venerdì 27 novembre 2015

Noi, ragazzi di oggi

Noi ragazzi di oggi, noi, con tutto il mondo davanti a noi, viviamo nel sogno di poi.

Cantava Luis Miguel nel 1986. Loro erano i ragazzi del rampantismo di fin du siècle, gli yuppie diventati poi i trentenni degli anni Novanta e Duemila, gli ex paninari con il Nokia in tasca e la tv satellitare in salotto. Con il posto in banca o nella grande distribuzione.

Noi siamo i bamboccioni biancocelesti. Non perché tifiamo tutti la Lazio, ma perché abbiamo sempre Facebook alla mano. Badate bene: la nostra vita non è Facebook, ma Facebook è parte della nostra vita. Una parte fondamentale, che ha cambiato i destini di moltissimi. La democrazia social sta erodendo l'esclusività di intere categorie professionali: con i filtri degli smartphone tutti possono trasformare la fotografia più banale in uno scatto suggestivo e postarla su Instagram ottenendo larghissimo consenso. In migliaia hanno un blog e si spacciano per giornalisti da premio Pulitzer. D'altro canto, è proprio grazie alla rete, e in particolar modo ai social network, che piccole, microscopiche realtà sociali, culturali e commerciali riescono a far luce su di sé e a raccogliere consensi. O clienti.

Siamo la generazione delle start up. Quella che si porta ancora addosso la fama di "ragazzi viziati", ma che non può più permettersi di renderla effettiva. Molti di noi nel 2008 stavano ancora studiando e avevano in mente carriere ordinarie, strade già tracciate. Ma nel giro di qualche mese tutto è cambiato. Nessun percorso professionale è più ovvio. E allora l'urgenza di idee, sempre più nuove, sempre più originali, finché nemmeno questi attributi sono più sufficienti. L'unica garanzia di successo è rispondere a una necessità, ma come farlo in un mondo dove tutti cerchiamo di avere sempre meno bisogno? Per questo nascono una marea di nuove imprese under-35, tutte foriere di idee brillanti, ma la maggior parte destinate a rimanere solo un bel progetto con design accattivante sul web.

No, non chiamateci "fortunati". Siamo i prototipi della nuova classe media, che, secondo i criteri di una decina d'anni fa, sarebbe stata povera. Siamo gli stagisti speranzosi e non retribuiti, i progettisti a gratis, i futuri vecchi senza pensione. Viviamo ancora con mamma e papà, magari nella mansarda di casa, perché a mala pena abbiamo i soldi per il parchimetro, figuriamoci per un affitto indipendente.


Eppure siamo molto meno sfigati di quelli che ci hanno preceduto. Non possiamo più contare sull'impresa di papà o sul negozio di mamma, perché anche loro hanno chiuso. E quindi ci reinventiamo giorno per giorno. Studiamo e impariamo senza essere sempre sui libri. Siamo iperconnessi e anche se il nostro inglese è pur sempre maccheronico parliamo con Adam da San Francisco e Kate dall'Australia. Ci salviamo quando riusciamo a capire l'importanza dell'investimento non monetarizzato, quando la nostra prospettiva va oltre l'attuale stipendio mensile e il sacrificio diventa mattone del futuro.

Puoi farci piangere, ah-ah, ma non puoi farci cedere, ah-ah, noi siamo il fuoco sotto la cenere.

venerdì 13 novembre 2015

Siate gentili

Iniziate col non sbuffare davanti a questo titolo. Anche se è vero, in occasione della giornata mondiale della gentilezza il web è stato invaso da post e articoli che sembrano prelevati direttamente dal libro Cuore. Eppure questa ennesima - va da sé inutile - celebrazione (non mi stupirei se istituissero anche una giornata mondiale dei fazzoletti di carta) offre lo spunto per ragionare sul contatto con l'altro e sulla percezione di sé.

Che cosa vuol dire essere gentili? E' proprio vero che basta un sorriso, un grazie o un prego? Forse, sempre che poi non ci volti facendo una smorfia o non si mandi mentalmente a quel paese l'interlocutore. Per carità, ognuno nella sua testa può fare quel che vuole, ma il buon viso a cattivo gioco, oltre a non essere esattamente sinonimo di gentilezza, avvelena la serenità di chi lo pratica e delle relazioni.


Quante volte abbiamo suonato il clacson spazientiti davanti a un semaforo divenuto rosso per colpa della lentezza dell'autista davanti a noi. O a rispondere male all'impiegato del call center che ci chiama proprio mentre stiamo uscendo (in ritardo) per proporci l'ultima offerta Vodafone. Piccoli esempi dell'impazienza acida che sgorga dalle nostre vite nervose. In questi casi sì, vale la pena fare un respiro e trattenere il veleno. In una parola: empatizzare. Pensare cioè a quando avevamo appena preso la patente e facevamo i 50 all'ora cantando "Voglio una vita spericolataaa" o a come si starà divertendo il centralinista a ripetere tutto il giorno la stessa cosa e a sentirsi insultare ad ogni chiamata.



Meglio essere davvero antipatici quando ce n'è bisogno. Rispondere male alla carogna che ci ha fatto un torto reale e volontario, anche se ciò potrebbe compromettere le nostre relazioni diplomatiche. E sorridere invece sul serio allo sconosciuto per strada. O dire un grazie e buona giornata all'edicolante che ci ha appena venduto il giornale. La gentilezza si autoalimenta ed è contagiosa: anche la persona più rude non potrà far altro che arrendersi al garbo. Le giornate pesanti e i problemi personali non sono mai una scusa valida: tutti li hanno e non ce ne sono di più o meno gravi, perché ognuno ha quanto riesce a sopportare, quindi la sofferenza umana si uniforma su un medio livello di lotta alla sopravvivenza costellata da picchi di gioia e di dolore. Essere gentili, in questo senso, aiuta a sopportare meglio la quotidianità.

venerdì 23 ottobre 2015

Il rifiuto dei cervelli

Gli egiziani sono bravissimi a fare la pizza. Ma perché un laureato in Egitto diventa pizzaiolo in Italia?

