mercoledì 18 maggio 2016

Nel panino la semiotica della mela

Comunicare l'essenziale. Così anche il popolarissimo e ignorantissimo panino di Mc Donald's diventa smart. Come? Con la semiotica di Apple. Ci ha provato Caroline Emilier, staff editor della società multimediale americana BuzzFeed.


Le patatine che per almeno un'intera giornata friggono nello stesso olio diventano eleganti bastoncini gialli privi di unto. Chi le mangia non rischia di sporcarsi la camicia. Ma soprattutto: chi le mangia porta la camicia. E i nuggets di pollo non sono semplici crocchette, ma ingegnosi scrigni in crosta panata che racchiudono un cuore di volatile zampettante. Lo speaker parla piano e invita a guardare oltre l'apparenza. Non è come sembra. Davvero?

Ma l'oggetto di design gastronomico per eccellenza è il Big Mac: redefined, redefined, totally redefined! Dice la voce. Incredibilmente studiato: dalla spugnosità del pane all'acquetta sprigionata da quelle che si presumono essere foglie di insalata iceberg, dalla perfezione quadrangolare della fetta di Cheddar  al singolo semino di girasole che rende tutto più sano (se mai ce ne fosse bisogno), concludendo con gli hamburger di allevamenti intensivi ma poco poco, così rotondi che Giotto in confronto era un dilettante. 

Il colosso del fast-food è entrato in crisi quando il bucolico ha preso il sopravvento sul futuristico, la filosofia zen e il must del bio hanno sostituito le "americanate" degli anni Novanta. A tavola sono tutti di sinistra, tutti intellettuali e gourmet. A rivendicare con orgoglio l'ideologia paninara sono invecve gli stessi che scelgono Android e Windows invece di Apple e iOS. Essere moderni oggi è essere antiquati. Cerchiamo di sembrare tutti un po' vintage, un po' etnici e un po' minimalisti. Tutti assolutamente politically correct e amanti della natura.

Così il vecchio Ronald somiglia più a uno zombie che a un pagliaccio. E' maschera di un'identità svuotata, che ha tradito la pancia con la testa e, tra sushi e Eataly, può aspirare solo a essere l'ultimo dei primi.

Finito il barocco, finito il tempo dei villaggi turistici e delle multisale. Si fa il safari in Tanzania e il nuovo film lo si vede direttamente a casa del regista - autore sperimentale - che si autofinanzia. Addio doppio arco dorato, addio coca cola con lo zucchero, addio pesticidi e coloranti: forse un giorno, quando sarete retrò, tornerete alla ribalta.

giovedì 12 maggio 2016

Elogio alla tristezza

Non essere triste, dai!

Ora che me l'hai consigliato non lo sono più.

Stai mentendo.

Hai ragione.



Io alla tristezza ci tengo. Non che mi piaccia, per carità, ma non sarei quella che sono senza le mie parentesi cupe. Come oggi, che piove e mi sono svegliata con il mal di pancia.

Diplomazia. Il segreto è stringere un patto di non belligeranza con la tristezza. Tanto sarebbe lei a vincere se si tentasse di ammazzarla prima che sia arrivata la sua ora. Invece la tristezza cullata poi si addormenta per un po', anche tanto, o il tempo sufficiente a ritrovare il sorriso.

Per uccidere la tristezza serve la disperazione, per cullarla bastano la logica e l'auto ascolto. Come un edificio antisismico: percepisco la scossa, ondeggio, ma non crollo. E i miei pensieri diventano sempre più forti, esattamente come chi abita in un luogo soggetto ai terremoti. I giapponesi, per esempio. Loro sanno come comportarsi: arriva una scossa e via, tutti sotto i tavoli o al riparo dentro le auto, con la stessa calma di chi si sveglia la domenica mattina e non deve lavorare.

Diventa più intensa la consapevolezza che passerà, che non serve agitarsi, che a tutto c'è un rimedio e se non c'è andrà come deve andare. Fatalismo? No. Solo la constatazione che non tutto è incanalabile e  più si cerca di controllare la vita più questa si ribella, complicandosi. 

Eppure Flaubert la pensava diversamente:

Fate attenzione alla tristezza, è un vizio.

Ma la tristezza non può diventare un vizio, quella autentica. Perché prima o poi si addormenta e di certo non punta la sveglia. Il resto si chiama autocommiserazione. O è una patologia depressiva. 

