mercoledì 28 maggio 2014

Quella ragazza.

Quarant'anni fa, proprio come oggi, gli studenti difficilmente dicevano no a uno sciopero. Anche se a mala pena sapevano il motivo per cui fosse stato indetto. E così quella mattina di ragazzi ce n'erano tantissimi in città, specialmente quelli dei licei e degli istituti superiori del centro storico. Alcuni facevano eco ai lavoratori e ai sindacalisti, dicendo no al fascismo. Altri, la maggior parte, si tenevano ai margini della manifestazione e scorrazzavano sotto i portici. Un po' come si fa il sabato pomeriggio.
Franca, detta Franchina, apparteneva a questa seconda categoria. Aveva da poco preso confidenza con l'ambiente cittadino, un passo obbligato, visto che tutti i giorni doveva prendere il pullman per raggiungere l'allora scuola magistrale Veronica Gambara, situata proprio in centro. 
Pioveva quel giorno, nonostante mancasse meno di un mese all'inizio ufficiale dell'estate. Per questo Franca, che si trovava proprio vicino a quella fontanella oggi ricoperta di fiori, attraversò di corsa la piazza rettangolare, per giungere il lato opposto, dove ci sono i portici del palazzo comunale. Avrebbe aspettato lì la sua amica Rossella. Ma non ci furono né il tempo né il modo. Un boato. Urla. Caos. Quell'invito alla calma del sindacalista che parlava al microfono. Poi le ambulanze.



28 maggio 1974. Ore 10.02. Piazza della Loggia. Brescia. Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante. Livia Bottardi Milani, 32 anni, insegnate. Euplo Natali, 69 anni, pensionato. Luigi Pinto, 25 anni, insegnante. Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio. Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante. Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante. Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio. Otto vite evaporate così, in una mattina grigia. Quasi cento i feriti. Poteva essere uno scherzo? Perché solo i burloni mettono le bombe (finte) nei cestini (delle aule scolastiche). O i terroristi. Che però usano gli ordigni veri e li infilano nei bidoni dell'immondizia delle piazze affollate.


Quarant'anni, tre istruttorie e ancora nessuna parola fine a questa vicenda grottesca. Inutile ricapitolare i fatti: la manifestazione antifascista, i rumors dei giorni precedenti su un possibile attentato, i personaggi più o meno noti e più o meno incriminati del terrorismo nero, le connivenze dei Servizi Segreti. Di fatto, in due ventenni di tira e molla tra condanne e assoluzioni, lo spettacolo alla Ionesco è proseguito: il 14 aprile 2012 la Corte d'Assise d'Appello ha confermato l'assoluzione di tutti gli imputati, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali. Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni di Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi e confermato quelle di Francesco Delfino e Delfo Zorzi. Gli atti del processo sono ora aperti e consultabili, i fiori su quella fontana appassiscono e vengono cambiati, ma chiarezza e giustizia continuano a farsi desiderare.


Franca vagò un po' per le vie della città, confusa, tramortita. Poi raggiunse il padre e la sorella, che lavoravano nella fabbrica Appollonio in piazza Paolo VI. E quante ne sentì per essere andata alla manifestazione anziché a scuola. In un primo momento non disse né fece nulla. Pianse solo una volta tornata a casa.
Era viva, non un fantasma. Era mia madre.