I lavori altamente qualificati sono off limits per gli stranieri provenienti da Paesi non dell’Ue. C’entra ben poco la crisi occupazionale, che al contrario sta incrementando le richieste di professionalità specializzate, e il problema non si colloca nemmeno nella saturazione del mercato. L’Italia ha bisogno di tecnici, creativi e scienziati, ma non è in grado di trattenere i suoi, figuriamoci di attirarne da altri Paesi. Eppure, se la “fuga dei cervelli” è ormai diventata un ritornello stanco e abusato, il rifiuto degli stessi passa decisamente in sordina. Giovani o meno giovani, uomini e donne che hanno studiato in Paesi extra europei, davanti alla richiesta di poter esercitare in Italia la professione per cui si sono formati trovano una porta sbattuta in faccia.

La questione ha un nome e un cognome: discriminazione di cittadinanza nel mondo del lavoro. Interi settori in grave carenza di personale altamente qualificato rimangono inefficienti perché sia il pubblico sia il privato non sono incentivati ad assumere lavoratori che non abbiano la cittadinanza europea. Vincoli amministrativi demotivanti, ostacoli burocratici troppo onerosi, diffidenza. Eppure già nel 2009 – quando la crisi economica era ancora timida nel vecchio continente – la direttiva 2009/50/CE del Consiglio dell’Unione europea invitava i Paesi membri alla creazione della Blue Card, un permesso di soggiorno speciale (oltre i tre mesi) per i cittadini extra europei che si prestavano a esercitare professioni altamente qualificate all’interno di uno dei Paesi dell’Unione. L’obiettivo era quello fissato dal Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000: “trasformare la Comunità, entro il 2010, nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale”.

Il testo di Bruxelles poneva però alcuni limiti: le politiche di assunzione, per esempio, non potevano essere praticate per quei settori in cui i Paesi terzi erano già carenti di risorse e di personale. Veniva inoltre raccomandata forte attenzione per le “assunzioni etiche” in ambito di sanità e di istruzione. Come dovesse essere però concretizzato il concetto di “etica” non era chiarito. Veniva invece specificato che per “lavoro altamente qualificato” si intende un impiego regolare – non in nero – per il cui esercizio servano e siano stati svolti studi superiori. Come normalizzare poi i titoli derivanti da percorsi diversi rispetto a quelli del Paese ospitante spettava ai singoli Stati, i quali, sempre secondo la direttiva 2009/50/CE, erano tenuti ad accertarsi che i posti vacanti non potessero essere coperti da forza lavoro nazionale o comunitaria. In pratica la Blue Card era vista come rimedio in extremis già nel testo di partenza, presupposto non ideale per favorire il cosiddetto “afflusso di cervelli”.

La direttiva Ue ha sonnecchiato sulle scrivanie di Parlamento e Governo italiani per tre anni. Finalmente, nel 2012, il suo recepimento, con il decreto legislativo n.108 del 28 giugno.  Il provvedimento aggiungeva l’articolo 27-quater al Testo Unico Immigrazione: i lavoratori stranieri extracomunitari altamente qualificati potevano fare ingresso in Italia, con apposito visto, al di fuori del regime delle quote, quindi in ogni periodo dell’anno e senza che vi fossero i limiti numerici fissati con i “decreti flusso”. Nell’articolo 27-quarter erano considerati lavoratori altamente qualificati gli stranieri in possesso di un titolo di studio rilasciato da istituti di istruzione superiore post-secondaria dopo un percorso formativo di almeno tre anni. Ai soggetti interessati era concesso un permesso di soggiorno elettronico: di durata biennale se titolari di un contratto a tempo indeterminato; per un periodo pari a quello del rapporto di lavoro più tre mesi, se in possesso di un contratto a termine. La Blue Card dava diritto a un trattamento “pari a quello dei cittadini” e al ricongiungimento immediato con i famigliari.
Anche in questo caso valeva però la regola dell’”ultima spiaggia”: il datore di lavoro che avesse voluto presentare la domanda avrebbe dovuto preventivamente verificare al Centro per l'Impiego competente l'impossibilità di assumere un cittadino comunitario. La successiva richiesta di nulla-osta, presentata con apposita procedura online, doveva essere corredata da una proposta di contratto di lavoro, o offerta vincolante, della durata di almeno un anno, insieme alla certificazione dal Paese di provenienza del cittadino straniero che confermasse il titolo di istruzione e la qualifica professionale. Il requisito retributivo lordo annuale non doveva essere inferiore al triplo del livello minimo previsto per l'esenzione alla spesa sanitaria: 24.789 euro. Una cifra modesta, se confrontata con il minimo richiesto dalla Germania (46.400 euro), dall’Olanda (63.000 euro) e dalla Francia (stipendio superiore alla media annuale del compenso lordo nel settore di riferimento, calcolato annualmente dal Ministro per l'Immigrazione).


