martedì 21 ottobre 2014

E bravo il signor Winxs!

Avevo toppato. Per dirla in maniera gergale. E l'avevo fatto perché mi ero fermata alla recensione e non alla lettura. A quel che si dice e non a quel che è.
Insomma, mi sono fatta abbindolare anch'io dal fascino dell'intellettualismo radical chic. Avevo bollato le Winxs come prodotto della globalizzazione, come - per dirla alla Benjamin - esempio di perdita dell'aura dell'opera d'arte (perché un giocattolo è intrinsecamente un'opera d'arte). O, stando al verbo di mio nonno: un'americanata.
Poi, una sera della settimana scorsa, mi sono imbattuta per caso in una puntata di Virus (rai 2), dove era ospite Iginio Straffi. Appunto l'inventore delle Winxs.

Nemmeno cinquantenne, Straffi è regista e produttore televisivo, oltre che imprenditore. Nato a Gualdo, un piccolo paese montano in provincia di Macerata, ha iniziato la sua carriera come disegnatore e fumettista durante gli anni dell'università, proseguendo poi la sua formazione in Francia e Lussemburgo, dove aveva accettato alcuni incarichi sempre nel campo dell'arte grafica. Nel 1995 è tornato però in Italia, per fondare quello che inizialmente era un piccolo studio di animazione, la Rainbow, ma che è divenuto nel corso degli anni il più grande centro di produzione a livello europeo. Oltre alla serie televisiva Winxs Club, vengono realizzati quattro lungometraggi di animazione con protagoniste le sei fatine e una fitta catena di merchandising. Oggi Iginio non disegna più, evidentemente perché non ne ha il tempo: è presidente e amministratore delegato della Rainbow Group, una holding con ben undici aziende, leader nel settore tele-cinematografico. Ha una moglie (sudcoreana, conosciuta in Francia) e una bambina (che ovviamente guarda le Winxs).

Ora, senza dubbio la sua non è una storia unica. Anzi, potrebbe sembrare la solita fuga di cervelli (cervelli dentro corpi che possono permettersi di fuggire, sottolineerei). Se non fosse che la Rainbow oggi dà lavoro a oltre 300 dipendenti. Anche questo numero, in realtà, non dice molto, ma va piuttosto rapportato al comparto cui si riferisce, quello creativo: grafici, fumettisti, sceneggiatori ed esperti di marketing e comunicazione. Poi c'è tutto il resto, vale a dire il merchandising, con l'esportazione mondiale di giocattoli e disegni italiani.


Certo, non è che il signor Winxs assuma proprio tutti. Basta andare sul sito della Rainbow, dove sono chiaramente espressi i requisiti per far parte del gruppo: eccellenza, innovazione, qualità, creatività, dinamismo, passione e orgoglio, internazionalità. Insomma, dite poco. Ma se è arrivato fino a qui, forse è anche per questa mentalità - bisogna ammettere - poco italiana. Ed è per questo che merita menzione. Una verità scomoda ma banalissima: per avere successo serve fatica. Lo dice senza mezzi termini Iginio Straffi: <<Un giorno a Singapore, l'altro a New York, l'altro ancora a Parigi. Sono sacrifici>>. Gli stessi a cui sono tenuti tutti i dipendenti dell'azienda: <<Chi non lavora non ha vita lunga alla Rainbow>>.
In ogni caso, almeno per quelli di Loreto, la permanenza in ufficio è decisamente alleggerita dallo spirito filantropico con cui è realizzata la sede. Oltre 10.000 metri quadrati per un sistema integrato di uffici, laboratori, mensa, bar, spazi per il tempo libero, tra cui piscina, palestra, sauna e
bagno turco, campo da tennis e cinema 3d. Il tutto, ovviamente, eco-friendly, tanto che l'azienda si è aggiudicata la nomina tra le best practices come impianto realizzato con materiali e tecniche a basso impatto ambientale.
Un Crespi D'Adda del XXI secolo, insomma, anche se in un'ottica più americana che italiana: l'idea, cioè, di dare grande sostegno ai lavoratori e alle loro famiglie, in cambio di e come sprono alla massima produttività e fedeltà all'azienda. Lo Stato in questo periodo sta dando incentivi allettanti per gli investimenti, sia nel campo dell'eco-sostenibilità sia nell'assunzione di nuova manodopera giovane e specializzata. Ma il pessimismo allarmistico fa parlare più della (neo) Fiat Chrysler che della Rainbow, più dei tagli alle Regioni che dell'eco-bonus, più della disoccupazione giovanile che del progetto Garanzia Giovani. E così la gente si demoralizza. E non fa di certo come il signor Wimxs.