Ora resto un po' a ondeggiare.
Guardando la pioggia.
Con gli occhi spalancati.

sabato 7 maggio 2016

La mamma ideale è quella reale

Chi vorrebbe avere come mamma Angelina Jolie? In realtà "solo" (mica tanto, sono sei) i suoi figli. Lo stesso dicasi per Michelle Obama, Luciana Littizzetto e Giorgia Meloni (su quest'ultima ci riserviamo il beneficio del dubbio, visto che è ancora in dolce attesa).


Chiunque sarebbe in grado di tracciare un identikit della mamma ideale: aperta, simpatica, sportiva, discreta e cuoca provetta. Ma alla fine la mamma (reale) non si cambia con nessuna. E' quanto è emerso da un sondaggio effettuato da Groupon sui suoi utenti. Ma non ci voleva il web per capirlo, la mamma è un po' come la patria: intanto che siamo noi a parlarne male va tutto bene, ma guai chi si azzarda a criticarla.

Mia madre per fortuna non mi ha mai proposto la Simmenthal. In compenso il suo cavallo di battaglia è il risotto in busta della Knorr, quello al pomodoro. Poi ha qualche pezzo forte, tipo l'arrosto all'ananas o la pasta al forno con le verdure, ma quando li cucina ne prepara in quantità industriale e nessuno più in famiglia avrà pace finché i suoi manicaretti resteranno nel congelatore (secondo lei il cibo non si conserva troppo nemmeno lì).

Ricordati di mettere l'antifurto, guida piano, prendi un golfino, hai un filo che ti pende dalla giacca... I suoi mantra, come per tante altre mamme. Eppure la mia prova anche a parlare inglese e spagnolo, ma non è proprio ferrata con la pronuncia: Hai niù (=news)? Grassssiassss (=gracias)!
In ogni caso, non posso lamentarmi: diversi amici le cui madri hanno studiato e magari insegnano lingue straniere mi hanno confessato la pesantezza del sentirsi continuamente corretti anche quando pronunciano una marca di biscotti. Almeno nel mio caso la maestrina antipatica sono io. E quando la riprendo si scusa  e mi ama lo stesso.

C'è una parola, tuttavia, che ancora non ho digerito del suo vocabolario. Ed è "femminile". Il prezzemolo linguistico di mia madre.
Quel vestito ti valorizzerebbe molto perché è estremamente femminile, mi dice ignorando la mia espressione schifata davanti a un abitino rosa porcello con le farfalle variopinte.
Dovresti essere più femminile nel modo di atteggiarti, ha sempre rimproverato a mia sorella per i suoi modi spicci.

Ma poi arriva quel momento in cui sono davvero nei guai e le dico: mamma, devi aiutarmi!
Come se non avesse cercato di farlo per tutto il resto della mia e della sua esistenza.
Ho ucciso la mia rivale in amore
Ok, ti aiuto a nascondere il cadavere
(Scherzo!)

Di tante cose si dà la colpa o il merito ai genitori per quanto riguarda la salute e l'educazione dei figli. In realtà la maggior parte delle mamme (e dei papà) sono semplicemente donne e uomini. Cercano di fare il loro meglio. E per me lo fanno. L'imperfezione non è uno sbaglio, ma un meccanismo congenito alla natura umana.

sabato 30 aprile 2016

Felicità, meglio non affezionarsi troppo

Quanta paura fa la felicità? E' forse uno dei motivi per cui non riusciamo a goderla. Perché quando la percepiamo appena, lì strisciante e voluttuosa, ci spaventiamo. Meglio non affezionarsi troppo: se poi finisce? Come faremo a riabituarci senza? A gestirne la mancanza? 


Come la Nutella che quando l'hai provata non puoi più dire che proprio non ti piace. Anche se ha l'olio di palma e fa ingrassare. Come i genitori che non danno le caramelle ai bambini per paura che inizino a mangiarne troppe. Ognuno ha il suo modo per mantenere le distanze da un'emozione troppo bella per accettare di perderla. C'è chi trova sempre un motivo per lamentarsi. In realtà non sono felice perché fuori piove... C'è chi usa la scaramanzia. Come stai? Eh, benino, al solito, si tira avanti... Chi ancora trova piccole punizioni auto inflitte per non lasciarsi mai andare davvero. 

Questi ultimi sono i peggiori. 

Va tutto bene, ma chissà che cosa pensa Tizio o Caia di me. Quindi non posso permettermi di rilassarmi, devo elucubrare su che cosa ho che non va.

