venerdì 27 novembre 2015

Noi, ragazzi di oggi

Noi ragazzi di oggi, noi, con tutto il mondo davanti a noi, viviamo nel sogno di poi.

Cantava Luis Miguel nel 1986. Loro erano i ragazzi del rampantismo di fin du siècle, gli yuppie diventati poi i trentenni degli anni Novanta e Duemila, gli ex paninari con il Nokia in tasca e la tv satellitare in salotto. Con il posto in banca o nella grande distribuzione.

Noi siamo i bamboccioni biancocelesti. Non perché tifiamo tutti la Lazio, ma perché abbiamo sempre Facebook alla mano. Badate bene: la nostra vita non è Facebook, ma Facebook è parte della nostra vita. Una parte fondamentale, che ha cambiato i destini di moltissimi. La democrazia social sta erodendo l'esclusività di intere categorie professionali: con i filtri degli smartphone tutti possono trasformare la fotografia più banale in uno scatto suggestivo e postarla su Instagram ottenendo larghissimo consenso. In migliaia hanno un blog e si spacciano per giornalisti da premio Pulitzer. D'altro canto, è proprio grazie alla rete, e in particolar modo ai social network, che piccole, microscopiche realtà sociali, culturali e commerciali riescono a far luce su di sé e a raccogliere consensi. O clienti.

Siamo la generazione delle start up. Quella che si porta ancora addosso la fama di "ragazzi viziati", ma che non può più permettersi di renderla effettiva. Molti di noi nel 2008 stavano ancora studiando e avevano in mente carriere ordinarie, strade già tracciate. Ma nel giro di qualche mese tutto è cambiato. Nessun percorso professionale è più ovvio. E allora l'urgenza di idee, sempre più nuove, sempre più originali, finché nemmeno questi attributi sono più sufficienti. L'unica garanzia di successo è rispondere a una necessità, ma come farlo in un mondo dove tutti cerchiamo di avere sempre meno bisogno? Per questo nascono una marea di nuove imprese under-35, tutte foriere di idee brillanti, ma la maggior parte destinate a rimanere solo un bel progetto con design accattivante sul web.

No, non chiamateci "fortunati". Siamo i prototipi della nuova classe media, che, secondo i criteri di una decina d'anni fa, sarebbe stata povera. Siamo gli stagisti speranzosi e non retribuiti, i progettisti a gratis, i futuri vecchi senza pensione. Viviamo ancora con mamma e papà, magari nella mansarda di casa, perché a mala pena abbiamo i soldi per il parchimetro, figuriamoci per un affitto indipendente.


Eppure siamo molto meno sfigati di quelli che ci hanno preceduto. Non possiamo più contare sull'impresa di papà o sul negozio di mamma, perché anche loro hanno chiuso. E quindi ci reinventiamo giorno per giorno. Studiamo e impariamo senza essere sempre sui libri. Siamo iperconnessi e anche se il nostro inglese è pur sempre maccheronico parliamo con Adam da San Francisco e Kate dall'Australia. Ci salviamo quando riusciamo a capire l'importanza dell'investimento non monetarizzato, quando la nostra prospettiva va oltre l'attuale stipendio mensile e il sacrificio diventa mattone del futuro.

Puoi farci piangere, ah-ah, ma non puoi farci cedere, ah-ah, noi siamo il fuoco sotto la cenere.

venerdì 13 novembre 2015

Siate gentili

Iniziate col non sbuffare davanti a questo titolo. Anche se è vero, in occasione della giornata mondiale della gentilezza il web è stato invaso da post e articoli che sembrano prelevati direttamente dal libro Cuore. Eppure questa ennesima - va da sé inutile - celebrazione (non mi stupirei se istituissero anche una giornata mondiale dei fazzoletti di carta) offre lo spunto per ragionare sul contatto con l'altro e sulla percezione di sé.

Che cosa vuol dire essere gentili? E' proprio vero che basta un sorriso, un grazie o un prego? Forse, sempre che poi non ci volti facendo una smorfia o non si mandi mentalmente a quel paese l'interlocutore. Per carità, ognuno nella sua testa può fare quel che vuole, ma il buon viso a cattivo gioco, oltre a non essere esattamente sinonimo di gentilezza, avvelena la serenità di chi lo pratica e delle relazioni.


Quante volte abbiamo suonato il clacson spazientiti davanti a un semaforo divenuto rosso per colpa della lentezza dell'autista davanti a noi. O a rispondere male all'impiegato del call center che ci chiama proprio mentre stiamo uscendo (in ritardo) per proporci l'ultima offerta Vodafone. Piccoli esempi dell'impazienza acida che sgorga dalle nostre vite nervose. In questi casi sì, vale la pena fare un respiro e trattenere il veleno. In una parola: empatizzare. Pensare cioè a quando avevamo appena preso la patente e facevamo i 50 all'ora cantando "Voglio una vita spericolataaa" o a come si starà divertendo il centralinista a ripetere tutto il giorno la stessa cosa e a sentirsi insultare ad ogni chiamata.



Meglio essere davvero antipatici quando ce n'è bisogno. Rispondere male alla carogna che ci ha fatto un torto reale e volontario, anche se ciò potrebbe compromettere le nostre relazioni diplomatiche. E sorridere invece sul serio allo sconosciuto per strada. O dire un grazie e buona giornata all'edicolante che ci ha appena venduto il giornale. La gentilezza si autoalimenta ed è contagiosa: anche la persona più rude non potrà far altro che arrendersi al garbo. Le giornate pesanti e i problemi personali non sono mai una scusa valida: tutti li hanno e non ce ne sono di più o meno gravi, perché ognuno ha quanto riesce a sopportare, quindi la sofferenza umana si uniforma su un medio livello di lotta alla sopravvivenza costellata da picchi di gioia e di dolore. Essere gentili, in questo senso, aiuta a sopportare meglio la quotidianità.