In comune hanno di sicuro il prezzo. Alto, molto alto. E il fatto che quando li compri non paghi il prodotto, ma il suo nome. Il brand. Chissà se aveva pensato a questo Peddy Megui, illustratore marocchino-israelita, quando ha realizzato la serie Wheat is Wheat is Wheat, in mostra al Museum of Craft and Desing di San Francisco. Una galleria di opere in cui gli stilisti più famosi e, diciamolo, inflazionati, danno nome e cognome ai cosiddetti beni di prima necessità. Quelli che troviamo al supermercato, che ci servono, forse, e che acquistiamo non solo per la loro funzione primaria, ma specialmente per l'identità che hanno e che trasmettono in maniera quasi osmotica.
E' così che le arance si vestono Nike, il latte ha l'etichetta Apple, il burro si chiama Bvlgari, l'olio Benetton e il caffè lo fa Cartier.
La cosa più divertente sono i biscotti per la prima colazione, firmati Dolce e Gabbana: non era abbastanza beffardo il messaggio della Saiwa "impacchettati caldi", come se questo lenisse la freddura di mangiare biscottini in simil cartone. No arriva D&G a dirci che sono anche "Dolce". Poi però si corregge con il "GABBAna". Per non parlare della farina Prada. Come a dire: celiaci state attenti, il diavolo si veste anche con un pacchetto di carta.
In realtà c'è poco da ridere. Il concetto non è solo accomunare moda e prodotti di largo consumo, perché entrambi usano le armi del marketing e della pubblicità. Tutti ormai sappiamo che al supermercato non paghiamo la mela della Val di Non, ma l'uomo con la camicia a quadri e la ragazza in gonnella che ci offrono la bella-Melinda-buona-e-gustosa (e che ovviamente ci rendono la vita un po' più gioiosa). Non compriamo la pasta di grano duro, ma la casa tutta italiana, arredata però Ikea, dove sono tutti felici grazie agli spaghetti Barilla. E i bambini hanno oggi deficit immunitari talmente elevati da necessitare delle preziose vitamine, del latte pastorizzato, dei cereali appena colti e di tutti gli altri ingredienti freschi che le mamme possono trovare, indovinate un po', nelle sanissime merendine Mulino Bianco e Kinder. Quelle che spuntano dal fazzoletto bianco in modalità iper-lievitazione. Naturale, ovviamente.
Potrei andare avanti pagine e pagine a elencare le perle contenute nei messaggi pubblicitari dei marchi più famosi. E mi divertirei anche tanto, fino alla noia, ma sono cose già dette e sentite. Forse fino a sei anni fa il fatto triste sarebbe stato solo questo: che siamo tutti uno sciame di api cieche e impazzite, che finiremo per schiantarci contro il nostro pungiglione o morire impiastricciati nel miele che abbiamo prodotto. Ma dal 2008 c'è dell'altro. In pochi possono oggi permettersi di fare le api cieche tra gli scaffali dei supermercati o di sviluppare una paralisi mandibolare a forza di tenere la bocca spalancata davanti al televisore e al suo flusso di spot pubblicitari. C'è un nuovo filo, decisamente più drammatico, che unisce Prada alla farina, D&G ai biscotti e compagnia bella: sono tutti prodotti di lusso. Tanta gente non se li può più permettere. Quelli che un tempo erano i discount adesso sono diventati punti vendita normali. Avete notato come non ci sia più in tv l'allegra musichetta Lidle? Non ce n'è più bisogno, la gente ci va comunque, ormai conosce bene i luoghi di risparmio. Sono in molti, infatti, a scommettere che gli 80 euro mensili introdotti nelle buste paga degli italiani (quelli che hanno un'annualità dagli 8.000 ai 20.000 euro circa) non saranno benzina per i consumi, ma serviranno piuttosto a riempire i salvadanai domestici.
La recessione si dice conclusa, ma se essa abbia passato o meno il testimone alla ripresa bisogna ancora verificarlo. Nel frattempo anche il lusso ha dovuto adeguarsi, transitando dalle passerelle d'haute couture alle corsie dei supermercati.
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