Ma, giusto per non fare l'encomio a Straffi, una considerazione di buon senso: queste fatine, dagli abiti sfavillanti, ogni volta diversi (altro che i puffi e Heidi, che avevano sempre lo stesso vestito), non potrebbero esistere che nel mondo della magia. E questa è un po' la nota dolente. La preoccupazione che le bambine o si convincano di potersi comportare come donne quando ancora la loro età anagrafica non glielo consente o pretendano, in futuro, di mantenere il corpo androgino prepuberale.

Eccetto questa opinione personale ma abbastanza condivisa, gli argomenti di attualità, come l'ambientalismo e l'integrazione multiculturale (i puffi erano tutti blu, Heidi e Clara erano ariane, le Winxs invece sono chiare e scure, bionde, rosse e corvine, con occhi giganti e a mandorla), sicuramente lasciano intuire un intento educativo alla base. Nemmeno questa è una novità per i film d'animazione destinati ai bambini, ma se non altro un motivo in meno per demonizzare e affogarci nella negatività. Insomma, si chiamano Winxs e non Fatine. Per questo forse piacciono un po' meno ai sinistroidi no global o ai destristi patriottici, ma in fondo a tutti gli altri, a quelli che hanno messo un fiore sulla tomba di Destra e Sinistra e che le lasciano riposare in pace, beh, a tutti loro non può fregare di meno.


lunedì 13 ottobre 2014

Era meglio quando si stava peggio








Se avete più di vent'anni so che state cercando un fazzoletto. Che' la sola vista di questi oggetti fa scattare in voi l'Amarcord. E starete pensando: <<Ecco come trascorrevamo noi i pomeriggi quando ancora non esistevano computer e spartphone>>. E me la vedo la vostra faccia raggrinzita in una smorfia di disapprovazione verso i modi di essere e di giocare dei bambini di oggi.
Lo spunto di riflessione è stato il foto servizio di Flavia Cappadocia uscito recentemente su d.repubblica.it: un campionario di immagini sui giocattoli delle bambine negli anni 80 e 90 del secolo scorso. La Cappadocia non esprime alcun - esplicito - giudizio negativo in merito, ma sottende la supponenza moralista delle rispolverate neo vintage. In pratica: aneutrale non-belligeranza.
Era meglio quando si stava peggio. O semplicemente: meglio era di è. Non sono solo i nostri nonni a dirlo, anche i trentenni o addirittura i ventenni snobbano le generazioni successive in nome di una non si sa su che basi genuinità perduta.
In questo caso sono due i temi che s'incastrano sull'ara della guerra al nuovo: il ruolo femminile nella società e, più in generale, il cambiamento del modo di vivere e di pensare nelle fasce anagrafiche più basse.
Tanti, tantissimi, lamentano la prematura attenzione delle bambine a canoni estetici dettati dalla moda. Oltre che un atteggiamento idealmente sfasato rispetto agli anni effettivi.
 Io ai suoi tempi giocavo con le bambole
Le Winks in confronto alle Barbie sono mostri.
Le bambine di 5 anni oggi sono già a dieta.
E via discorrendo. Per certi versi non si può negare: c'è una discrasia incalzante nel rapporto tra età anagrafica e stile di vita tra le varie generazioni. Ma non in tutto e non per tutti. Per esempio, se è vero che oggi già a 12 anni si mette la minigonna e si fa sesso, è altrettanto vero che quasi nessun ragazzino va più a scuola da solo, specie nelle grandi città, mentre un tempo era la regola.
E lo stesso dicasi per i giocattoli, studiati a misura dell'idealità contemporanea. Per esempio, un tempo le Barbie erano bionde, alte, con il seno prorompente e la vita sottile. Oggi ci sono le Winks: piccole, minute, con la testa quasi più grande del corpo, i capelli che vanno dal rosso al viola. Sembrano elfi, sono magiche come magica è la letteratura fantasy che va per la maggiore. E sono più ragazzine che donne, come ragazzine sono le modelle che posano per i brand più famosi. E non fanno le mamme o le spose ma si divertono agli aperitivi. Oppure fanno le veterinarie. Sono animaliste e magari vegane.
Non c'è un bello o un brutto. Un bene o un male. Guardate questa fotografia:


