi. E’ lì che vivono realmente fatti e situazioni. Perché,
nonostante Babelfish sia un affresco multietnico del XXI secolo, il sipario
narrativo si alza e si abbassa sulla psiche dei protagonisti, zingari calabresi
che devono alla loro estraneità dal contesto in cui si trovano la raffinatezza
esacerbata con cui percepiscono l’intorno.
Il carattere volatile e labirintico, comunque, non avvolge
solo le atmosfere dei singoli plot, ma impregna anche la struttura narrativa:
una raccoltadi sei storie tra loro
disgiunte e parallele, sia in termini cronologici che spaziali e tematici.
Oltre all’analoga provenienza dei protagonisti, però, e al fatto che siano tutti
maschi e tutti trapiantati in un altrove più o meno distante dalla loro terra
natia, c’è un filo rosso che tesse questo patchwork esistenziale.
L’incompiutezza. Il gioco capriccioso del caso, che tira le fila dei destini,
aprendo e chiudendo le storie a suo piacimento. L’inizio dei racconti è sempre
in medias res e il lettore viene così catapultato nel fare del personaggio, in
un momento e in uno spazio specifici della sua vita. Nella maggior parte dei
casi si parte da un pensiero, a conferma del modello intimistico, ma la
narrazione è sempre onnisciente, con il punto di vista al tempo stesso interno
ed esterno al protagonista. Solo in un caso viene usata la prima persona, ma
anche in quella circostanza il narratore sviluppa la trama mentre parla a tu
per tu con un amico morto e, ripercorrendo gli episodi in cui i due hanno
interagito, si fa portavoce non solo dei suoi sentimenti, ma anche di quelli
del compagno.
E così, senza nemmeno accorgercene, ci troviamo immersi in
una storia, ne assorbiamo avidi l’evoluzione, magari assecondando le piroette
del narratore, che ci porta in lungo e in largo per i luoghi e gli anni dei
personaggi, e poi scopriamo che è finita così. Senza un “e vissero tutti felici
o scontenti”. Come se chi scrive ci avesse giocato uno scherzo e noi avessimo
abboccato al primo colpo. Ma Babelfish è il pesce di Babele, non quello
d’aprile, e il tranello narrativo è un buon espediente per tenere vivo il ritmo
della lettura, per non tentarci a saltare nemmeno una riga delle 127 pagine.
Avremmo voluto saperne di più su Rino? Ci sarebbe piaciuto capire che ne è
stato di Chris o di Ivan? Non abbiamo tempo per pensarci, perché, mentre
incassiamo il colpo del distacco da una storia, arriva subito quella
successiva, che ci trasporta verso ben altri lidi.
Lo stile è quello di chi non teme qualche arcaismo: un vi al
posto di un ci, un pronome egli o un essa rispolverati da quei cassetti
letterari che sembravano ormai chiusi per sempre. Non siamo più abituati a
vederli stampati né tanto meno a sentirli, perciò in certi frangenti la
concentrazione tematica cede il passo all’analisi testuale: ci fermiamo,
interrogandoci sul senso di espressioni e parole che credevamo di aver
abbandonato per sempre sui libri di scuola. Ma possiamo perdonare questa
interruzione grazie alla capacità dell’autore di descrivere situazioni e
sentimenti in modo tale che, mentre li leggiamo, ci viene da dire: «ha
ragione, è proprio così!». E questo è garantito solo da quella confidenza con la lingua
che permette a uno scrittore di sfruttarne appieno le potenzialità, senza però
cadere nell’abuso quantitativo o qualitativo.
Un pesce, quello di Babele, che vale quindi la pena di
scegliere nell’oceano ormai popolatissimo ma non sempre altrettanto appagante,
della letteratura contemporanea.