Vi sembrerà strano, ma pure le donne hanno capito che le borse non sono solo quelle che si mettono a tracolla e che ci fanno impazzire davanti alle vetrine. Insomma, c'è chi, come la sottoscritta, è particolarmente affascinata dai mercati finanziari. E da quelli che ci lavorano.
Per capire come mai Milano venga definita una metropoli,
bisogna andare in piazza Aulenti. Sembra di non essere in Italia. Ma a New
York. O a Londra. Grattacieli vetrati, ampie fontane raso terra, ventiquattrore
al posto dei piccioni. Sede Unicredit. Entrando nella torre 9, passati i
controlli di sicurezza, un badge apre, almeno fisicamente, le porte del mondo
dei mercati finanziari. Sei camere di contrattazione, infiniti uffici che
gestiscono ogni aspetto delle reti italiane, 4.000 addetti ai lavori. L’istituto
di credito milanese ha appena completato il trasferimento dell’intero comparto
nella sede in zona Garibaldi. Sono state incorporate 26 filiali, prima sparse
nell’hinterland, al fine di ottimizzare il lavoro e la comunicazione della
banca. Una vera e propria cittadella del denaro. Denaro invisibile, che fluttua
e cambia il suo valore in tempo reale, concretizzato solo dai numeri sui
quattro, cinque, sei monitor che riempiono le scrivanie dei manager, tutti
rigorosamente in camicia bianca.
«Pronto, hallo?»
«Uno stacco a mezzo!»
«Stacca a mezzo, Sergio!»
Spezzoni di conversazioni telefoniche, il cui tono frenetico
riecheggia nell’open space della sala di contrattazione. Qui vengono negoziate
le sorti finanziarie dei mercati. Lo fanno i sales, che gestiscono gli interessi dei clienti, e i traders, che monitorano le reti della
banca. C’è la zona execution, quella
di contrattazione sui mercati, e l’area production,
in cui vengono pensati, strutturati e realizzati i prodotti finanziari di
Unicredit. La struttura si ripete uguale nelle varie sale, che si differenziano
principalmente per le reti, italiane o straniere, e i clienti, piccole o grandi
aziende, a cui afferiscono. Un’attività, quella del brokeraggio, che genera dai
15 ai 20 miliardi l’anno. Specializzazione, numero di clienti, rapidità del
servizio e capillarità delle reti sono gli indici che determinano la buona o la
cattiva qualità degli operatori di mercato.
Swot, swap, future: non è solo la moneta a inflazionarsi, ma anche la
lingua inglese e le sigle. Altro fattore che confonde l’orientamento geografico
del visitatore. Ma che siamo in Unicredit lo si può intuire dai colori
dell’arredamento: il bianco e il rosso del mobilio, unito al nero dei computer.
Le stesse tinte di quella carta magnetica tanto nota ai clienti della banca. I
clienti, appunto: il singolo cittadino, la grande azienda, lo Stato. Soggetti
che si portano appresso esigenze e interessi diversi, talvolta contrastanti.
Tutti però hanno a che fare ogni volta con una variabile determinante: il
rischio. E’ un circolo, virtuoso o vizioso a seconda dei punti di vista: più
alto viene percepito, meno si tende a rischiare, ma meno si rischia meno i
mercati sono dinamici, con influssi negativi sull’economia. D’altra parte,
maggiore è la propensione all’avventura finanziaria, più sale l’astrazione di
valore del capitale, con il pericolo di generare effetti deleteri, come la vicenda
dei sub-prime. In pratica, il rischio era diventato entità talmente eterea per
gli azionisti e per gli operatori dei mercati finanziari che si era generata
l’illusione della sua inesistenza. Gli investimenti di tanti e i beni di
tantissimi galleggiavano all’interno di una bolla speculativa in continua
espansione. Finché questa bolla è scoppiata e con essa il valore dell’immobiliare,
che ha determinato, per effetto domino, stragi economiche su tutti i mercati, sia
a livello settoriale che geografico.
Tanto è cambiato da quel 2008, che pare già lontanissimo. Si sono
trasformate in primis le abitudini di consumo dei cittadini, ma anche la
percezione degli investitori, oggi forse più ancorati alla concretezza. Il
risparmio, visto come la palla al piede del commercio e della ripresa
economica, è stato invece l’airbag di molte famiglie, specialmente italiane,
sopravvissute alla crisi grazie ai soldi messi da parte nel corso di una vita e
alle abitudini oculate che caratterizzano la nostra nazione. Eppure negli
ultimi dieci anni il non speso è stato ben poco, perché poco è stato in
generale il denaro e alti, rispetto al tenore delle buste paga, i prezzi.
Questo anche in Italia, che rimane comunque il bengodi degli istituti creditizi
stranieri, attirati dalla nostra forte propensione al risparmio.
In un simile panorama si staglia la nuova reputazione delle banche,
che hanno la fama di cacciatori in una prateria di agnelli. Tale è l’idea che
piace divulgare, soprattutto a quella politica che pure ha contribuito, con la
dilatazione del debito pubblico, ad aggravare la crisi economica. Eppure le
banche sono esse stesse imprese, non enti di carità. E come soggetti economici
vanno trattati: non si può obbligare un soggetto a svolgere un’attività che gli
generi perdite. Di conseguenza, anche gli istituti creditizi possono e
dovrebbero valutare l’affidabilità finanziaria dei loro clienti, la capacità
che questi hanno di risanare i debiti. Ciò a dispetto anche delle lamentele
sull’impossibilità di piccoli e medi imprenditori di accedere al credito.
E così riecheggia quella parola. Capitale. Non il Capitale di Marx,
figlio indiscusso dell’economia moderna. Semmai il Capitale Umano. Sì, quello
di Stephen Amidon e di Virzì. Perché in fondo non sono solo le compagnie
assicurative a calcolare il valore prodotto dalla vita di un uomo. Forse lo
fanno anche quelli che investono per mandare il figlio all’università. O per
comprarsi in futuro la villa con piscina. Un po’ come i protagonisti del
romanzo e del film, che, pur traslati dall’America all’Italia, sono sempre
mossi da quel fattore imprendibile e capriccioso che è il rischio.
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