A distanza di tre anni, però, ecco il flop della Blue card. Carente in Europa, quasi inesistente in Italia.  Solo 16mila i nulla osta di lavoro rilasciati dai Paesi membri dell'Ue, 13mila in un unico Stato (la Germania). Da noi appena 118. [Dati Agenda europea sulla migrazione maggio 2015]. Numeri bassissimi, considerando le premesse alla base del progetto: la popolazione attiva nell’area comunitaria diminuirà del 50% entro il 2050. Secondo uno studio condotto da Bdo International e dall’Hamburg Institute of International Economy, Germania, Portogallo e Italia sono i Paesi europei con il più basso tasso di natalità e per far fronte alla progressiva perdita di forza lavoro devono incrementare il flusso di migranti inseriti nelle loro economie.
La discriminazione attuata mediante le barriere all’ingresso nel mondo del lavoro altamente qualificato non solo contrasta con i principi etici a cui fanno riferimento le politiche dell’Unione, ma addirittura stride con gli interessi della stessa Comunità.
La carta blu è stata inserita nell’Agenda europea al fine di favorire il potenziamento e la valorizzazione della direttiva 2009/50/CE, eliminando gli ostacoli alla sua realizzazione. Tale riesame, discusso lo scorso 26 giugno, riguarda il campo di applicazione della carta blu: il parere degli imprenditori sulle soluzioni per renderla efficace e il miglioramento della mobilità all’interno dell’Ue per chi ne è in possesso. Nel frattempo, a maggio 2015, in Italia è stata semplificata la procedura di acquisizione della Blue card: le aziende che sottoscrivono un protocollo d’intesa con i ministeri dell’Interno e del Lavoro possono far arrivare i lavoratori altamente qualificati inviando una semplice comunicazione via internet allo Sportello Unico per l’Immigrazione, senza dover attendere una successiva autorizzazione. Il lavoratore si reca poi al consolato italiano nel suo Paese, dove gli viene fornito il visto d’ingresso in Italia. Una volta qui, sottoscrive il contratto di soggiorno e richiede la Blue card.

Questo è solo un esempio della difficoltà – italiana ed europea - a integrare in maniera effettiva gli stranieri nelle varie realtà professionali. Un tipo di discriminazione che fa da silicone all’ingresso nel mondo del lavoro per migliaia di soggetti e che si sviluppa non in ufficio o in fabbrica ma prima ancora di potervi entrare. Persino i concorsi pubblici sono per la maggior parte inaccessibili ai cittadini di Paesi terzi, nonostante dal 2013 le PA siano tenute per direttiva comunitaria a riscrivere i bandi, eliminando la clausola di cittadinanza. A prescriverlo è stata la legge n. 97 del 6 agosto 2013. Con forti limitazioni. Innanzitutto gli immigrati non possono entrare nella magistratura, nella polizia o nell’esercito, dal momento che hanno “diritto” ad aspirare soltanto a ruoli che “non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. La normativa europea dà inoltre la possibilità di partecipare ai concorsi pubblici solo a chi è in possesso di un permesso di soggiorno CE di lungo periodo, a chi ha ottenuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Restano dunque esclusi gli stranieri con permesso di soggiorno semplice a tempo limitato e anche per gli altri la tutela è solo formale, visto che ben poche amministrazioni hanno adeguato i loro bandi di concorso. A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Milano (5 marzo 2015) ha ritenuto discriminatorio il bando per l’accesso alle graduatorie di insegnamento DM 353/2014  nella parte in cui esso prevede il requisito di cittadinanza italiana o comunitaria, senza includere i titolari della carta blu. Lo stesso bando ha inoltre collocato gli stranieri ammessi alle graduatorie di III fascia per l'insegnamento di conversazione in lingua estera in posizione subordinata rispetto ai cittadini italiani. Oltre alla modifica del regolamento e alla riapertura delle domande di iscrizione con adeguata pubblicità, il Miur ha dovuto rimborsare alla parte lesa più di 3.000 euro.

Alberto Guariso
“La discriminazione – sostiene l’avvocato Alberto Guariso, esperto di diritto del lavoro – in questo come in altri casi non è provocata solo dal razzismo, ma è frutto della mera inerzia da parte delle pubbliche amministrazioni, che spesso non si scomodano ad adeguare i bandi alla normativa vigente”. Secondo Guariso, “nemmeno le cooperative si salvano, perché inseriscono gli stranieri soltanto in realtà professionali basse, creando una segmentazione del mercato e della società: ai cittadini i lavori qualificati, agli altri quelli degradanti”.

“Meno male che ci sono gli stranieri – dicono alcuni -, perché gli italiani non vogliono più fare certi lavori”.  Già, ma chi ha detto che lo stesso non valga per gli extra comunitari?


venerdì 2 ottobre 2015

#Instagram, #riti e #manie

Chiamatela realtà di secondo grado. O magico potere del cancelletto, anzi, dell'hashtag, ché i nati dopo il 1990 non sanno nemmeno che cos'è un cancelletto. E' il mondo digitalizzato e reimpastato in un caleidoscopio di filtri vintage e psichedelici, che espungono dallo schermo le brutture della vita.

Instagram è un concentrato attivo di iper connessione e vanità sociale: unisce la vocazione popolare di Facebook con il tono elitario di Twitter, appagando l'imperativo categorico del terzo millennio. #iocisono. Come i suoi due fratelli e antesignani, all'inizio era un salotto d'élite: in pochi ne erano a conoscenza e solo qualche graphic addicted lo usava con costanza. Da due anni a questa parte è tutto cambiato e il portale conta oggi 400 milioni di utenti attivi ogni mese. Non solo maghi dello scatto, ma chiunque abbia intuito - o sia stato stregato da - il potere dell'immagine.