A me, francamente, fa abbastanza rabbrividire. Al pari, di questa:


A distanza di circa trent'anni l'effetto trova la sua causa? Sarcasmo a parte, se la bambola degli anni 80 è inquietante perché sembra rubata a una casa-famiglia per ragazze madri, quella del 2014 lo è perché pare prelevata direttamente dalla strada (e stavolta nel senso più brutale dell'espressione).
Le bambine di un tempo giocavano a fare le donne e le donne, almeno fino a una trentina d'anni fa, spadellavano, allattavano, sfornavano dolci e bambini. Anche le bambine di oggi giocano a fare le donne, ma le donne di oggi sono anche (un po' più) inserite nel mondo del lavoro, studiano, danno per scontato quel diritto a divertirsi che per le loro antesignane era solo una rivendicazione. In fondo che c'è di male? Sicuramente tra qualche anno non ci sarà solo il fidanzato ma anche la fidanzata di Barbie. E qui tocchiamo il punto numero due. La civiltà cambia - nel modo di vivere e di pensare - ma non lo fa per forza in negativo. E se dobbiamo soppesare i pro e i contro, la perdita dell'ingenuità, ferocemente additata dai nostalgici dei tempi che furono, è oggi compensata da una maggiore apertura mentale. Meno moralismo. Meno razzismo. Meno sessismo. Più libertà di pensiero. Un buon affare, insomma.

lunedì 6 ottobre 2014

Il paesaggio dell'informale

Ecco un'altra mostra che mi sento di segnalarvi. La collettiva del gruppo NaturArte, che si terrà nello spazio espositivo L'altra arte (Bagnolo Mella, Bs). Un percorso, quello che ha dato vita ai quadri esposti, che per tutti i membri del team, capeggiato da Fiorenzo Bellina, è iniziato con la natura. E con la consapevolezza che la creatività non può fare a pugni con l'ecologia. Il progetto del gruppo parte infatti come laboratorio floreale, che accosta i fiori a svariate discipline, dalla pittura alla cucina e la moda, per arrivare però a farsi strada di formazione, sia artistica sia psicologica. Tratti in realtà inseparabili, visto che il seno dell'arte è composto da tecnica e creatività, l'una apprendibile, l'altra congenita ma non innata. Entrambe  richiedono stimoli e costanza, chiamando quindi in causa la collaborazione della mente. Ecco perché la psicologia è così implicata: l'arte si fa costante riflesso di stati dell'anima, oltre che espressione di umori sociali e culturali.