martedì 27 maggio 2014

Non a tutti l'Italia fa schifo


«Anche se è difficile, fare giornalismo in Italia è molto più interessante che farlo nel mondo anglosassone». Il suo nome, Rachel Sanderson, e la sua forte inflessione inglese nonostante viva nel nostro Paese ormai da 17 anni, non avrebbero mai lasciato presagire una dichiarazione d’amore così spassionata. Anche il suo aspetto da ragazzina stride. Sia con i suoi 40 anni candidamente dichiarati sia con la materia di cui si occupa, economia e finanza. «Il fatto è che qui in Italia il mercato è ancora ristretto, si fa un po’ tutto in famiglia e, come in ogni famiglia, le regole ci sono ma non così formali. Le persone sono ancora disposte a parlare senza l’intermediazione dei portavoce, di certo ci sono molti più spifferi di notizie, che per un giornalista sono sempre materia preziosa». Già, ma questi spifferi possono anche distorcere ciò che avviene all’interno delle mura. Il rischio di notizie manipolate è senza dubbio maggiore che all’estero, dove il mercato è aperto agli investitori internazionali e quindi richiede molta più trasparenza e regolamentazione. «Ero a una cena a Londra, poco prima di trasferirmi in Italia per lavorare come corrispondente di Financial Times. Ricordo che una banchiera italiana mi mise in guardia: tenteranno di farti dire quel che vorranno, perché le news delle testate straniere sono fonti per le agenzie di stampa nazionali». Tuttavia, non sembra particolarmente provata, Rachel Sanderson, che difende l’atteggiamento nostrano – sia dei giornalisti che degli agenti di mercato - come questione culturale e storica, lasciando almeno per una volta da parte il sermone sulla corruzione che penetra dai mille buchi del nostro stivale.



«Lavoravo ancora per Reuters e intervistai Renato Brunetta il primo giorno in cui era nella squadra di Berlusconi. Insomma, erano tempi di crisi e mi venne spontaneo chiedergli se l’Italia avrebbe venduto il suo oro. Lui rispose: oh beh sì, vedremo. Avevo la notizia, anche se mi convinse una mia collega a pubblicarla. Io in realtà mi facevo un po’ riguardo verso Brunetta. Era il suo primo giorno, magari non aveva ancora capito che certe cose era meglio non dirle al telefono». Di certo Mario Draghi, Renato Brunetta e tutti gli azionisti che in quel momento vissero i movimenti tellurici del mercato non avranno provato verso la Sanderson la stessa simpatia che ho avvertito io mentre ascoltavo i suoi racconti. Eppure c’è una frase che ritorna come un mantra nella nostra chiacchierata: «Noi giornalisti economici dobbiamo sempre pensare che il mercato sia il nostro capo-redattore». Basta una notizia apparentemente marginale, come un problema tecnico della Apple nell’implementazione del suo nuovo tablet, per destabilizzare i mercati. In Italia meno che all’estero, perché il mondo della finanza è ancora piuttosto isolato, ma, da quando gli investitori stranieri si stanno interessando ai nostri titoli azionari, le cose stanno cambiando. La differenza tra il giornalismo anglosassone e quello italiano, secondo la Sanderson, è che da noi c’è meno cameratismo, le persone sono più disposte a dare soffiate. Anche sulla società in cui lavorano (loro o i partener). Così l’individualismo, che da sempre siamo i primi a rimproverarci, non è solo una macchia. Almeno non sulla camicia dei manager di borsa o dei giornalisti in cerca di notizie. 



lunedì 26 maggio 2014

Spending review non ti conosco

È un po’ come quei coltelli da boy-scout. Aggeggi multi-funzione, all’insegna del risparmio e della praticità. Se l’espressione spending review è sempre stata associata a uno strumento di revisione della spesa pubblica, quindi una misura volta a risanare il bilancio dello Stato, Dino Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento del passato Governo Monti, mostra il panorama sotto un’altra prospettiva. 