Ci sono profili aperti e profili chiusi. Questi ultimi funzionano un po' come Facebook: per seguirli è necessario chiedere il consenso a chi ne è proprietario. La ragione, fondata per lo più sulla privacy, vacilla davanti alla natura di questo social network, in cui, al contrario del sito bianco e blu, gli utenti mirano a raccogliere il numero più elevato possibile di followers. E' però pacifico che la richiesta di un permesso solo per vedere fotografie tende a intimorire e a scoraggiare, per cui la maggior parte dei profili che puntano a collezionare seguaci rimangono aperti.

Ma attenzione alla tecnologia: se non sapete usare la fotocamera dello smartphone o non avete ben capito come funziona l'applicazione Instagram, vi conviene procedere con cautela. Rischiereste, altrimenti, di fare la fine di @abenini. La donna ha raccontato a Rivista Studio di aver "casualmente" trovato un profilo Instragram con il suo volto. Peccato che nelle fotografie postate ci fosse ben poca faccia e molto più corpo: autoscatti in bikini e in pose frivole risalenti al 2010, dove la povera @abenini, nel frattempo sposata e con figli, non si riconosceva assolutamente. All'inizo - ricorda la sventurata - pensai a un furto di identità, qualcuno che avesse creato un profilo fake con i miei dati e le mie foto. Solo in un secondo momento mi sono resa conto che quel profilo era il MIO e che a postare le immagini ero stata IO. Anche se inavvertitamente. Nel 2010 @abenini si era registrata su Instagram solo per osservare le vite degli altri, ma non intendeva postare nulla. A farlo ci ha però pensato l'applicazione per lei, attraverso un meccanismo di pubblicazione automatica degli scatti realizzati con la fotocamera del cellulare. Quindi ogni prova abito, ogni selfie malriuscito, ogni click osé era finito sotto gli occhi del popolo virtuale. E con un sacco di curicini (l'icona usata su Instagram per dire "mi piace").



Al di là delle sventure, esistono mondi nascosti all'interno di quell'icona marrone. Per esempio, gruppi di auto-aiuto per combattere problemi psichici, comunità i cui membri, non numerati ma schedati, si seguono a vicenda per farsi forza, dialogando attraverso fotografie e commenti alle stesse. Ci sono poi fanatici di moda, di cibo e di sport che creano profili tematici. Adesso anche le multinazionali hanno puntato gli occhi sulla piattaforma, generando pagine pubblicitarie a pagamento. La differenza rispetto agli esercenti che decidono di promuoversi attraverso Instagram e lo fanno mediante la registrazione gratuita è che - visto che pagano - le immagini degli inserzionisti (di fatto questo sono) invadono la home degli utenti senza che questi possano cliccare il tasto "non seguire più".

Ma se grazie ai filtri e ai ritagli iniziate a sentirvi tutti Helmut Newton o Henri Cartier-Bresson, ci pensa Champoo Baritone a smontare le vostre arie. La fotografa thailandese ha realizzato un progetto di svelamento dei trucchi di Instagram, mettendo in evidenza la laida realtà che si cela dietro i ritagli e le luci soffuse. E' proprio il caso di dirlo: non è mai come sembra.



venerdì 11 settembre 2015

Sociologia del catalogo Ikea

Puntuale con l'arrivo dell'autunno ecco sbucare dalla cassetta della posta il catalogo Ikea. Un must di inizio stagione, quasi quanto il cambio degli armadi e la lista dei buoni propositi che non verrà rispettata. Eppure quel giornale corposo e patinato dice molto di noi e della nostra società. Lo dice più delle classiche scorribande domenicali tra gli scaffali svedesi per combattere il caldo, il freddo e la noia. Sociologia spiccia, d'accordo, ma spremuta da un campionario di consumo che vuole essere al tempo stesso omnibus e di nicchia, blockbuster e d'essai.

Due gli elementi dominanti: il verde e la cucina. Lo si nota già dalla copertina: bimbo e papà felicemente indaffarati a consumare un (di certo biologicissimo) succo di frutta al bancone di una cucina a isola in stile Usa. Le cromature algide di dispense ed elettrodomestici risaltano accanto al (senza dubbio ecologicissimo) parquet e agli altri oggetti d'arredo in legno. Poi il green: piante, ortaggi e la scritta IKEA.

Una tendenza, questa, che si riscontra smodatamente lungo tutto il catalogo. E non solo perché un quarto delle pagine sono dedicate alla cucina (più un'altra ampia sezione agli utensili legati al cibo), ma anche perché tutte le stanze della casa esposte presentano quel carattere finto parco e castigato tipico della moda green. Piante che sbucano da ogni dove, giardini che sgomitano per un posto sulla scena da porte e finestre in secondo piano, legno onnipresente e oggetti che sembrano riesumati dalla capanna dello zio Tom.

Ecologica, vintage, etnica e low profile è la casa del 2015. Casa in cui regna un finto disordine, in cui la maggior parte del tempo si sta in cucina ad affettare verdure (a chilometro zero) e a bere centrifughe detox. Curioso come l'asse si sia spostato dal bagno - dove lo scorso anno regnava sovrana la cura del corpo - alla zona pranzo, che invade letteralmente il resto dell'abitazione, con soggiorni open space, fornelli accanto al divano e salotti dove più che parlare si mangia.


L'unico colore veramente presente è, come ho detto, il verde. Le altre tinte variano dalle sfumature del legno alle nuances di bianco e nero. Dove sono finite le arlecchinate by Ikea? Dove sono i bambini nelle loro camerette sgargianti e decisamente improbabili? Da piccola adoravo girare mano nella mano con mamma e papà per i labirinti dei mega store Ikea. Puntavo il dito su un letto a castello con sotto il nascondiglio o su un angolo rosa shocking e dicevo loro con sdegno: perché non mi avete fatto una cameretta così? Mi guardavano schifati e non capivo. Ora sì: erano i tempi in cui la moda aveva un nome e un cognome: Maria Montessori.