Secondo il gruppo NaturArte, la perfezione rintracciabile nella massima abilità tecnica è il ritratto stesso della natura, che è anche la fonte primaria di ispirazione e riferimento degli antichi. E la creatività è una risorsa da coltivare, esattamente come i fiori. Ognuno la sviluppa secondo esigenze personali e ambientali. C'è il fiore a cui serve tanta acqua e quello che non ti perdona se un giorno dimentichi di annaffiarlo. C'è poi la pianta che non vuole quasi mai bere e ti chiede di non disturbarla con l'innaffiatoio. C'è l'albero che fiorisce a marzo, quello che matura a maggio, o che perde le foglie già ad agosto, e quello che rimane sempre verde. E così ci sono le piante che stanno bene al sole e quelle che non lo sopportano, quelle che crescono al freddo e quelle che resistono alle temperature tropicali.
Non tutti siamo artisti, ma tutti possiamo avvicinarci all'arte, conoscerla e attingere ai suoi elementi. E' il come, prima ancora del perché e del che cosa, che scriverà il nostro nome sulla pietra o sulla sabbia.
E così in una mostra si ripercorrono l'ingenuità e la scaltrezza della natura  negli occhi dell'uomo, con tecniche di pittura gestuale - che elimina la mediazione del pennello, per un incontro diretto tra la tela e il colore - accanto a produzioni più pensate e composte. L'esposizione parte domenica 12 ottobre, per chiudere il 7 novembre. In via N. Sauro 20/22 a Bagnolo Mella.



venerdì 3 ottobre 2014

Lampedusa, strage e turismo

Lampedusa. 3 ottobre. No, non è l'ennesimo articolo di commemorazione dei 366 migranti che un anno fa persero la vita sulle coste dell'isola. <<Sembravano rocce, o detriti spersi nel mare. Non era possibile che fossero corpi>>. Queste le parole di uno dei tanti addetti alla guardia costiera, che un anno fa prestarono soccorso alle imbarcazioni naufragate al largo dell'isola.
Oggi, in quel luogo che, a dirvela tutta, non ha nemmeno una capitale e un hinterland, perché solo Lampedusa lo si può chiamare, ci sono Martin Schultz, presidente del parlamento europeo, Laura Boldrini, presidente della Camera, e la ministra degli esteri Federica Mogherini. I superstiti del peggior naufragio della storia del Mediterraneo, dopo aver incontrato Papa Francesco a Roma, sbarcano di nuovo a Lampedua, per incontrare il sindaco, Giusi Nicolini, e contribuire a tirare le fila dell'operazione Mare Norstrum, missione umanitaria di soccorso e salvataggio che ha preso il via proprio all'indomani della strage.


E questo è quanto troverete su tantissime altre pagine web. D'altronde, si trattava di una premessa doverosa, ma ve la smaschero solo adesso, che vi sarà venuta la curiosità di proseguire. 
Perché io a Lampedusa ci sono stata. Per ben due volte. Una nel 2010 e una nel 2014. Sempre nel periodo estivo.
Non ho mai visto un migrante. E, ovviamente, qualche domanda mi viene spontanea. Dove sono?
All'inizio pensavo si trattasse di un caso. Di essere capitata nella zona sbagliata. Poi mi sono fatta due conti. Va bene la salvaguardia del turismo, va bene che Alitalia e Easyjet non atterrano direttamente nel centro accoglienza, ma pare un tantino strano che per le vie non si incontri un solo esemplare non-italiano... Invece, vi assicuro, tant'è.
E non lo dico per attribuire colpe o ragioni, solo per chiarire che forse chi si lamenta lo fa per ragioni diverse dalla salvaguardia del turismo sull'isola o dell'incolumità dei migranti. Di quest'ultima vi so dire ben poco, proprio perché non li si vede: dai centri di accoglienza passano direttamente nelle metropoli della penisola. Non sono in pochi, infatti, i furbetti che si appostano strategicamente per proporre interessanti occasioni di lavoro, retribuzioni fisse, occupazioni sicure  (<<basta che vieni a Milano/Roma/Napoli>>) a chi arriva da luoghi in cui la speranza più prossima è quella di svegliarsi l'indomani.