Sarà anche necessaria per la contabilità pubblica, ma la spending review è stata ed è tutt’oggi prezioso oggetto di propaganda elettorale. In un senso o nell’altro. Per tutto l’ultimo decennio del XX secolo, dopo la bufera di Tangentopoli e l’acclamazione a gran voce di uno Stato “onesto” e “pulito”, anche i robusti interventi di innalzamento delle tasse operati dal Governo Amato e dagli esecutivi che lo seguirono furono strumenti di consenso politico. Erano passati i tempi rampanti degli anni Ottanta ed era necessario riportare in positivo il bilancio statale. Fu ciò che accadde, con un passaggio dal -5 al 5% del saldo primario in termini reali. «L’inflazione aiutava, perché consentiva di far crescere la spesa pubblica sempre un po’ meno rispetto al costo del denaro», continua Giarda, «rimanevano però fuori i tassi di interesse, che riportavano l’Italia in deficit. Fu così che Prodi nel 1996 tirò fuori l’eurotassa, per raggiungere il tetto del 3% e permettere al nostro Paese di entrare nella prima tornata dell’euro». Ma sempre di consenso si trattava, perché gli italiani erano ben contenti di diventare cittadini comunitari e avere tra le mani monete nuove e banconote fruscianti. Alla domanda se l’Italia fosse davvero pronta per entrare nell’eurozona, Giarda risponde in toni sibillini: «Guardate quello che è successo dopo il 2001». Dopo l’11 settembre, già. Da un lato la crisi dei mercati internazionali, la paura che faceva rimpiangere a tutti la vecchia lira. Dall’altro il forzato rallentamento dell’inflazione, che stava bloccando consumi e investimenti. Ecco quindi una nuova spending review, stavolta di matrice opposta: riduzione del carico fiscale, a vantaggio dei privati e delle imprese. L’asso nella manica di Silvio Berlusconi, quello che lo portò a vincere contro Francesco Rutelli. «E’ da lì che anche la sinistra si è fatta contagiare dal taglio delle tasse».
E ora, dopo lo tzunami che ha iniziato a soffiare nel 2008 e che muove ancora gli ultimi colpi di coda, l’imperativo è un connubio tra queste due politiche: riorganizzare sì la spesa pubblica, tagliando gli sprechi e incentivando i consumi, ma ridurre anche le tasse. «Che poi, sarà così vero che in Italia il carico fiscale è troppo elevato?» Se il proverbio dice che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, a questo ci penserà il neo premier Matteo Renzi, che ha previsto un taglio della spesa pubblica di 14.000 euro per il 2015. «Certo», ammicca Giarda, «le sue sono stime su base conoscitiva, servirebbero misure strutturali, ma quando le proposi io a Monti mi disse che noi eravamo un governo tecnico e non era nostro compito riformare lo Stato».


In due parole: tagli lineari. Peggio dei tormentino estivi, perché almeno quelli si sentono solo tre mesi all'anno. «I tagli sono lineari, ma per qualcuno lo sono di più». E il richiamo a Orwell è solo un indizio della vasta cultura della storia economica che Giarda non si fa certo scrupolo a sfoggiare.  «Li hanno adottati tutti i governi nell’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato. 10% in meno a ogni ministero, per esempio. Poi però, ex-post, questi tagli tanto lineari non sono, perché entrano in gioco gli assestamenti di bilancio, che ricalibrano le spese. E allora, passato il clamore (elettorale) i tagli diventano selettivi». Lo stesso, a detta del presidente del consiglio di sorveglianza della Banca Popolare di Milano, avviene per le altre due voci dei tagli lineari: sanità ed enti pubblici. «Bisognerebbe ottimizzare la gestione dell’amministrazione pubblica, renderla più efficiente, insomma. La riforma del titolo V in materia di competenza concorrente, per esempio, non era una cattiva idea, dovevano però essere approvate norme di principio, da applicare poi in maniera diversa sulle varie realtà territoriali. Invece quella riforma si rivelò un pasticcio, perché pensata solo a livello centralizzato». Parole, quelle di Giarda, che sembrano arruolarlo tra i detrattori dei tagli lineari. Invece non è così: «Per ottenere una riduzione significativa del disavanzo, i tagli lineari sono un passo obbligato, ma si tratta pur sempre di interventi temporanei, a cui vanno accompagnate misure strutturali, appunto una revisione della spesa pubblica. E’ un po’ come con le banche: bisogna tagliare il personale in esubero». E, a proposito di banche, c’è solo da sperare che Giarda non abbia la stessa popolarità con cui è stato accolto lo scorso febbraio il suo progetto di riorganizzazione della governance in Bpm. La proposta di abolire il voto capitario, al fine di rendere più efficiente la gestione della banca e a stimolare gli investimenti sostanziali, è stata infatti boicottata dall’unione dei piccoli azionisti e dei dipendenti esterni. Ancora una volta, quindi, finanza e consenso vanno di pari passo.

