venerdì 23 ottobre 2015

Il rifiuto dei cervelli

Gli egiziani sono bravissimi a fare la pizza. Ma perché un laureato in Egitto diventa pizzaiolo in Italia?

I lavori altamente qualificati sono off limits per gli stranieri provenienti da Paesi non dell’Ue. C’entra ben poco la crisi occupazionale, che al contrario sta incrementando le richieste di professionalità specializzate, e il problema non si colloca nemmeno nella saturazione del mercato. L’Italia ha bisogno di tecnici, creativi e scienziati, ma non è in grado di trattenere i suoi, figuriamoci di attirarne da altri Paesi. Eppure, se la “fuga dei cervelli” è ormai diventata un ritornello stanco e abusato, il rifiuto degli stessi passa decisamente in sordina. Giovani o meno giovani, uomini e donne che hanno studiato in Paesi extra europei, davanti alla richiesta di poter esercitare in Italia la professione per cui si sono formati trovano una porta sbattuta in faccia.

La questione ha un nome e un cognome: discriminazione di cittadinanza nel mondo del lavoro. Interi settori in grave carenza di personale altamente qualificato rimangono inefficienti perché sia il pubblico sia il privato non sono incentivati ad assumere lavoratori che non abbiano la cittadinanza europea. Vincoli amministrativi demotivanti, ostacoli burocratici troppo onerosi, diffidenza. Eppure già nel 2009 – quando la crisi economica era ancora timida nel vecchio continente – la direttiva 2009/50/CE del Consiglio dell’Unione europea invitava i Paesi membri alla creazione della Blue Card, un permesso di soggiorno speciale (oltre i tre mesi) per i cittadini extra europei che si prestavano a esercitare professioni altamente qualificate all’interno di uno dei Paesi dell’Unione. L’obiettivo era quello fissato dal Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000: “trasformare la Comunità, entro il 2010, nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale”.

Il testo di Bruxelles poneva però alcuni limiti: le politiche di assunzione, per esempio, non potevano essere praticate per quei settori in cui i Paesi terzi erano già carenti di risorse e di personale. Veniva inoltre raccomandata forte attenzione per le “assunzioni etiche” in ambito di sanità e di istruzione. Come dovesse essere però concretizzato il concetto di “etica” non era chiarito. Veniva invece specificato che per “lavoro altamente qualificato” si intende un impiego regolare – non in nero – per il cui esercizio servano e siano stati svolti studi superiori. Come normalizzare poi i titoli derivanti da percorsi diversi rispetto a quelli del Paese ospitante spettava ai singoli Stati, i quali, sempre secondo la direttiva 2009/50/CE, erano tenuti ad accertarsi che i posti vacanti non potessero essere coperti da forza lavoro nazionale o comunitaria. In pratica la Blue Card era vista come rimedio in extremis già nel testo di partenza, presupposto non ideale per favorire il cosiddetto “afflusso di cervelli”.

La direttiva Ue ha sonnecchiato sulle scrivanie di Parlamento e Governo italiani per tre anni. Finalmente, nel 2012, il suo recepimento, con il decreto legislativo n.108 del 28 giugno.  Il provvedimento aggiungeva l’articolo 27-quater al Testo Unico Immigrazione: i lavoratori stranieri extracomunitari altamente qualificati potevano fare ingresso in Italia, con apposito visto, al di fuori del regime delle quote, quindi in ogni periodo dell’anno e senza che vi fossero i limiti numerici fissati con i “decreti flusso”. Nell’articolo 27-quarter erano considerati lavoratori altamente qualificati gli stranieri in possesso di un titolo di studio rilasciato da istituti di istruzione superiore post-secondaria dopo un percorso formativo di almeno tre anni. Ai soggetti interessati era concesso un permesso di soggiorno elettronico: di durata biennale se titolari di un contratto a tempo indeterminato; per un periodo pari a quello del rapporto di lavoro più tre mesi, se in possesso di un contratto a termine. La Blue Card dava diritto a un trattamento “pari a quello dei cittadini” e al ricongiungimento immediato con i famigliari.
Anche in questo caso valeva però la regola dell’”ultima spiaggia”: il datore di lavoro che avesse voluto presentare la domanda avrebbe dovuto preventivamente verificare al Centro per l'Impiego competente l'impossibilità di assumere un cittadino comunitario. La successiva richiesta di nulla-osta, presentata con apposita procedura online, doveva essere corredata da una proposta di contratto di lavoro, o offerta vincolante, della durata di almeno un anno, insieme alla certificazione dal Paese di provenienza del cittadino straniero che confermasse il titolo di istruzione e la qualifica professionale. Il requisito retributivo lordo annuale non doveva essere inferiore al triplo del livello minimo previsto per l'esenzione alla spesa sanitaria: 24.789 euro. Una cifra modesta, se confrontata con il minimo richiesto dalla Germania (46.400 euro), dall’Olanda (63.000 euro) e dalla Francia (stipendio superiore alla media annuale del compenso lordo nel settore di riferimento, calcolato annualmente dal Ministro per l'Immigrazione).