In ogni caso, vi assicuro che le vie lampedusane sono sgombre. Deserte, oserei dire. Unici occupanti: sassi e sabbia. Qualche pianta, anche. Se non siete esattamente navigator, meglio che non vi addentriate da soli per i sentieri selvatici (di asfaltato c'è ben poco). Nei due anni in cui sono stata a Lampedusa, per l'incolumità di tutti, mi è sempre stata risparmiata la guida delle pseudo-automobili (Mehari), e, nonostante ciò, più di una volta ci siamo - io e i miei amici e familiari - completamente persi. Tanto persi da non capire se fossimo a nord o a sud, a est o a ovest. Che almeno avremmo ballato nord-sud-ovest-est. Invece, niente. Però una sera, mentre cercavamo di rientrare a casa dopo una giornata di spiaggia e mare. mentre eravamo affamati e stanchi, mentre iniziavamo a non sopportarci più vicendevolemente, beh, quella sera abbiamo incontrato una ragazza. Il suo nome non lo ricordo, anzi, penso non ce l'abbia proprio detto. Però ci ha guidati per un bel pezzo, alla ricerca dei dammusi dove alloggiavamo. Nemmeno lei, in realtà. sapeva dove si trovassero, ma il padre al telefono faceva da bussola. E cosi abbiamo sentito: <<Stanno ai dammusi, sì, ma quelli dei dammusi non sono di Lampedusa>>. Per farvi capire: lì si conoscono tutti. Le persone presso cui abbiamo soggiornato non sono lampedusane, eppure a Lampedusa ci vivono per la maggior parte dell'anno. E non hanno tardato molto a dirci che lì la parte del leone la fa la mafia. Che quando sono approdati a Lampedusa hanno dovuto pagare il pizzo, che certi patti restano impliciti. Come che tu consigli il mio ristorante e io il tuo albergo, io la tua gita in barca e tu la mia gelateria.


Gli immigrati, del resto, li troviamo ovunque. E non tiriamo fuori la solita storia della vecchia migrazione italiana in America. Perché allora, se ci pensiamo bene, gli italiani se ne vanno all'estero anche oggi. Tutti i laureati senza possibilità di lavoro, tutti i ricercatori sbeffeggiati dalla distribuzione delle risorse nazionali. Anche gli operai che magari all'estero ottengono qualche centinaia di euro in più al mese. 
Meno piagnistei e più intraprendenza. Fatevela no, una vacanzina a Lampedusa, e smettetela di temere i migranti. Sono come voi: un verbo gerundio. Solo che voi risiedere, loro migrare. E comunque, avrete più probabilità di incontrare un cocco bello sulle coste adriatiche che un superstite libico sulle spiagge di Lampedusa.


giovedì 2 ottobre 2014

Calzini arancioni per la festa dei nonni

<<Nonna, questo è per te. E per il nonno>>.
Gliel'ho aperto io, perché lei aveva paura di romperlo, il set di tre rose inserite ognuna in un vasetto in vetro quadrato, con la sabbiolina sotto. Quella rosa da parte di mia sorella, che si chiama uguale solo che con l'iniziale maiuscola. La blu di mio cugino, perché è maschio e simbolicamente ci poteva stare. Arancione a rappresentare la sottoscritta, perché da sempre quello è il mio colore preferito. Perché sono stata una mattina intera sul divano della casa in montagna, quando avevo cinque anni, piangendo per i calzini arancioni che non erano pronti e io senza quelli non avevo alcuna intenzione di vestirmi e uscire. E appunto grazie a quei calzini (arancioni) ho temprato i nervi del nonno, che dopo avermi presa in giro ha iniziato a farsi serio e ordinarmi, col tono più cattivo che gli usciva, di smetterla di fare i capricci. Comunque verso mezzogiorno ha buttato la spugna e preso in mano il phon, per asciugare quei calzini (arancioni) che la nonna aveva lavato in extremis, chiedendosi in dialetto dove l'avessero fabbricata, sua figlia e suo genero, una bambina tanto capricciosa. 