domenica 25 maggio 2014

Europee last minute: non solo voli


Last minute: togli una elle e metti una ti. Non è  solo il volo aereo a essere pensato all'ultimo momento, ma anche il voto. Soprattutto se non si sa per chi fare quella crocetta. Soprattutto se non sembra poi così importante scegliere. Già si tratta di europee, che per la maggior parte dei cittadini dell'unione hanno una valenza nettamente inferiore rispetto alle elezioni politiche o amministrative. Come riportava ieri su Repubblica Ilvo Diamanti, nel 2013 oltre il 13% dei votanti affermò di aver deciso per chi votare solo nei giorni immediatamente precedenti, cioè nel tratto di strada da casa al seggio. E, ripeto, il valore attribuito alle elezioni nazionali è di gran lunga più elevato rispetto a quello di cui godono le comunitarie. Perciò figuriamoci che cosa accadrà oggi. Forse decideranno addirittura in cabina. O forse non decideranno nemmeno. Già, perché anche il voto, per tantissimi, è diventato più un dovere che un diritto. Un obbligo da eseguire se proprio si vuole essere diligenti o, quanto meno, da dimenticare al più presto. Perché? Perché tanto la convinzione è una: che salga questo o quel partito, Mister Y o Miss X, poco o nulla cambierà.
Due sono le spinte che caratterizzano questo 25 maggio 2014, una di tenore internazionale e l'altra più spiccatamente italiana. In primis la propagazione a raggera di movimenti antieuropeisti: dal Front National françcais, guidato da Marine Le Pen, all'Ukip di Nigel Farage, in Gran Bretagna. Passando, ovviamente, per il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e l'ormai defunto Forza Italia di Silvio Berlusconi. Il fatto è che L'Unione Europea si è affermata come comunità prima di tutto economica e poi, se proprio si deve fare lo sforzo, politica. Ma in realtà ci credono in pochi. Che siamo cittadini al pari dei greci o dei tedeschi. Ed è proprio questa la tendenza pericolosa: ricordarsi dell'Ue solo quando fa comodo, per esempio chiedendo la flessibilità sul tetto del 3% nel rapporto tra pil e deficit, accusando la Germania di bacchettonismo, la Grecia e l'Irlanda di parassitismo e la Francia di snobismo. Insomma, tutti amici non proprio. Tanto meno fratelli. Perché i fratelli per i movimenti imperanti in questo periodo sono solo quelli d'Italia e Grillo può anche dire che il M5S aggiungerà le sue cinque stelline a quelle della bandiera europea, ma pare piuttosto che i suoi propositi siano altri: votando per il M5S, gli astri comunitari da 28 potrebbero diventare 27. Di certo non potevamo pretendere una federazione sulla falsa riga degli Stati Uniti, almeno non nell'immediato. Il vecchio continente ha radici e tradizioni talmente eterogenee da non poter essere amalgamato e triturato a mo' di omogeneizzato nel corso di qualche decennio. Ci sono voluti secoli, e forse qualcuno non l'ha ancora mandato giù, solo per l'Italia, con le regioni pronte a dire che l'unione-fa-la-forza-ma-in-fondo-da-soli-si-stava-meglio, figuriamoci per un territorio trenta volte più grande e intriso di culture, lingue e religioni, da quella bizantina a quella longobarda o unna. Eppure, se non ci fosse stata l'Unione Europea, molti Paesi sarebbero già un imperfetto dell'essere. Travolti e annegati dalla crisi dei sub-prime, isolati nel deserto economico creato dai loro governi locali, costretti al canto del cigno dalle rivolte politiche e civili interne. Perché siamo l'Europa, ma non siamo tanto diversi da quei Paesi arabi che ormai da qualche anno esplodono a primavera. E ho evitato il verbo sbocciare non per paura del cliché.