Non ho problemi, ma sono fuori forma. Dovrei mettermi a dieta e andare in palestra. O mi rovinerò le vacanze mettendomi in costume. Dunque in realtà ho un problema.

Sono a posto, ma c'è chi è migliore di me. Dovrei puntare più in alto. Nella carriera, negli affetti o nella vita sociale. Non posso accontentarmi di essere felice.

E' lo stesso motivo per cui amiamo il sabato più della domenica, che sarebbe la vera giornata di riposo. Preferiamo l'attesa al godimento stesso, perché mentre godiamo sappiamo che presto finirà. Che domani sarà lunedì. Ma nessuno ha mai pensato che ci sono almeno 52 domeniche in un anno e di anni si spera di viverne più di uno?

La verità è che non si può perdere qualcosa che non si ha. Quindi molti preferiscono non averla. La felicità. Esiste forse un calcolo per cui il grado di sofferenza nei momenti brutti è più alto nelle persone che sono state felici in passato? Nessuno studio l'ha rilevato. Magari invece i momenti brutti possono essere affrontati più facilmente grazie al ricordo di quelli belli. Un ricordo che non provoca solo atroce nostalgia, ma dà forza. Come posso avere la speranza di essere un giorno felice se la mia esistenza non mi ha mai dato prova che la felicità esiste?


Ci sono più domande che affermazioni in queste righe. Ma spesso la domanda reca in sé la risposta. Di che colore è il cavallo bianco di Napoleone?

martedì 26 aprile 2016

Dopo la catastrofe

Avevo undici anni quando lessi questo libro. E rimase il mio preferito per molto molto tempo.

Ambientato in Germania, in un futuro tanto attuale quanto passato, "Dopo la catastrofe" di Gudrun Pausewang racconta la storia dell'adolescente Janna-Berta e della sua vita sconvolta da un incidente nucleare.
E' a scuola quando danno l'allarme. All'inizio corre a casa e cerca di rifugiarsi in cantina con il fratello minore, ma poi l'impeto di scappare prende il sopravvento. E così corre via insieme al bambino, in bici per i campi di colza.
E pian piano perde tutto.

I capelli.
La madre.
Il padre.
Il fratellino.

Niente sarà più normale. Lei resterà un Hibakuscia (sopravvissuta), a raccontare senza parlare la sua storia. A rifiutare la parrucca e guardare dritto davanti ai sorrisi, alla compassione e alle incomprensioni dei più fortunati.

Ricordo che quando lessi il libro iniziai a fare una lista ogni sera di tutte le cose che avrei dovuto portarmi dietro nel caso fossi scappata per un disastro nucleare. E solo crescendo mi sono resa conto che non esiste nulla di essenziale, se non le persone che non vuoi perdere. E che forse perderai comunque.

Rabbia, speranza, dolore, nostalgia, ma anche coraggio. Sono queste le emozioni che gravitano nell'orbita del lettore durante questo romanzo. E' un po' datato, ma on line comunque reperibile. Ed è una delle prime cose a cui ho pensato oggi. A trent'anni da Chernobyl.


venerdì 22 aprile 2016

Due gradi per mandare in tilt il pianeta. E siamo a metà

Sono due gradi lo spauracchio di governi e climatologi. Surriscaldamento globale, ovvero aumento della temperatura media del pianeta, calcolata facendo la media di tutte le temperature registrate in mare e sulla terra ferma sia nell'emisfero australe sia in quello boreale. Normalmente è un valore piuttosto stabile, che cambia di qualche centesimo di grado da un anno all'altro. Tanto che dall'epoca pre-industriale a oggi la temperatura media globale è aumentata "solo" di un grado centigrado. 


Raggiunta la soglia dei due gradi in più rispetto a quel punto di partenza, il riscaldamento scatenerà reazioni incontrollabili: lo scioglimento dei ghiacci dell'Artico e del permafrost ed elevate emissioni di anidride carbonica da parte degli oceani surriscaldati. Oltre questo punto limite, non sarà più sufficiente azzerare le emissioni di gas serra per fermare il riscaldamento. Alla conferenza sul clima di Parigi dello scorso dicembre c'era ancora la speranza di evitare simili reazioni, perché il livello di riscaldamento a cui eravamo abituati ci avrebbe comunque concesso circa 25 anni per tagliare le emissioni prima di toccare i due gradi di aumento.