A distanza di tre anni, però, ecco il flop della Blue card. Carente in Europa, quasi inesistente in Italia.  Solo 16mila i nulla osta di lavoro rilasciati dai Paesi membri dell'Ue, 13mila in un unico Stato (la Germania). Da noi appena 118. [Dati Agenda europea sulla migrazione maggio 2015]. Numeri bassissimi, considerando le premesse alla base del progetto: la popolazione attiva nell’area comunitaria diminuirà del 50% entro il 2050. Secondo uno studio condotto da Bdo International e dall’Hamburg Institute of International Economy, Germania, Portogallo e Italia sono i Paesi europei con il più basso tasso di natalità e per far fronte alla progressiva perdita di forza lavoro devono incrementare il flusso di migranti inseriti nelle loro economie.
La discriminazione attuata mediante le barriere all’ingresso nel mondo del lavoro altamente qualificato non solo contrasta con i principi etici a cui fanno riferimento le politiche dell’Unione, ma addirittura stride con gli interessi della stessa Comunità.
La carta blu è stata inserita nell’Agenda europea al fine di favorire il potenziamento e la valorizzazione della direttiva 2009/50/CE, eliminando gli ostacoli alla sua realizzazione. Tale riesame, discusso lo scorso 26 giugno, riguarda il campo di applicazione della carta blu: il parere degli imprenditori sulle soluzioni per renderla efficace e il miglioramento della mobilità all’interno dell’Ue per chi ne è in possesso. Nel frattempo, a maggio 2015, in Italia è stata semplificata la procedura di acquisizione della Blue card: le aziende che sottoscrivono un protocollo d’intesa con i ministeri dell’Interno e del Lavoro possono far arrivare i lavoratori altamente qualificati inviando una semplice comunicazione via internet allo Sportello Unico per l’Immigrazione, senza dover attendere una successiva autorizzazione. Il lavoratore si reca poi al consolato italiano nel suo Paese, dove gli viene fornito il visto d’ingresso in Italia. Una volta qui, sottoscrive il contratto di soggiorno e richiede la Blue card.

Questo è solo un esempio della difficoltà – italiana ed europea - a integrare in maniera effettiva gli stranieri nelle varie realtà professionali. Un tipo di discriminazione che fa da silicone all’ingresso nel mondo del lavoro per migliaia di soggetti e che si sviluppa non in ufficio o in fabbrica ma prima ancora di potervi entrare. Persino i concorsi pubblici sono per la maggior parte inaccessibili ai cittadini di Paesi terzi, nonostante dal 2013 le PA siano tenute per direttiva comunitaria a riscrivere i bandi, eliminando la clausola di cittadinanza. A prescriverlo è stata la legge n. 97 del 6 agosto 2013. Con forti limitazioni. Innanzitutto gli immigrati non possono entrare nella magistratura, nella polizia o nell’esercito, dal momento che hanno “diritto” ad aspirare soltanto a ruoli che “non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. La normativa europea dà inoltre la possibilità di partecipare ai concorsi pubblici solo a chi è in possesso di un permesso di soggiorno CE di lungo periodo, a chi ha ottenuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Restano dunque esclusi gli stranieri con permesso di soggiorno semplice a tempo limitato e anche per gli altri la tutela è solo formale, visto che ben poche amministrazioni hanno adeguato i loro bandi di concorso. A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Milano (5 marzo 2015) ha ritenuto discriminatorio il bando per l’accesso alle graduatorie di insegnamento DM 353/2014  nella parte in cui esso prevede il requisito di cittadinanza italiana o comunitaria, senza includere i titolari della carta blu. Lo stesso bando ha inoltre collocato gli stranieri ammessi alle graduatorie di III fascia per l'insegnamento di conversazione in lingua estera in posizione subordinata rispetto ai cittadini italiani. Oltre alla modifica del regolamento e alla riapertura delle domande di iscrizione con adeguata pubblicità, il Miur ha dovuto rimborsare alla parte lesa più di 3.000 euro.

Alberto Guariso
“La discriminazione – sostiene l’avvocato Alberto Guariso, esperto di diritto del lavoro – in questo come in altri casi non è provocata solo dal razzismo, ma è frutto della mera inerzia da parte delle pubbliche amministrazioni, che spesso non si scomodano ad adeguare i bandi alla normativa vigente”. Secondo Guariso, “nemmeno le cooperative si salvano, perché inseriscono gli stranieri soltanto in realtà professionali basse, creando una segmentazione del mercato e della società: ai cittadini i lavori qualificati, agli altri quelli degradanti”.