Poi c'è una cantilena tutta italiana, quella scritta e cantata sulle note della speranza e della rabbia. Renzi e Grillo, appunto. Potremmo chiamarla nazionalizzazione delle europee. Innanzitutto perché si tratta di elezioni per il parlamento comunitario, ma in realtà si parla solo dei maggiori partiti in carica, come se una vittoria dell'uno o dell'altro dovesse mutare le sorti intestine del Paese. In secondo luogo, perché questo voto è divenuto lo strumento per rispondere a uno stato d'animo generato a livello locale. Chi ce l'ha con tutto e con tutti vota Grillo (non il M5S, notiamo, Grillo). Chi in fondo un po' ancora ci spera, che le cose possano migliorare, si affida a Renzi (vedi sopra). Insomma, passano in sordina i veri candidati al Parlamento europeo, prevaricano invece i movimenti - e i leader - a cui essi sono legati. Questione di semplicità? Anche, ma non solo. Oltre a evidenziare la scarsa istruzione politica degli italiani, che hanno bisogno di archetipi - la speranza e la rabbia - e di figure note - Renzi e Grillo - per orientarsi alle urne, passa un messaggio nemmeno troppo secondario. E cioè che votando per i deputati parlamentari dell'Ue si inciderà anche sulle sorti della politica nazionale. Addirittura c'è chi mette in discussione il Governo nel caso i grillini superassero il Pd. E lo stesso Grillo, che non voleva fare politica, non solo l'ha sempre fatta, pur dichiarando il contrario, non solo ha fondato un partito, ma ha recentemente indossato la divisa ufficiale. Dalla salopette con camicia a quadri, dal naso inquietante alla Patch Adams, alla giacca scura puntellata di forfora (?) nel salotto di Bruno Vespa. Quale fosse la vera immagine comica resta un quesito in attesa di risposta. 


Chi beneficerà dunque del voto last minute? La fiducia nell'uomo o la sfiducia nel sistema? Mentre ci rifletto, penso che sarebbe comodo poter votare direttamente on line, proprio come si prenotano i voli. Ma poi mi perderei gli anziani vestiti di tutto punto solo per andare a barrare una casella, o, ancor di più, l'afflato nostalgico nel rientrare in una scuola elementare e vedere i banchi che mi arrivano alle ginocchia. Voterei solo per questo.

giovedì 22 maggio 2014

Il Governo Renzi visto dagli occhi di Corrado Passera

E’ più chiaro del cielo terso che ci stanno regalando queste ultime giornate di primavera. A Corrado Passera, ex ministro delle Infrastrutture, Matteo Renzi e il suo esecutivo non piacciono.



Lo spiega servendosi di un’organizzazione logica dei dati, la stessa che, a suo parere, manca nella contabilità pubblica passata e attuale. E sono numeri, i suoi, che si riferiscono al Def 2017, su tre Governi: Monti, Letta e Renzi. Nella percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil, Letta si colloca sul gradino più alto del podio, con il 48%, a seguire Monti, con il 48.7% e, fanalino di coda, proprio l’attuale premier Renzi, con il 49.3%. Un ultimo posto che regala a Passera la soddisfazione di definire il presidente del Consiglio in carica un “millantatore di tagli”. Spostandosi poi sulla pressione fiscale, i giochi non cambiano di molto: stavolta è Monti il peggiore, con il 43.8%, seguito da Renzi, 43.5%, e da Letta, che detiene il 43.3%, primato in realtà assai poco consolatorio. Insomma, morale della favola: «Si tratta di tre governi che hanno promesso cambiamenti mirabolanti rispetto al passato, ma in realtà sono tutti uguali». La sua stessa appartenenza a uno di quegli esecutivi (appunto come Ministro delle Infrastrutture della squadra di Monti) è un ricordo eclissato. E comunque, non manca di ricordare Passera, «Su 850 miliardi di spesa pubblica il leader fiorentino ne ha utilizzati solo 25 per gli investimenti, con una diminuzione costante rispetto al passato. Altro che crescita e sviluppo».
Persino gli 80 euro in busta paga sono messi sotto accusa: «Di per sé potrebbero essere un provvedimento buono, ma sono mal indirizzati. Principalmente i destinatari sono il bacino elettorale del Pd e tra l’altro nemmeno i “veri poveri”». I punti di scollamento da un’iniziativa efficace per il Paese sono, secondo Passera, il fatto che questo bonus venga dato a pioggia, che non includa il terzo settore e che bruci 3 miliardi di spesa pubblica. L’effetto sui consumi, già limitato allo 0,2%, sarà sicuramente nullo se questo provvedimento non avrà carattere strutturale.
Ma veniamo a uno dei presunti assi nella manica di Matteo Renzi: il Jobs Act. «Un ottimo disegno rimasto solo sulla carta, anzi, neppure». Per Passera, infatti, le leggi deroga equivalgono al proposito di mettersi a dieta da lunedì. E il decreto Poletti ha scarnificato tutto il progetto originario: rimane solo la flessibilizzazione del lavoro, che però genera una precarietà eccessiva. Trentasei mesi, secondo l’ex Ministro, sono decisamente troppi. Anche il contratto di apprendistato è in definitiva una burla, visto che la formazione rimane a discrezione delle regioni, che possono decidere se affidarlo agli enti pubblici o alle imprese private, scegliendo ovviamente, nella maggior parte dei casi, la prima opzione. «E la colpa di questa occasione mancata non è della burocrazia, ma solo della politica».