Infatti il problema non si porrebbe se questa crescita della temperatura media globale fosse lineare. Il punto, secondo la maggior parte degli scienziati, è la non linearità dei cambiamenti climatici. Il clima è un sistema complesso e, in quanto tale, si comporta in maniera imprevedibile. Chi crede dunque che il riscaldamento climatico aumenti poco per volta, magari in modo inesorabile ma comunque controllato, si sbaglia. In pratica - sostiene il giornalista storico-scientifico Gwynne Dyer - se continuiamo a immettere gas serra nell'atmosfera non possiamo dare per scontato che la temperatura media globale aumenti in maniera costante ma lieve. Potrebbe accadere, come è avvenuto nei secoli scorsi, ma potrebbe anche verificarsi un improvviso sbalzo. E può darsi che sia quello che sta accadendo adesso.

Il pianeta si sta riscaldando a una velocità mai registrata prima - ha confermato l'ex segretario generale dell'Organizzazione metereologica mondiale Michel Jarraud -. Il 2014 era stato l'anno più caldo di sempre, ma il 2015 lo ha battuto con un ampio margine. E con ogni probabilità un nuovo record sarà toccato nel 2016.



Quindi, se l'attuale aumento non lineare del surriscaldamento globale dovesse continuare, potremmo raggiungere una crescita di un grado e mezzo entro la fine di quest'anno.
Che cosa fare dunque? La soluzione sarebbe interrompere da subito l'emissione dei gas serra manipolati dall'uomo, ma sappiamo bene quanto ciò sia problematico sul piano economico, politico e quindi anche della pace internazionale. Perciò i governi continuano a temporeggiare e preferiscono un abbandono graduale. Sperando di non arrivare troppo tardi.

lunedì 18 aprile 2016

Libri, forbici, martelli e occhiali

Sarò breve. Ma devo assolutamente scrivere un pensiero che è uscito oggi, per caso, dalla bocca di un acuto signore in una conferenza stampa.

I libri sono associabili ai martelli, alle forbici, agli occhiali. Cambiano i materiali, cambiano le mode, ma loro restano. Chiunque metta le lenti a contatto ha sempre un paio di occhiali in tasca, no?

Ecco, anni di sociologia dei processi culturali, di storia ed evoluzione del giornalismo. Di e-book sì e e-book no. Bastava questo. Perché forse a me non era finita del tutto la Remediation di Bolter e Grusin. Loro che parlavano di radio passata a essere dalla regina del focolare ad autoradio. O della tv da buona maestra a meretrice dello zapping.


E il telefono fisso? Mi chiedo io. Farà la fine delle cabine? Non siamo a Londra. I cd avranno lo stesso destino delle musicassette e saranno accolti nel mausoleo dei vinili? Lo stesso per vhs, dvd e blue-ray.

Ma il libro, signori miei, ha più di cinque secoli di storia. Secoli, non anni o decenni. E resta utile anche solo per sentirne l'odore, per perdersi in una libreria, per immaginare partendo dalla copertina.
Le mie sono tutte ragioni poetiche, ma le lenti a contatto, pensate alle lenti a contatto. Buttereste mai via tranquilli un paio di occhiali perché tanto ci sono quegli affarini trasparenti?


sabato 16 aprile 2016

Siete proprio uguali

Avete presente le ruote di scorta? Ecco, non fate caso alle ruote. Beh, nemmeno alle scorte in realtà. Non come le si intendono comunemente. Che poi c'è chi gira con la scorta e chi gira armato.

Ok, mi sto incrartando.

Immaginate di avere due magliette identiche o due orologi uguali. Che siate o meno persone scrupolose, sono certa che agireste in questo modo.




Opzione A (vale soprattutto per le magliette): le intercambio, così quando una è a lavare posso mettere l'altra. In ogni caso, non mi faccio troppi problemi a sporcarla, tanto c'è la scorta (eccola lì!).

Opzione B (vale soprattutto per l'orologio, ma non solo): ne uso prima solo uno e poi l'altro. Il primo (povero), sarà sì la novità, ma con la consapevolezza che se mai si dovesse rompere, pazienza! Tanto ne ho un altro esattamente uguale. Magari i primi giorni farò caso a non graffiarlo o non lo darò in mano al nipotino di 5 anni, ma poi al diavolo, le cose vanno vissute. Soprattutto se non si rischia di perderle.