Adesso no, è tutto cambiato. Con la cifra 2 davanti al millennio i bambini sono tornati come negli anni Cinquanta, adulti in miniatura. E così guardo la piccola con treccia laterale, salopette e sneakers giocare alla giardiniera con un annaffiatoio di latta e penso che tra un po' anche i negozi di giocattoli diventeranno musei.




martedì 25 agosto 2015

La musica condiziona le nostre scelte

Un paio di orecchini e un orologio d'oro oppure uno spazzolino da denti e una crema per le mani? Pollo al curry indiano o hamburger con patatine fritte? La scelta potrebbe essere influenzata dalla musica che state ascoltando. Lo stanno dimostrando i tre ricercatori australiani Adrian C. North, Lorraine P. Sheridan e Charles S. Areni, i primi due della Curtin University (psicologia e patologie linguistiche) di Perth, il terzo della scuola di management di North Ryde.


Lo studio, volto a stabilire l'influenza della musica di sottofondo sulla memoria, la percezione e la scelta dei prodotti, ha interessato dieci volontari in tre esperimenti. Il primo prevedeva che i membri del campione venissero fatti accomodare in stanze diverse, in ciascuna delle quali risuonava una canzone proveniente da Stati Uniti, Cina o India. A ogni partecipante è poi stato dato per cinque minuti un menu contenente trenta diverse opzioni di cucina internazionale e gli è stato chiesto di ripetere quanti più piatti riusciva a ricordare, scegliendo quello che avrebbe mangiato in quel momento. I volontari ricordavano meglio e sceglievano portate riconducibili per Paese di provenienza alla musica che avevano ascoltato prima di leggere il menu. Quelli che avevano ascoltato musica americana, per esempio, sceglievano hamburger o hot dog, mentre quelli che avevano ascoltato sinfonie indiane o cinesi si focalizzavano su piatti etnici orientali.

In un secondo esperimento i ricercatori si sono concentrati su due tipologie di musica americana: classica e country. L'obiettivo, stavolta, era valutare il condizionamento sulle abitudini di consumo. I volontari che avevano ascoltato la musica classica si dimostravano più propensi a comprare oggetti che ricalcassero una certa identità o status sociale: gioielli, orologi, profumi e vini costosi. Coloro che avevano avuto il sottofondo di musica country, invece, erano più indirizzati verso scelte di consumo pratico, come spazzolini da denti, biro e lampadine. 


Il terzo esperimento prevedeva infine che i volontari ascoltassero ancora musica classica e che subito dopo venisse chiesto loro quanto avrebbero pagato per oggetti rappresentativi dell'identità sociale. Ad alcuni di loro, però, veniva lasciato pochissimo tempo per riflettere. Ed erano proprio questi ultimi a quelli disposti a spendere di più, secondo un meccanismo che gli scienziati hanno poi denominato pressione cognitiva.

Forse la Quinta Sinfonia di Beethoven non è la ragione di tutti i nostri acquisti d'impulso, ma potrebbe rendere una costosa bottiglia di vino o una maglietta firmata più necessarie ai nostri occhi.

*La ricerca è stata anticipata con un abstract il 31 luglio 2015 dalla rivista scientifica Science ed è in corso di pubblicazione sul Journal of Retailing.

giovedì 13 agosto 2015

Must e tormenti estate 2015

Sempre per rimanere sulle chiacchiere spicce, vi propongo il repertorio che ho scoperto quest'estate, negli scaffali dei negozi e addosso alla gente. Ecco quindi una lista di prodotti che hanno letteralmente tormentato la mia (e presumibilmente anche la vostra) estate.

- I sandali black or white con la zeppa. Sono decisamente inguardabili, tanto che la prima volta che mi sono capitati a tiro credevo fosse uno scherzo, tipo sagra del trash. Invece no, impazzano davvero. Per chi è un po' dark inside sono forse accettabili, a patto che siano portati con gonna lunga e stretta, cinturone, trucco noir e unghie smaltate di toni accesi.

- I Babasucco. Una trovata scintillante. Quanto banale. Eppure hanno invaso il web: sarà per i loro colori vivaci, sarà perché detox e integratori alimentari non possono che cavalcare le onde delle nostre spiagge, sempre più piene di donne e di uomini per cui fino a giugno l'unico sport era spostarsi da una pasticceria a un happy hour (o dal tavolo della cucina e al divano) e ora, magicamente, accolgono il miracolo di Baba. Che poi, diciamolo, tutto ciò che è bio, clean e in vetro negli ultimi anni sembra conferire fascino anche al peggiore dei buzzurri.



- Le gonne drappo. Sì, sembrano proprio uscite dalla soffitta delle sarte. Di tende, però. Sono di tessuto piuttosto pesante, con fantasie barocche. Le potete trovare a pieghe e a tubino. A me mettono caldo solo a guardarle. De gustibus poi, non disputandum est.

- I girocollo neri intrecciati. Forse starebbero bene abbinati ai sandali b&w. Melancholic trash, lo potremmo chiamare. Perché questi affari, ve lo ricordo, andavano di moda quando io ero in quinta elementare: qualcuno deve aver tentato una reminiscenza anni Novanta, sperando che facesse lo stesso effetto della disco dance.