Insomma, una vera e propria demolizione: vedremo se dal 14 giugno, giorno in cui presenterà il suo progetto di Italia Unica, Corrado Passera saprà anche costruire. E specialmente se lo farà con mattoni concreti.



lunedì 19 maggio 2014

Fate l'aperitivo, non fate la guerra!

Poniamo il caso che siate alla ricerca di una strada. Non in senso topografico, ma in termini di futuro. Aggiungiamoci la fortuna di essere persone che non si arrendono. E di avere un’indole votata alla socievolezza. Il tutto condito da una forte curiosità e dal genuino interesse per l’arte e la cultura. Ovviamente per essere simpatici bisogna avere anche qualche difetto, o meglio, qualche vizio. E allora vi piace godervi la vita. Per esempio con un bell’aperitivo, di quelli giusti. Mentre chiacchierate con gli amici fate due parole anche coi baristi, che ormai vi conoscono come clienti fissi. E’ così, dileggiando, che nascono le idee. Se le si sa cogliere.
So che non avete ancora capito dove voglio andare a parare. In realtà non c’è un focus ma un’esperienza, che racchiude tante cose: intuitività, spirito d’avventura, voglia di coinvolgere e, perché no, divertimento.
Non è passato nemmeno un mese da quando Silvia mi ha lanciato il sassolino. Avevo appena finito di sorseggiare il mio Red Spritz (se non sapete cos’è vi conviene vivamente scoprirlo) e gongolavo bella felice, ristorata da quel buon mezzo litro di alcol e fantasia. Stavo per uscire dal locale. «Senti Chiara, mi è venuta un’idea. Ho una proposta da farti. Ti andrebbe di tenere una serata a settimana qui al Red App?».
Detto, fatto. Siamo già alla vigilia del secondo appuntamento di BARattando, un aperitivo che ho ideato sul mio modello di vita. E stiamo freschi, direte voi. Invece l’idea è piaciuta. Ogni mercoledì la gente viene al Red App, un localetto chiccosissimo in centro a Brescia. Tutto rosso. Appena aperto. Dove si beve il pirlo (noi bresciani lo chiamiamo così) più buono della città. Lo fanno solo lì. Al posto dell’Aperol o del Campari o del Martini mettono il Red Kiss, un liquore di pesca e arancia. Ci sono diverse varianti preparate con questo nettare dei terrestri, ma non intendo dilungarmi nella spiegazione delle sue beneficissime proprietà. Per capirle dovete per forza provarlo. E le vostre ugole, insieme all’umore, vi ringrazieranno.
Ma torniamo al BARattando. Come dice il nome, di aperitivo del baratto si tratta. Si parte da una pagina facebook, in cui ogni utente posta le foto degli oggetti che intende scambiare. Due a serata. Chi si presenta il mercoledì con merce di baratto riceve la tesserina che dà diritto agli sconti sugli aperitivi. E si diverte. Innanzitutto perché ci sono io a fare da giullare al microfono, gestendo un’asta che ha il sapore del vintage, unito alla sfida di accaparrarsi il tesoro più succulento. Poi perché si crea un circolo. Di settimana in settimana subentrano l’amicizia e la solidarietà: tutti noi, dipendenti da Red Kiss, ci capiamo. E così si passa una serata in compagnia, con ingredienti che tanto usuali non sono di questi tempi.