Facciamo un passo avanti. Immaginate di avere due figlie/i, amiche/ci, cugine/i ecc. uguali. Gemelli omozigoti. Stesso corredo genetico, non ci si scappa, anche se uno vuole fare l'alternativo e l'altro il fighetto. Anche se una si tinge i capelli e l'altra se li rasa a zero. Tutti, almeno una volta, ci avete avuto a che fare e tutti:

Momento 1: "Siete U-G-U-A-L-I!"
(Ma và genio della lampada, dillo ai gameti dei nostri genitori)
"Ma come fanno a riconoscervi?"
(Ma come fai a distinguere la tua mano destra dalla sinistra?)
"Ma è vero che siete telepatiche/ci?)
(Ohssignore).



Momento 2 (quando si presume che abbiate capito di stare simpatici ai suddetti quanto i brufoli in piena adolescenza o quanto gli operatori della Tim che propongono offerte inutili proprio mentre ecco avete capito...):
"Però infondo non siete proprio uguali....Lei ha un neo sul naso e lei ne ha uno vicino alla bocca"
(che spirito di osservazione, la prossima volta ti portiamo la radiografia, così fai prima).
"Avete mai pensato di scambiarvi? Tipo con le interrogazioni?"
(Sì, come no, ci hanno anche clonato il cervello)
"Però potreste farne un business!"
(C'è gente che l'ha fatto, ma meglio fenomeni sconosciuti che fenomeni da baraccone)


Momento 3 (quando iniziate a comprendere la sofferenza del sentirsi maglietta o orologio di scorta):
"Però non siete uguali, tipo a te che musica piace? E a te?"
(Genio, tu la prima cosa che pensi quando associ una persona a un volto è la musica che gli piace?...Manco fossimo Michael e Janet Jackson).

Vi parlo da gemella. Omozigote. Il cui più grande amore, ma anche la più grande fonte di sofferenza, è stata la propria gemella. E lo è ancora (il più grande amore). Basta ipocrisie, basta buonismi: se due persone si somigliano talmente tanto da essere confuse - in un primo momento - è perché la natura a volte fa qualche scherzetto. Come chi nasce nano o gigante. E sì, non mettiamo in dubbio che sotto ci sia altro, ma non fingiamo che l'identità, quella percepita fin da bambini, prescinda dall'esteriorità.

Basta plurali che uccidono.
Basta sillogismi che farebbero accaponare la pelle ad Aristotele (Se Tizia e Caia sono gemelle e Tizia fa così, allora anche Caia deve fare così).

Non comprate magliette uguali. E ricordate che quella a cui avete dato meno cura - pensando di avere la scorta - potrebbe restringersi in lavatrice. E l'orologio potrebbe fermarsi, senza che in commercio continuino a vendere le stesse batterie.

Due gemelli sono complementari (solo tra loro e nella loro sfera più intima), proprio per questo non saranno mai uguali.



lunedì 1 febbraio 2016

Dialogo con un malato di cancro

Ho il cancro.

Hai il cancro.

Quale delle due frasi è più difficile da pronunciare? Non c'è una risposta. Così come non esiste una strategia universalmente valida per comunicare in presenza di questa malattia. Il cancro fa talmente rabbrividire da non poter essere nemmeno nominato. Spesso lo si chiama il brutto male, perché di fatto è l'incarnazione - metaforica e fattuale - della più grande paura umana: la morte


Sotto sotto, anzi nemmeno troppo nel profondo, lo pensiamo tutti: di tumore non si guarisce mai. Convinzione in molti casi validata dalle statistiche, in altri completamente smentita. Resta il fatto che nessuna malattia atterrisce più del cancro. Un po' come l'hiv nel secolo scorso. Ma la paura cresce in maniera direttamente proporzionale all'ingrossarsi del silenzio, alla costruzione dei tabù. Quindi la prima arma per sconfiggerla (la paura, non la malattia) è parlare.

Ovviamente a sproposito. La Società italiana di Psiconcologia (Sipo) ha redatto una lista di buone prassi da tenere nel dialogo con le persone malate di tumore. Tra queste alcune restano questioni aperte, che continuano a dividere le diverse scuole di pensiero.

Partiamo dal nodo più insidioso. E' giusto mentire sulla diagnosi? Secondo la Sipo no. Il paziente deve sapere la natura della sua malattia. La persona è malata, non stupida. E trattandosi del suo corpo e della sua vita, farà adeguate ricerche per scoprire la verità. Il rischio, dunque, è che una volta appurato che gli è stata raccontata una bugia, perda completamente la fiducia nei medici e nei familiari. Va da sé che un clima di diffidenza nella malattia può essere solo dannoso, tuttavia la decisione non è così lineare. 