- Le gonne a pantalone. Questo capo, non posso trattenermi, ha decisamente oltrepassato il limite della (mia) sopportazione. La gonna a pantalone, o mini-pant, è stata ripetuta in tutte le salse, anche quelle più incommestibili, quest'estate. E la faccenda sgradevole arriva quando, presa dall'entusiasmo, mi catapulto sull'appendiabiti del negozio di turno, convinta che si tratti di graziose minigonne svolazzanti e trovo l'amara sorpresa in mezzo alle gambe.

- La granita al mojito. E io che pensavo che il mojito, essendo un pestato, fosse già una sorta di granita. Invece quest'estate pare che le gelaterie per essere in la debbano avere a tutti i costi. Il che è abbastanza insensato, perché se uno ha voglia di mojito va in un bar, no?



- I costumi a fascia. Altresì detti: ammazza-décolleté. Se avete il seno piccolo, la fascia vi farà tornare ai tempi dei castelli sulla sabbia con secchiello e paletta, più o meno ferme ai dieci anni. Se avete una buona taglia, la fascia non reggerà l'importante dotazione che madre natura (o il chirurgo estetico) vi ha dato. Il vantaggio è che non ci sono spallini da togliere per prendere il sole integralmente sulle spalle e, per fortuna, alcuni modelli sono forniti di coppe e ferretti e danno quindi un sostegno maggiore.

Altro da dichiarare?


martedì 11 agosto 2015

Cinque specie (purtroppo) non estinguibili


Sarà il caldo, sarà lo spirito vacanziero, sarà che questo agosto reclama a gran voce un po' di frivolezza. E allora eccovi accontentati, e accontentate soprattutto. Chiacchiere da ombrellone (non importa se quello da spiaggia o del giardino di casa) per discutere delle cinque peggiori specie di uomo

1. L'egocentrico: per lui il mondo è fatto di due sole lettere, la I e la O. Mentre parlate non vi ascolta, sta già pensando alla prossima cosa da dire su di sé. Al tavolo di un bar, come a letto e sul cellulare, non esistono domande per chiedervi come state o che cosa avete fatto oggi, ma semmai appassionate apologie sul suo lavoro, sulla sua auto, sui suoi hobby e su quante volte ha respirato nell'ultima mezz'ora. Decisamente da evitare, se non volete accartocciare la vostra autostima e cercare di fare centro nel canestro del suo ego.


2. L'imbruttito: solitamente bestemmia, ha l'alito che puzza perché l'ultimo spazzolino da denti l'ha visto a cinque anni e infarcisce le frasi di volgarità sentendosi estremamente virile. Confonde il pragmatismo con la cecità: per lui esiste solo il qui e ora, non si prende la briga di elaborare alcuna considerazione sul futuro e, se accennate un discorso poco più elevato rispetto all'ultima partita di calcio o alla vostra taglia di reggiseno, potete chiaramente vedere la dilatazione dei suoi bulbi oculari e la comparsa di solchi rugosi sulla sua fronte. Consigliato a chi ha ambizioni da geisha o casalinga disperata.

3. Lo psicoterapeuta: ha scoperto troppo tardi la sua vera vocazione professionale e ora vuole rimediare sfogandosi con voi. Analizza al microscopio ogni vostro gesto e ogni vostra parola per trovare ovviamente qualcosa che non va. Non confondetelo con una persona sensibile: chi lo è non si permette di giudicare, ma ascolta, entra in empatia. Lui invece dopo il primo appuntamento ha già pronto un trattato sulla vostra personalità. Rischio emicrania molto elevato.

4. L'insicuro: traumi del passato, mancata consapevolezza di sé, scarsa fiducia nel prossimo... non importa il motivo, con lui dovete prepararvi a espiarlo. Si comporta in maniera imprevedibile, cerca di tenere le distanze e non parla mai di sé (guai a fornire informazioni a un'eventuale nemico). In definitiva vive i rapporti umani come giochi di potere e si sente minacciato, magari non da voi ma dalla vita in generale. Stategli alla larga, se non volete riempirvi la testa di paranoie, con il rischio di diventare più insicure di lui.

5. Il don Juan: sì, non poteva mancare lui, il latin lover della situazione, quello che sullo smartphone ha una lista sterminata di contatti femminili da alternare di giorno in giorno, di settimana in settimana. E' inutile che vi illudiate di poterlo cambiare: voi non siete certo diverse da Veronica, Federica, Camilla, Giulia, Jennifer, Mary ecc ecc. Una delle civette che infoltiscono il repertorio sul suo comò (o meglio, letto).

Naturalmente esistono tipi misti o peggio ancora doppi e tripli, altrimenti sarebbe troppo facile selezionare e scartare le specie dannose nella giungla maschile. Forse alcune di queste caratteristiche le troverete anche nel vostro uomo: non importa, basta che stiate davvero bene con lui. Solo, ricordatevi che o è un principe o è azzurro, non potrà mai essere entrambi, né tanto meno arrivare in groppa a un cavallo bianco.


sabato 1 agosto 2015

Depressione, amore e rispetto

E' la prima volta che mi occupo di depressione in questo spazio. E lo faccio levando ogni pretesa medico-diagnostica. Semplicemente, noto attorno a me l'incedere incalzante di questa patologia e mi sembra quindi giunto il momento di fare chiarezza.

Chi non si è mai definito depresso? Perché magari era lunedì. O perché non aveva passato un esame. O ancora per la reclusione in casa a studiare.

Ecco, facciamo un passo indietro. La depressione, quella di cui sto per raccontare, è un'altra cosa. Non avendola mai provata di persona riesco solo a iconificare con le parole stati d'animo e pensieri di chi ne è realmente affetto e ha condiviso parte del suo mal de vivre.