“Meno male che ci sono gli stranieri – dicono alcuni -, perché gli italiani non vogliono più fare certi lavori”.  Già, ma chi ha detto che lo stesso non valga per gli extra comunitari?


venerdì 2 ottobre 2015

#Instagram, #riti e #manie

Chiamatela realtà di secondo grado. O magico potere del cancelletto, anzi, dell'hashtag, ché i nati dopo il 1990 non sanno nemmeno che cos'è un cancelletto. E' il mondo digitalizzato e reimpastato in un caleidoscopio di filtri vintage e psichedelici, che espungono dallo schermo le brutture della vita.

Instagram è un concentrato attivo di iper connessione e vanità sociale: unisce la vocazione popolare di Facebook con il tono elitario di Twitter, appagando l'imperativo categorico del terzo millennio. #iocisono. Come i suoi due fratelli e antesignani, all'inizio era un salotto d'élite: in pochi ne erano a conoscenza e solo qualche graphic addicted lo usava con costanza. Da due anni a questa parte è tutto cambiato e il portale conta oggi 400 milioni di utenti attivi ogni mese. Non solo maghi dello scatto, ma chiunque abbia intuito - o sia stato stregato da - il potere dell'immagine.

Ci sono profili aperti e profili chiusi. Questi ultimi funzionano un po' come Facebook: per seguirli è necessario chiedere il consenso a chi ne è proprietario. La ragione, fondata per lo più sulla privacy, vacilla davanti alla natura di questo social network, in cui, al contrario del sito bianco e blu, gli utenti mirano a raccogliere il numero più elevato possibile di followers. E' però pacifico che la richiesta di un permesso solo per vedere fotografie tende a intimorire e a scoraggiare, per cui la maggior parte dei profili che puntano a collezionare seguaci rimangono aperti.

Ma attenzione alla tecnologia: se non sapete usare la fotocamera dello smartphone o non avete ben capito come funziona l'applicazione Instagram, vi conviene procedere con cautela. Rischiereste, altrimenti, di fare la fine di @abenini. La donna ha raccontato a Rivista Studio di aver "casualmente" trovato un profilo Instragram con il suo volto. Peccato che nelle fotografie postate ci fosse ben poca faccia e molto più corpo: autoscatti in bikini e in pose frivole risalenti al 2010, dove la povera @abenini, nel frattempo sposata e con figli, non si riconosceva assolutamente. All'inizo - ricorda la sventurata - pensai a un furto di identità, qualcuno che avesse creato un profilo fake con i miei dati e le mie foto. Solo in un secondo momento mi sono resa conto che quel profilo era il MIO e che a postare le immagini ero stata IO. Anche se inavvertitamente. Nel 2010 @abenini si era registrata su Instagram solo per osservare le vite degli altri, ma non intendeva postare nulla. A farlo ci ha però pensato l'applicazione per lei, attraverso un meccanismo di pubblicazione automatica degli scatti realizzati con la fotocamera del cellulare. Quindi ogni prova abito, ogni selfie malriuscito, ogni click osé era finito sotto gli occhi del popolo virtuale. E con un sacco di curicini (l'icona usata su Instagram per dire "mi piace").



Al di là delle sventure, esistono mondi nascosti all'interno di quell'icona marrone. Per esempio, gruppi di auto-aiuto per combattere problemi psichici, comunità i cui membri, non numerati ma schedati, si seguono a vicenda per farsi forza, dialogando attraverso fotografie e commenti alle stesse. Ci sono poi fanatici di moda, di cibo e di sport che creano profili tematici. Adesso anche le multinazionali hanno puntato gli occhi sulla piattaforma, generando pagine pubblicitarie a pagamento. La differenza rispetto agli esercenti che decidono di promuoversi attraverso Instagram e lo fanno mediante la registrazione gratuita è che - visto che pagano - le immagini degli inserzionisti (di fatto questo sono) invadono la home degli utenti senza che questi possano cliccare il tasto "non seguire più".

Ma se grazie ai filtri e ai ritagli iniziate a sentirvi tutti Helmut Newton o Henri Cartier-Bresson, ci pensa Champoo Baritone a smontare le vostre arie. La fotografa thailandese ha realizzato un progetto di svelamento dei trucchi di Instagram, mettendo in evidenza la laida realtà che si cela dietro i ritagli e le luci soffuse. E' proprio il caso di dirlo: non è mai come sembra.