Chi fa da sé
fa per tre. O l’Italia è l’eccezione che conferma la regola o anche i proverbi
sbagliano, almeno nel mondo del lavoro. L’ampio spettro delle partite iva, che
nel nostro Paese costituisce il 24% degli occupati, vive e sostanzia la crisi
del ceto medio. Si va dall’artigiano e il commerciante di bottega al
professionista laureato, passando per le micro e piccole imprese (fino a 49
dipendenti). E’ questa la schiera dei lavoratori autonomi, accomunati da
propensione al rischio, un set di competenze più o meno tecniche e la
disponibilità di un capitale fisico minimo per affacciarsi sul mercato. A tale
miscellanea, che varia a seconda della figura professionale presa in
considerazione, si è aggiunto però nell’ultimo ventennio un altro ingrediente,
purtroppo avvelenato: la vulnerabilità sociale. I lavoratori autonomi, specialmente
quelli più vicini alle fasce di povertà, sono funamboli che cercano di tenere
in equilibrio entrate e uscite di capitali, vincoli a datori di lavoro che si
presentano allo Stato come partner (con conseguente assenza di contratti che garantiscano
tutele minime) e gli eventi della vita che colpiscono chiunque, senza preavviso,
come un acquazzone ad agosto.
Insomma, il lavoro autonomo ha a che fare con la
libertà solo nella forma, ma nella sostanza porta alla stagnazione, frammentando
il mercato in minuscoli fazzoletti locali, senza generare reti con clienti e
professionisti esteri. Allora perché l’Italia è terza in Europa, preceduta solo
da Grecia e Turchia, per numero di lavoratori autonomi? Di certo contano le
radici storico-culturali, il fatto cioè che il nostro sia un Paese di tarda
unificazione territoriale e di debole tradizione liberale, ma a intorpidire le
acque non sono solo i detriti stratificati negli scorsi decenni: anche il
presente gioca la sua parte. Per esempio, ci sono categorie intoccabili,
protette da politici che trovano in esse il loro bacino diretto di elettori. A
risentirne in maniera tragica sono le politiche economiche, che rimangono
vincolate agli interessi di singoli gruppi, perdendo così slancio nella rincorsa
verso un benessere capillare e inclusivo. D’altronde non è un caso che la
piccola e media borghesia, il ceto più esposto alle tempeste economiche e al
tempo stesso meno rappresentato politicamente, sia una succulenta preda
elettorale per quei partiti populisti (dalla Lega Nord al Movimento 5 Stelle)
che basano la loro forza sul malcontento e sulla rivendicazione.
In questo
panorama vengono meno i tre fattori che hanno sempre fatto da collanti per il
lavoro autonomo. In primis la propensione al rischio, perché oggi sempre meno
persone sono disposte ad avventurarsi da cerbiatti in una jungla economica di
tigri. Scricchiola anche la competenza: o ce n’è troppa e il sapere diventa
quindi asettico e intrappolato in compartimenti stagni, oppure troppo poca, con
una crescente arretratezza della formazione professionale negli istituti
tecnici. Infine, ma in realtà anche al principio, mancano i capitali: le
risorse pubbliche vengono per lo più utilizzate a beneficio delle già citate
categorie protette e non per incentivare start-up e investimenti. L’apertura ai
mercati stranieri, parallela a una mancata capacità di risposta competitiva e
interlocutoria da parte delle aziende nostrane, è l’ennesima goccia di
quest’acqua torbida, forse proprio quella che fa traboccare il vaso.
A dispetto
del dualismo che tanto piace a noi italiani, stavolta non è un gioco a somma
zero: lavoro autonomo contro lavoro dipendente. Si tratta semmai di interrelazione
tra i due. E, se di gioco si parla, per uno stesso risultato hanno entrambi da
guadagnare. O da perdere.
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