mercoledì 2 aprile 2014

Chi fa da sé fa per tre?

Chi fa da sé fa per tre. O l’Italia è l’eccezione che conferma la regola o anche i proverbi sbagliano, almeno nel mondo del lavoro. L’ampio spettro delle partite iva, che nel nostro Paese costituisce il 24% degli occupati, vive e sostanzia la crisi del ceto medio. Si va dall’artigiano e il commerciante di bottega al professionista laureato, passando per le micro e piccole imprese (fino a 49 dipendenti). E’ questa la schiera dei lavoratori autonomi, accomunati da propensione al rischio, un set di competenze più o meno tecniche e la disponibilità di un capitale fisico minimo per affacciarsi sul mercato. A tale miscellanea, che varia a seconda della figura professionale presa in considerazione, si è aggiunto però nell’ultimo ventennio un altro ingrediente, purtroppo avvelenato: la vulnerabilità sociale. I lavoratori autonomi, specialmente quelli più vicini alle fasce di povertà, sono funamboli che cercano di tenere in equilibrio entrate e uscite di capitali, vincoli a datori di lavoro che si presentano allo Stato come partner (con conseguente assenza di contratti che garantiscano tutele minime) e gli eventi della vita che colpiscono chiunque, senza preavviso, come un acquazzone ad agosto.


Insomma, il lavoro autonomo ha a che fare con la libertà solo nella forma, ma nella sostanza porta alla stagnazione, frammentando il mercato in minuscoli fazzoletti locali, senza generare reti con clienti e professionisti esteri. Allora perché l’Italia è terza in Europa, preceduta solo da Grecia e Turchia, per numero di lavoratori autonomi? Di certo contano le radici storico-culturali, il fatto cioè che il nostro sia un Paese di tarda unificazione territoriale e di debole tradizione liberale, ma a intorpidire le acque non sono solo i detriti stratificati negli scorsi decenni: anche il presente gioca la sua parte. Per esempio, ci sono categorie intoccabili, protette da politici che trovano in esse il loro bacino diretto di elettori. A risentirne in maniera tragica sono le politiche economiche, che rimangono vincolate agli interessi di singoli gruppi, perdendo così slancio nella rincorsa verso un benessere capillare e inclusivo. D’altronde non è un caso che la piccola e media borghesia, il ceto più esposto alle tempeste economiche e al tempo stesso meno rappresentato politicamente, sia una succulenta preda elettorale per quei partiti populisti (dalla Lega Nord al Movimento 5 Stelle) che basano la loro forza sul malcontento e sulla rivendicazione.
In questo panorama vengono meno i tre fattori che hanno sempre fatto da collanti per il lavoro autonomo. In primis la propensione al rischio, perché oggi sempre meno persone sono disposte ad avventurarsi da cerbiatti in una jungla economica di tigri. Scricchiola anche la competenza: o ce n’è troppa e il sapere diventa quindi asettico e intrappolato in compartimenti stagni, oppure troppo poca, con una crescente arretratezza della formazione professionale negli istituti tecnici. Infine, ma in realtà anche al principio, mancano i capitali: le risorse pubbliche vengono per lo più utilizzate a beneficio delle già citate categorie protette e non per incentivare start-up e investimenti. L’apertura ai mercati stranieri, parallela a una mancata capacità di risposta competitiva e interlocutoria da parte delle aziende nostrane, è l’ennesima goccia di quest’acqua torbida, forse proprio quella che fa traboccare il vaso.

A dispetto del dualismo che tanto piace a noi italiani, stavolta non è un gioco a somma zero: lavoro autonomo contro lavoro dipendente. Si tratta semmai di interrelazione tra i due. E, se di gioco si parla, per uno stesso risultato hanno entrambi da guadagnare. O da perdere.

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