«Anche se è difficile, fare giornalismo in Italia è molto più
interessante che farlo nel mondo anglosassone». Il suo nome, Rachel Sanderson,
e la sua forte inflessione inglese nonostante viva nel nostro Paese ormai da 17
anni, non avrebbero mai lasciato presagire una dichiarazione d’amore così
spassionata. Anche il suo aspetto da ragazzina stride. Sia con i suoi 40 anni
candidamente dichiarati sia con la materia di cui si occupa, economia e finanza.
«Il fatto è che qui in Italia il mercato è ancora ristretto, si fa un po’ tutto
in famiglia e, come in ogni famiglia, le regole ci sono ma non così formali. Le
persone sono ancora disposte a parlare senza l’intermediazione dei portavoce,
di certo ci sono molti più spifferi di notizie, che per un giornalista sono sempre
materia preziosa». Già, ma questi spifferi possono anche distorcere ciò che
avviene all’interno delle mura. Il rischio di notizie manipolate è senza dubbio
maggiore che all’estero, dove il mercato è aperto agli investitori
internazionali e quindi richiede molta più trasparenza e regolamentazione. «Ero
a una cena a Londra, poco prima di trasferirmi in Italia per lavorare come
corrispondente di Financial Times. Ricordo che una banchiera italiana mi mise
in guardia: tenteranno di farti dire quel che vorranno, perché le news delle
testate straniere sono fonti per le agenzie di stampa nazionali». Tuttavia, non
sembra particolarmente provata, Rachel Sanderson, che difende l’atteggiamento
nostrano – sia dei giornalisti che degli agenti di mercato - come questione
culturale e storica, lasciando almeno per una volta da parte il sermone sulla
corruzione che penetra dai mille buchi del nostro stivale.
«Lavoravo ancora per Reuters e intervistai Renato Brunetta il primo
giorno in cui era nella squadra di Berlusconi. Insomma, erano tempi di crisi e
mi venne spontaneo chiedergli se l’Italia avrebbe venduto il suo oro. Lui
rispose: oh beh sì, vedremo. Avevo la notizia, anche se mi convinse una mia
collega a pubblicarla. Io in realtà mi facevo un po’ riguardo verso Brunetta.
Era il suo primo giorno, magari non aveva ancora capito che certe cose era
meglio non dirle al telefono». Di certo Mario Draghi, Renato Brunetta e tutti
gli azionisti che in quel momento vissero i movimenti tellurici del mercato non
avranno provato verso la Sanderson la stessa simpatia che ho avvertito io mentre ascoltavo i suoi racconti. Eppure c’è
una frase che ritorna come un mantra nella nostra chiacchierata: «Noi
giornalisti economici dobbiamo sempre pensare che il mercato sia il nostro
capo-redattore». Basta una notizia apparentemente marginale, come un problema
tecnico della Apple nell’implementazione del suo nuovo tablet, per
destabilizzare i mercati. In Italia meno che all’estero, perché il mondo della
finanza è ancora piuttosto isolato, ma, da quando gli investitori stranieri si
stanno interessando ai nostri titoli azionari, le cose stanno cambiando. La
differenza tra il giornalismo anglosassone e quello italiano, secondo la
Sanderson, è che da noi c’è meno cameratismo, le persone sono più disposte a
dare soffiate. Anche sulla società in cui lavorano (loro o i partener). Così
l’individualismo, che da sempre siamo i primi a rimproverarci, non è solo una
macchia. Almeno non sulla camicia dei manager di borsa o dei giornalisti in
cerca di notizie.
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