È un po’ come quei coltelli da boy-scout. Aggeggi
multi-funzione, all’insegna del risparmio e della praticità. Se l’espressione
spending review è sempre stata associata a uno strumento di revisione della
spesa pubblica, quindi una misura volta a risanare il bilancio dello Stato,
Dino Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento del passato
Governo Monti, mostra il panorama sotto un’altra prospettiva.
Sarà anche
necessaria per la contabilità pubblica, ma la spending review è stata ed è
tutt’oggi prezioso oggetto di propaganda elettorale. In un senso o nell’altro.
Per tutto l’ultimo decennio del XX secolo, dopo la bufera di Tangentopoli e
l’acclamazione a gran voce di uno Stato “onesto” e “pulito”, anche i robusti
interventi di innalzamento delle tasse operati dal Governo Amato e dagli
esecutivi che lo seguirono furono strumenti di consenso politico. Erano passati
i tempi rampanti degli anni Ottanta ed era necessario riportare in positivo il
bilancio statale. Fu ciò che accadde, con un passaggio dal -5 al 5% del saldo
primario in termini reali. «L’inflazione aiutava, perché consentiva di far
crescere la spesa pubblica sempre un po’ meno rispetto al costo del denaro», continua
Giarda, «rimanevano però fuori i tassi di interesse, che riportavano l’Italia
in deficit. Fu così che Prodi nel 1996 tirò fuori l’eurotassa, per raggiungere
il tetto del 3% e permettere al nostro Paese di entrare nella prima tornata
dell’euro». Ma sempre di consenso si trattava, perché gli italiani erano ben
contenti di diventare cittadini comunitari e avere tra le mani monete nuove e
banconote fruscianti. Alla domanda se l’Italia fosse davvero pronta per entrare
nell’eurozona, Giarda risponde in toni sibillini: «Guardate quello che è
successo dopo il 2001». Dopo l’11 settembre, già. Da un lato la crisi dei
mercati internazionali, la paura che faceva rimpiangere a tutti la vecchia
lira. Dall’altro il forzato rallentamento dell’inflazione, che stava bloccando
consumi e investimenti. Ecco quindi una nuova spending review, stavolta di
matrice opposta: riduzione del carico fiscale, a vantaggio dei privati e delle
imprese. L’asso nella manica di Silvio Berlusconi, quello che lo portò a
vincere contro Francesco Rutelli. «E’ da lì che anche la sinistra si è fatta
contagiare dal taglio delle tasse».
E ora, dopo lo tzunami che ha iniziato a soffiare nel 2008 e che muove
ancora gli ultimi colpi di coda, l’imperativo è un connubio tra queste due
politiche: riorganizzare sì la spesa pubblica, tagliando gli sprechi e
incentivando i consumi, ma ridurre anche le tasse. «Che poi, sarà così vero che
in Italia il carico fiscale è troppo elevato?» Se il proverbio dice che non si
può avere la botte piena e la moglie ubriaca, a questo ci penserà il neo
premier Matteo Renzi, che ha previsto un taglio della spesa pubblica di 14.000
euro per il 2015. «Certo», ammicca Giarda, «le sue sono stime su base
conoscitiva, servirebbero misure strutturali, ma quando le proposi io a Monti
mi disse che noi eravamo un governo tecnico e non era nostro compito riformare
lo Stato».
In due parole: tagli lineari. Peggio dei tormentino estivi, perché almeno quelli si sentono solo tre mesi all'anno. «I tagli sono lineari, ma per qualcuno lo sono di più». E il richiamo
a Orwell è solo un indizio della vasta cultura della storia economica che Giarda non si
fa certo scrupolo a sfoggiare. «Li hanno
adottati tutti i governi nell’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato.
10% in meno a ogni ministero, per esempio. Poi però, ex-post, questi tagli
tanto lineari non sono, perché entrano in gioco gli assestamenti di bilancio,
che ricalibrano le spese. E allora, passato il clamore (elettorale) i tagli
diventano selettivi». Lo stesso, a detta del presidente del consiglio di
sorveglianza della Banca Popolare di Milano, avviene per le altre due voci dei
tagli lineari: sanità ed enti pubblici. «Bisognerebbe ottimizzare la gestione
dell’amministrazione pubblica, renderla più efficiente, insomma. La riforma del
titolo V in materia di competenza concorrente, per esempio, non era una cattiva
idea, dovevano però essere approvate norme di principio, da applicare poi in
maniera diversa sulle varie realtà territoriali. Invece quella riforma si
rivelò un pasticcio, perché pensata solo a livello centralizzato». Parole,
quelle di Giarda, che sembrano arruolarlo tra i detrattori dei tagli lineari.
Invece non è così: «Per ottenere una riduzione significativa del disavanzo, i
tagli lineari sono un passo obbligato, ma si tratta pur sempre di interventi
temporanei, a cui vanno accompagnate misure strutturali, appunto una revisione
della spesa pubblica. E’ un po’ come con le banche: bisogna tagliare il
personale in esubero». E, a proposito di banche, c’è solo da sperare che Giarda
non abbia la stessa popolarità con cui è stato accolto lo scorso febbraio il
suo progetto di riorganizzazione della governance in Bpm. La proposta di
abolire il voto capitario, al fine di rendere più efficiente la gestione della
banca e a stimolare gli investimenti sostanziali, è stata infatti boicottata
dall’unione dei piccoli azionisti e dei dipendenti esterni. Ancora una volta, quindi, finanza e consenso vanno di pari passo.
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