In primis lo spirito d’impresa: Silvia e Christian, una coppia che a me fa tanta bonaria invidia, perché sono bellissimi, hanno aperto un locale. In un periodo di crisi. Vicino al Teatro e al Cinema Sociale dove ci sono almeno sei bar, ormai consolidati, nel raggio di pochi metri. In una città molto più incline al lavoro che al divertimento. E poi Giorgio, fratello di Silvia, ha disegnato e creato il brand. Red App. E specialmente un nuovo modo di fare l’aperitivo, che gioca sull’italianità, andando controcorrente rispetto al resto dei locali, che imitano invece la movida milanese, proponendo spritz annacquati con buffet tanto pantagruelici quanto di scarsa qualità. Invece il Red Kiss te lo servono nei calici a coppa, come si deve, insomma. E i manicaretti sono degni di questo nome: niente tramezzini gommosi o pizzette surgelate, ma salumi e formaggi nostrani, accompagnati da crostini pepati, ragù piccantissimo, verdure fresche in pinzimonio e il fantastico polpettone di Marco, che sta dietro il bancone a preparare cocktail ma non manca di far compagnia alla clientela. Appunto sbevazzando pure lui i suoi drink. Per fortuna ci sono Yuli e Francesca che almeno fingono di controllarlo. 5 euro il pacchetto aperitivo del baratto. Giusto per dare l’idea di come la qualità non comporti necessariamente costi elevati, se accompagnata da efficienza e ottimizzazione.




Poi ci sono i principi di fondo. Per esempio, che nulla si spreca e tutto si riutilizza. Io sono la regina delle cianfrusaglie, fatico tremendamente a staccarmi dagli oggetti, specialmente se inutili e dal valore più affettivo che economico. Eppure talvolta è necessario, sennò mi troverei come quei casi di Real Time, persone affette da ossessione dell’accumulo. Anche no.
Ecco dunque l’idea di scambiare, che va a braccetto con l’esigenza del risparmio. Magari trovo qualcosa che mi serve e lo prendo senza spendere soldi, ma anzi, sbarazzandomi di ciò che tanto avrei dovuto buttare. Due piccioni con una fava. Sono o non sono arguta? E poi, vabbè, i soldi che risparmio andranno in aperitivi, libri, vestiti e oggetti vintage. Perché l’economia va stimolata, no?



Non mi sono però accontentata. Circa una sera al mese invito un ospite. Non aspettatevi il tronista di Mary De Filippiche né la velina bella-ma-intelligente. Gli ospiti li scelgo io. E punto a persone interessanti ma poco conosciute. Premio l’impegno in scarsità di mezzi, non perché sia una buona samaritana ma perché odio l’esclusionismo e i loop senza via d’uscita: se tutti continuiamo ad alimentare la fama di chi è già noto non scopriremo mai nessuno e nulla di nuovo. Una perdita per noi e per chi cerca di emergere. Quindi ci saranno giovani scrittori esordienti, artisti atipici, fotografi geniali e cantanti croccanti come le pesche noci ancora un po’ acerbe. E gente che si dà da fare per gli altri: presidenti di associazioni di volontariato, per esempio.

Questa è autopromozione pura e dichiarata. Ma che volete? Il blog è il mio e propongo qualcosa in cui credo veramente. Quindi: fate aperitivi, fate baratti, non fate la guerra!

