Gino Pitaro, Edizioni Ensemble
Un pesce può anche essere fuor d’acqua, ma respirare lo
stesso. Accade a Pamplona. A Ginevra. A Roma. A Londra. A Singapore. In Costa
Azzurra. E’ il pesce di Babele, quello che vive ovunque, ma senza mai abitarci
davvero. E’ italiano, di Vibo Valentia, ma il suo nome si declina in forme
ibride, che ne confondono l’appartenenza: Rino, Chris, Ivan, Francesco o anche
solo “io”. Sono queste le voci che danno vita ai protagonisti delle storie di
Babelfish. Punti di vista eclettici su un mondo tanto dispersivo quanto
costante, fatto di persone e di cose che scorrono nel flusso del tempo e dello
spazio. E allora essere in Francia, in Italia, in Malesia o altrove poco cambia
nell’intimità psichica di personaggi votati al nomadismo esistenziale. Sono i
flâneur dei giorni nostri: individui che vagano per strade e luoghi di città
straniere, catturando immagini e particolari che restano invece invisibili agli
occhi degli abitanti integrati. C’è infatti uno stacco, un salto che interrompe
il flusso della concretezza quotidiana e ne trasporta frammenti nel mondo
interiore dei personaggi. E’ lì che vivono realmente fatti e situazioni. Perché,
nonostante Babelfish sia un affresco multietnico del XXI secolo, il sipario
narrativo si alza e si abbassa sulla psiche dei protagonisti, zingari calabresi
che devono alla loro estraneità dal contesto in cui si trovano la raffinatezza
esacerbata con cui percepiscono l’intorno.
Il carattere volatile e labirintico, comunque, non avvolge
solo le atmosfere dei singoli plot, ma impregna anche la struttura narrativa:
una raccolta di sei storie tra loro
disgiunte e parallele, sia in termini cronologici che spaziali e tematici.
Oltre all’analoga provenienza dei protagonisti, però, e al fatto che siano tutti
maschi e tutti trapiantati in un altrove più o meno distante dalla loro terra
natia, c’è un filo rosso che tesse questo patchwork esistenziale.
L’incompiutezza. Il gioco capriccioso del caso, che tira le fila dei destini,
aprendo e chiudendo le storie a suo piacimento. L’inizio dei racconti è sempre
in medias res e il lettore viene così catapultato nel fare del personaggio, in
un momento e in uno spazio specifici della sua vita. Nella maggior parte dei
casi si parte da un pensiero, a conferma del modello intimistico, ma la
narrazione è sempre onnisciente, con il punto di vista al tempo stesso interno
ed esterno al protagonista. Solo in un caso viene usata la prima persona, ma
anche in quella circostanza il narratore sviluppa la trama mentre parla a tu
per tu con un amico morto e, ripercorrendo gli episodi in cui i due hanno
interagito, si fa portavoce non solo dei suoi sentimenti, ma anche di quelli
del compagno.
E così, senza nemmeno accorgercene, ci troviamo immersi in
una storia, ne assorbiamo avidi l’evoluzione, magari assecondando le piroette
del narratore, che ci porta in lungo e in largo per i luoghi e gli anni dei
personaggi, e poi scopriamo che è finita così. Senza un “e vissero tutti felici
o scontenti”. Come se chi scrive ci avesse giocato uno scherzo e noi avessimo
abboccato al primo colpo. Ma Babelfish è il pesce di Babele, non quello
d’aprile, e il tranello narrativo è un buon espediente per tenere vivo il ritmo
della lettura, per non tentarci a saltare nemmeno una riga delle 127 pagine.
Avremmo voluto saperne di più su Rino? Ci sarebbe piaciuto capire che ne è
stato di Chris o di Ivan? Non abbiamo tempo per pensarci, perché, mentre
incassiamo il colpo del distacco da una storia, arriva subito quella
successiva, che ci trasporta verso ben altri lidi.
Lo stile è quello di chi non teme qualche arcaismo: un vi al
posto di un ci, un pronome egli o un essa rispolverati da quei cassetti
letterari che sembravano ormai chiusi per sempre. Non siamo più abituati a
vederli stampati né tanto meno a sentirli, perciò in certi frangenti la
concentrazione tematica cede il passo all’analisi testuale: ci fermiamo,
interrogandoci sul senso di espressioni e parole che credevamo di aver
abbandonato per sempre sui libri di scuola. Ma possiamo perdonare questa
interruzione grazie alla capacità dell’autore di descrivere situazioni e
sentimenti in modo tale che, mentre li leggiamo, ci viene da dire: «ha
ragione, è proprio così!». E questo è garantito solo da quella confidenza con la lingua
che permette a uno scrittore di sfruttarne appieno le potenzialità, senza però
cadere nell’abuso quantitativo o qualitativo.
Un pesce, quello di Babele, che vale quindi la pena di
scegliere nell’oceano ormai popolatissimo ma non sempre altrettanto appagante,
della letteratura contemporanea.
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