Perché, riferimenti baudeleriani a parte, è proprio un male che colpisce la vita, nella sua essenza più profonda e nelle sue manifestazioni più spicce. Alzarsi al mattino diventa impossibile, tanto che il pigiama rimane incrostato addosso come una muta arrugginita. E la sera insieme al sole tramonta ogni speranza, è l'angoscia a farsi luna piena di un cielo senza stelle.


Più che analizzare i sintomi di quella che è classificata come vera e propria malattia e che per giunta può avere mille diversi risvolti da persona a persona, preferisco concentrarmi su due parole che stanno alla base del problema: l'amore e il rispetto, verso se stessi in primis, ma anche verso gli altri.

Non ho un verbo mio in grado di trasmettervi la dolorosa sottigliezza della questione. Ho però una lettera, scritta da una ragazza in preda a questo demone reale. Sono pezzi di vita e pezzi di cuore che continuano a farmi piangere, ogni volta che li leggo. Senza l'intenzione di rattristarvi, ve ne riporto alcuni stralci, nella speranza che abbiate anche voi spunti "altri" per riflettere. Sull'amore. E sul rispetto.

Partendo dal presupposto che una persona depressa è spesso sola, perché la maggior parte delle sue cerchie si sono allontanate per paura, esasperazione, impotenza:
Qual è il confine tra l'autotutela e l'indifferenza, il menefreghismo, l'egoismo e la codardia? Quanto è scomoda una persona che soffre e quanto è difficile ascoltarne i motivi, comprenderli e aiutare? [...] Quanto presto si dimenticano le gioie e l'amore ricevuto, o l'amicizia e la lealtà quando le situazioni si fanno complicate?
Viola (nome di fantasia) era una ragazza apparentemente fortunatissima. Aveva tutto. Tanti amici, un fidanzato che si diceva innamorato, una laurea a pieni voti e un lavoro nell'ambito da lei desiderato. Ma qualcosa girava sempre più lentamente nella sua testa. Quel qualcosa che la faceva incartare nei meccanismi più banali, generandole sensi di colpa e angosce per le questioni più futili. Sofferenze trascurate e portate avanti nella speranza che passassero da sole: l'importante era non far vedere nulla agli altri. Perché l'aveva intuito, Viola, che gli altri non avrebbero capito e l'avrebbero lasciata sola. Almeno la maggior parte di loro.
Alla fine il vaso che Viola portava in bilico tra le braccia si è fatto troppo pesante. E si è rotto, conclamando la sua depressione.
Quando è successo, come temevo, per alcune persone, anche quelle che consideravo tra le più importanti della mia vita, sono diventata una malata scomoda. Una pazza. Una paranoica.
Ed è così che Viola ha iniziato a riflettere sul senso dell'amore e del rispetto.
L'amore è quello di mia madre, che, dopo una giornata estenuante, viene da me in ospedale e non si stravacca sulla poltrona rossa, in teoria la più comoda, ma prende la seggiolina di plastica e si avvicina al mio letto, passando la notte accanto a me. Sta lì a pochi metri da quella persona - io - che si sente una merda per quello che non è riuscita a non fare, per aver ceduto alla tentazione di volerla fare finita una volta per tutte. Mi abbraccia e mi dice che va tutto bene, che non è arrabbiata con me e non è nemmeno triste (mente, ma sa che se me lo dicesse mi sentirei ancora più in colpa). Dice che è solo contenta di essere lì con me. E io so che quello avrebbe potuto essere il giorno del mio funerale. Riesce a dirmi che non sono cattiva e che andrà tutto bene, anche se un paio di giorni prima mi sono ingoiata due confezioni di triciclici (potenti psicofarmaci, ndr). Amore è il suo occhio sempre aperto al primo beep di troppo del mio cuore del cazzo che non smette di battere all'impazzata.
L'amore è quello di mio nonno, che sotto il sole cocente di luglio, alle 13 viene a trovarmi in bicicletta. Ha 84 anni e non guida più. Viene tutti i giorni e si mette a piangere se piango o si commuove con me davanti a un video. Mi dice che sono "bellissima e toga". Anche se ho fatto la cazzata. Anche se ho le occhiaie, non lavo i capelli da giorni, ho tutti i segni dei cerotti e delle ventose e sembro un pulcino spennato.
L'amore è quello del mio terapeuta verso suo padre. Me l'ha raccontato, sai? Che l'ha perso a 20 anni, che era un appassionato di campagna e natura e che ora lui ha investito la maggior parte di quello che ha per costruire una villa come sarebbe piaciuta al suo papà. E ora le cose che facevano insieme le fa da solo, ma con lui dentro.
L'more è quello di mia sorella, che ha conservato la lucidità giusto il tempo per chiamare il 118 e poi per un giorno non ha voluto vedermi, arrabbiata e spaventata. Ma alla fine è venuta. A spiegarsi e a scusarsi. Ed è rimasta. Amore sono le sue mani che mi accarezzano  il viso e mi asciugano le lacrime. Sono i suoi abbracci e il suo voler stare con me.
L'amore è quello del fidanzato di una ragazza che c'è qua con me ricoverata (Viola si trova in una clinica riabilitativa, ndr), che, tornato stanco dal lavoro in fonderia , senza saper minimamente cucinare, si sforza di prepararle tutto quello che i medici le hanno raccomandato di mangiare. Che chiama sempre in clinica per sapere come sta e appena la vede gli si illuminano gli occhi. Lui le aveva detto che non l'avrebbe abbandonata e non l'ha fatto.
L'amore, probabilmente, è quello che per tutta la vita non sono riuscita ad avere verso me stessa, quello che magari non mi avrebbe fatta sentire sempre l'ultima ruota del carro, la bambina goffa che deve sforzarsi per restare a galla ed essere accettata. Mi sono sempre sentita una persona immeritevole e la conseguenza logica è che per avere un po' di amore, per sentirlo vivo e pulsante, dovevo sforzarmi al massimo, fare piaceri, regali, chiedere sempre scusa anche quando mi facevano un torto. In pratica, non essere me stessa.
Va da sé che il concetto di amore includa quello del rispetto. Viola ne parla in calce alla lettera, dicendo:
Mi sono chiesta spesso se il mio modo di fare, il mio essere sempre gentile e leale, nel senso di non fare sgambetti, di non fare la stronza per ottenere quello che volevo, di evitare agli altri qualunque cosa che non volevo fosse fatta a me, sia parte della mia dignità o mi abbia portata a calpestarla. Ho sempre pensato che preferisco star male mille volte perché sono stata buona e disponibile e così l'ho presa in quel posto, piuttosto che star male anche una sola volta perché sono stata stronza e ho danneggiato qualcuno.