E insomma, alle 13 dello stesso giorno, sfoggiavo soddisfatta i miei calzini arancioni, facendo roteare il piedino in aria mentre guardavo La casa nella prateria e mi immaginavo di essere Laura Ingalls, perché in fondo le trecce ce le avevo anche io. Le stesse che facevo fare e rifare ogni mattina alla nonna, finché non erano proprio simmetriche simmetriche. E finché lei non andava a pigliare in bagno la brillantina Linetti del nonno, dicendomi che era magica e con quella sicuro sarebbero venute dritte e uguali. Io ci credevo, ma poi l'inganno l'ho scoperto. 
Sì, mia nonna è bravissima a mentire. Lo testimonia la storia di mio cugino Luca e della pasta al pomodoro. Lui la voleva senza formaggio, perché il grana non piaceva alla sua amichetta della scuola materna e quindi era più fico fare anche lui il no-parmigiano-bimbo. Ma per mia nonna questa cosa della pastasciutta senza formaggio non era proprio concepibile. Cioè, immaginatevi, che so, il vestito di Babbo Natale blu anziché rosso. O il risotto alla milanese senza zafferano. Impossibile. Con queste solide convinzioni, nonna Renata guardava il senso più generale delle cose, senza fermarsi al dettaglio. Che saranno mai stati quei puntini bianchi che ricamavano la polpa di pomodoro? <<Hai messo il formaggio, nonna?>>, chiedeva Luca quasi di rito, <<Nooooooo, io non te le dico le bugie!>>, rispondeva serissima la Renata. E poi si vantava con Lucia (la mamma di Luca) del fatto che il bambino la sua pastasciutta la mangiava anche con il formaggio.


Quando stamattina ho incontrato mio nonno e gli ho fatto gli auguri, lui mi ha ringraziata, anche se metterei la mano sul fuoco che non si ricordasse che il 2 ottobre è la festa dei nonni. E non perché sia un tipo poco sveglio, anzi, solo che il giorno è stata ufficializzato solo nel 2005, più o meno sulla scia della moda a-ciascuno-la-sua-festa, e nove anni sono pochi per imprimersi nel calendario emotivo della gente. Pensate se San Valentino fosse stato istituito da così pochi anni: ci sarebbero almeno la metà dei cuori di cioccolata in giro, sentiremmo un decimo delle frasi comunemente alternative sulla commercialità dell'evento e i fioristi passerebbero dal Natale diretti alla primavera. 
Dicevo, comunque, che Amedeo, mio nonno, ha mantenuto lo stesso fare imperturbabile di quando, qualche anno fa, ha scoperto che il ragazzo di mia sorella aveva dormito da noi. (In camera di mia sorella). Deve aver avuto una vera e propria tempesta emotiva, con tanto di grandine, ma, anziché infastidire l'intorno bagnando e rovinando i tetti delle automobili, quella grandine l'ha raccolta in un bicchiere e ci ha fatto una granita. Conoscendolo, al gusto granatina, che - mi ha spiegato mille volte - è altrettanto dolce ma non nauseante come l'amarena. Anche se poi non ha certo lasciato cadere la questione, riferendo a mia madre che Rosa stava diventando un po' birichina... Tuttavia, niente show in presa diretta con l'imbarazzata nipote e l'altrettanto-o-forse-più imbarazzato fidanzato.
Qualche giorno fa cercavo di far capire ad Amedeo che essere gay non è una malattia, ma uno stato ontologico. Come uno che nasce biondo e uno che nasce castano. O uno a cui piace il dolce e uno a cui piace il salato. Gli ho fatto vedere la lista di miei amici e conoscenti omosessuali su facebook e lui all'inizio ha faticato un po' ad afferrare la questione, ma poi ha chiosato con un <<Se se, t'ha get semper risù>> (dal dialetto bresciano: sì sì, hai sempre ragione).


Pensandoci, avrei potuto indossare un paio di calzini arancioni oggi. E l'avrei fatto, se non fosse che di capi arancioni ne ho un bel po', ma di calzini nemmeno uno. Una rosa arancione, comunque, potrebbe dire tutte quelle cose che nella quotidianità non ho il tempo di esprimere come dovrei: grazie, prego, certe vostre raccomandazioni le ascolto solo perché è più facile asserire che ribattere, per favore (restate per sempre), siete bellissimi, vi voglio bene.