BARattando è su facebook

domenica 11 maggio 2014

La (vera) festa della mamma

La mamma è sempre la mamma…e non proseguo, perché il resto della frase mi fa venire il voltastomaco solo a pronunciarlo. Sembrerà strano a chi stamattina ha lasciato i fiori, il biglietto o i cioccolatini accanto alla tazza della colazione della propria mamma sapere che l'inventrice della festa non avrebbe apprezzato il gesto.
L'attivista americana Anna Jarvis non ebbe mai figli suoi. Fu la morte della madre, nel 1905, che la spinse a organizzare il primo Mother's Day su scala nazionale. Le celebrazioni ufficiali avvennero il 10 maggio (la seconda domenica del mese) 1908: a Grafton, West Virginia, luogo natale di Anna, in una chiesa oggi chiamata International Mother's Day Shrine; a Philadelphia, dove viveva, e in molte altre città americane. Negli anni seguenti l'appuntamento riscosse sempre più successo, tanto che nel 1914 il presidente americano Wilson destinò ufficialmente la seconda domenica del mese alla celebrazione della festività.
Ma fu proprio da quel momento che Anna Jarvis iniziò la sua opera di boicottaggio. Per lei la festa della mamma doveva essere un giorno da passare con la propria madre per ringraziarla di tutto ciò che aveva fatto. Non la festa di tutte le mamme, ma la festa di quella che ognuno reputa la migliore delle mamme: la propria. Di fatto, invece, l'aveva vista trasformarsi in un bengodi commerciale. Per questo Anna dedicò tutta se stessa - e la sua cospicua eredità - nel tentativo di riportare la festa alle origini. Fondò l'International Mother's Day Association per riprendere il controllo delle celebrazioni e arrivò persino ad attaccare la First Lady Eleanor Roosvelt, promotrice di iniziative di beneficenza nel giorno della festa. Addirittura nel 1923 fece irruzione a un congresso di produttori di dolciumi a Philadelphia e due anni dopo ripeté il gesto al congresso delle American War Mothers, un'associazione tutt'ora esistente che per la festa della mamma vende garofani per raccogliere fondi. In quell'occasione la Jarvis fu arrestata per disturbo alla quiete pubblica.
Nonostante tutto, Anna continuò a combattere per la sua festa della mamma, almeno fino ai primi anni Quaranta. Morì nel 1948, a 84 anni, in un ospizio di Philadelphia, senza un soldo e affetta da demenza senile. 


                                         Anna Jarvis (fotografia di Bettman/Corbis)


L'origine della festa della mamma, quindi, tanto allegra non è. A discapito della spiccata vocazione commerciale assunta nel corso del tempo, inizialmente si trattava di una giornata di lutto per le madri che avevano perso i figli in guerra. E se la Jarvis la trasformò da giorno celebrato dalle mamme a giorno di celebrazione per le  mamme, la cultura del consumo ha fatto il resto. Oggi la festa della mamma è la terza occasione più importante per lo scambio di regali e biglietti dopo Natale e San Valentino. E la National Restaurant Association l'ha valutato come giorno prediletto dagli americani per andare a mangiare fuori.

In Italia la ricorrenza venne celebrata per la prima volta a Bordighera, zona dove, non a caso, c'è una ricca coltivazione di fiori freschi. Anche nel resto del mondo occidentale il senso della festa è più o meno quello che conosciamo e la mamma viene ricordata la seconda domenica del mese di maggio. 
Diversa è invece la cadenza nel mondo arabo, dove, nella maggior parte dei Paesi, la festa della mamma si celebra il 21 marzo, in coincidenza con l'inizio della primavera. Ma anche lì non mancano eccezioni. A Panama, per esempio, il giorno è l'8 dicembre, festa dell'Immacolata Concezione di Maria, madre per eccellenza. In Thailandia è il 12 agosto, compleanno della regina Sirkit, al trono dal 1956, considerata madre di tutto il popolo thailandese. 




Insomma, Paese che vai (festa della) mamma che trovi. La modalità di celebrazione si differenzia non solo in base alla storia, ma anche e soprattutto per il significato della figura materna nelle radici culturali della popolazione: pensiamo solo alla distanza che separa la mamma-educatrice cinese dalla mamma-chioccia italiana. O la mamma-amica americana dalla mamma-canguro africana. In fondo però c'è una linea unificatrice di tutti questi stereotipi: ognuno di noi ha una mamma, che sia quella che ci ha partorito, quella che ci ha cresciuto o anche solo l'interiorizzazione dell'istinto di autodifesa e della capacità di prendersi cura di sé.