Una risposta a tutte queste domande che affollano la mente di Viola io non ce l'ho. E non ce l'avete nemmeno voi, immagino. Perché l'amore, il rispetto e mettiamoci anche la dignità viaggiano sui binari incrociati dell'autostima e della biologia. Ciò che auguro a Viola e a tutti coloro che soffrono di depressione è di non perdere la speranza. La stanza buia in cui si trovano non si accenderà con un click dell'interruttore artificiale. Né verrà qualcuno con una candela. Saranno loro ad aprire la finestra e far entrare i raggi di sole.

martedì 28 luglio 2015

Migranti, formaggi e coppie gay

E' questa l'Italia che (non) dialoga con l'Europa. Uno Stato, il nostro, sempre meno contento di essere comunitario. Che poi, l'Unione europea come comunità è mai esistita? No, dicono in molti. Ni, balbettano alcuni.

Dai primi tepori primaverili non si fa che parlare di emergenza immigrazione. E il passo falso prende slancio già dal sostantivo usato. Immigrazione: i timori italiani non sono causati dallo spostamento di massa (migrazione) di disperati a ondate. Questi timori sono particolaristici, poiché puntano il dito sui problemi interni che il Paese deve affrontare in seguito agli sbarchi dei profughi. Per certi versi un discorso legittimo, se usato come ricerca di supporto internazionale per salvare vite umane, per altri versi svantaggiante. Proprio così: nel cantilenante piagnucolio che i politici nostrani portano in sede Ue a essere sottolineato è un interesse individuale (dell'Italia, appunto), non certo comunitario. E quindi, per quanto legittimo esso sia, la sua risonanza ha una cassa più minuta. Ognuno pensa a se stesso o al bene comune, non al bene esclusivo dell'altro, anche nella santissima Unione europea.

E poi ci sono i formaggi. Circa un mese fa i media nazionali sembravano impazziti al suon di quella che udivano come vera e propria eresia: l'Europa ci impone il formaggio senza latte, l'Ue distrugge le nostre prestigiose tradizioni, la Merkel ce l'ha con le mucche emiliane e con le bufale campane. Tra furor e indignazione era intervenuta anche la Coldiretti, denunciando il provvedimento comunitario. Peccato che bastasse leggere un po' più attentamente il messaggio: la Commissione dell'Unione europea non ci ha mai imposto di produrre formaggi senza latte, ma ha semmai decretato l'incostituzionalità di una legge - la n. 138 del 1974 - che vietava l'utilizzo di latte in polvere nella realizzazione di prodotti caseari. Avrà il suo bel da dire la Coldiretti nel voler garantire la qualità e la sicurezza di formaggi apprezzati e conosciuti in tutto il mondo. Ma chi si oppone al provvedimento comunitario, crede davvero che esso sia mirato a svantaggiare il grana padano o il gorgonzola dop? In realtà il richiamo aveva una motivazione opposta: tutelare la concorrenza sul mercato e impedire che alcuni produttori italiani fossero svantaggiati da una regolamentazione differente rispetto al resto d'Europa. La nuova regola, per giunta, non acceca il consumatore, che ha ancora la facoltà di leggere le etichette nutrizionali e gli ingredienti di quanto acquista.

Infine, è della scorsa settimana la querelle sulle nozze gay. Strasburgo ha condannato il nostro Paese per violazione dei diritti umani: precisamente, per il mancato rispetto dell'art. 8 della Convenzione dei diritti dell'uomo, che tutela la vita familiare e privata. Il caso è stato sollevato da tre coppie omosessuali italiane che hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo contro l'impossibilità di vedersi legalmente riconosciuta in patria l'unione. Se entro tre mesi lo Stato italiano o le controparti non faranno ricorso alla Grande Camera per un nuovo esame, la sentenza diverrà definitiva e a ciascuno dei sei cittadini dovranno essere rimborsati cinquemila euro di danni morali. 
Politici e partiti (dall'estrema sinistra al centro destra) si sono sbracciati per plaudire alla bontà di una simile sentenza. Giustizia è fatta, brava Europa. Già, ma perché alla legge sulla legalizzazione delle unioni gay, promessa da tempi immemori, nessuno ci ha più messo mano? (che siamo il Paese del Papa è una scusa che sa un po' di naftalina). D'altro canto, fa un po' ridere l'espressione inorgoglita con la quale è stato giustificato il verdetto di Strasburgo: "La Corte sottolinea che tra i Paesi membri del Consiglio d'Europa c'è la tendenza a riconoscere i matrimoni omosessuali, con 24 su 47 Stati che hanno adottato una legislazione in tal senso...". 24 su 47 non pare proprio un dato incoraggiante.