Avete mai provato a dire a vostro padre (o a vostra madre, o a vostro figlio, o a vostro fratello): hai un tumore? Non è facile. Ed è invece probabile che la persona interessata si demotivi a tal punto da sviluppare sindromi depressive che influiscono sulla sua salute fisica. Che fare dunque? La Sipo consiglia di mantenere un atteggiamento il più positivo possibile, che porti il malato a lottare per la guarigione, a vedere una via d'uscita. A questo proposito, sempre secondo la Società italiana di Psiconcologia, non è bene trattare il paziente come se non fosse più in grado di fare nulla, levandogli tutti gli gli incarichi e le responsabilità che aveva prima della malattia. E' giusto trovare un compromesso tra esigenze fisiche e mentali.

Resta però un grande punto interrogativo. Come comportarsi quando una speranza proprio non c'è? Quando i giorni sono contati? In quei casi il dramma soverchia ogni ragionamento logico. E la risposta va calibrata in base al carattere di chi se ne sta per andare. Di solito le persone più razionali preferiscono saperlo, per prepararsi alla fine. Altri stanno meglio costruendosi una favola. Tuttavia, se anche non sanno che stanno per morire, lo sentono. 

Il presupposto fondamentale a ogni tipo di approccio è comunque la consapevolezza che chi è malato - gravemente malato - cambia. Non si può pretendere di relazionarsi con la stessa persona di prima, perché la malattia, di qualunque natura essa sia, sposta il baricentro dall'esterno all'interno, dal mondo all'io. Da malati si è egoisti, perché la fatica di vivere toglie le energie per essere aperti agli altri. Comprendere questa dinamica è la prima chiave d'accesso per restare in contatto.

Qui tutti i consigli di Sipo.

domenica 17 gennaio 2016

Il tempo della mente

Pensavate che avessi gettato la spugna. Che mi fossi stancata di scrivere per qualche decina di lettori. E invece vi è andata male (o bene, dipende dai punti di vista).
Dopo quasi due mesi di pausa, trovo le risorse per scrivere di nuovo. Lo faccio partendo da una considerazione che ben si connette al mio recente silenzio. 

Il tempo. Possiamo davvero misurarlo in ore, minuti e secondi? Esiste solo un tempo fisico o forse ce n'è anche uno psicologico. Per come ho impostato la domanda, avrete già capito che sostengo la seconda ipotesi. Eppure le due questioni devono essere in un qualche maniera collegate. Per esempio si potrebbe dire che troppi impegni tolgono il tempo materiale per dedicarsi alla riflessione e alla scoperta del sé. Ma allo stesso modo qualcuno avrebbe da insinuare che una vita estremamente tranquilla impoverisce lo spirito, impigrisce il cervello.


Tutto e il contrario di tutto. Forse la risposta è relativa.
(Grande, Chiara, stai cercando di aggirare il problema)
Lo è se si parte dal presupposto che l'efficienza mentale deriva dalla serenità interiore e quest'ultima varia in base a due fattori: le vicissitudini e la personalità di che le affronta. Dunque, se una persona iperattiva come la sottoscritta si trova costretta nel deserto dei tartari con null'altro da fare che prendere il sole, vedrete come manderà al macero blog e non blog. D'altra parte, c'è chi avrebbe la stessa reazione se catapultato in una routine densa di scadenze e di impegni, con la sensazione di essere sempre in ritardo.

Il punto è che non conta solo la disponibilità temporale in senso stretto, bensì la predisposizione mentale a sfruttare quel tempo. Vi è mai capitato di avere un pomeriggio libero, di proporvi grandi progetti e poi di trovarvi spalmati sul divano a sonnecchiare pur non avendo sonno, con la televisione accesa ma senza guardare nessun programma, con il cellulare in mano mentre sfogliate ebeti le home dei social network? Io la chiamo inettitudine, ma non quella di Svevo, che sapeva più di depressione e male di vivere. Intendo proprio torpore mentale. La non voglia che mai verrà da sola.

Secondo la mia esperienza, il letargo cerebrale si autoalimenta. Più lo si trascina, più è faticoso uscirne, esattamente come alzarsi al mattino presto dopo settimane di vacanza. L'unica soluzione è iniziare a muovere un dito, grattarsi un neurone e partire dalle piccole cose, come questo post, che non dà nessuna grande notizia, nessuna informazione particolare. Solo, interrompe un silenzio.