lunedì 23 giugno 2014

Sento, dunque sono

Camminavo lungo via Trento. Stavo andando a prendere le sigarette. E così, per caso, sono passata davanti a un bar. Non ho potuto evitare di fermarmi e dare una sbirciatina all'interno. Non (solo) perché sono una gran ficcanaso, ma perché volevo essere sicura di non trovarmi dove non credevo di essere. E' stato l'odore a inebetirmi. Avete presente quel profumo dei bar che sono solo bar e non café? Quelli vecchio stampo, 90-80 mood? Dove fanno il caffè con le macchinette senza cialda. Dove il freezer dei gelati è quella specie di astronave in cui rischi l'ibernazione se ci metti un po' a scegliere tra cornetto o mottarello. Ma tanto non corri nemmeno il pericolo, perché la maggior parte sono esauriti o comunque c'è quasi sicuramente l'anziana proprietaria, alle tue spalle, che ti incita a darti una mossa, che sennò i gelati si scongelano. Dove il nonno se fai la brava ti compra le patatine, ma poi per tutto il tempo ti rinfaccia che sarebbe stato più salutare un panino col salame (e un bicchiere di vino, aggiungerei).


E' il bar di paese. O dei quartieri di città che hanno mantenuto vecchie insegne e proprietari. Quell'odore, qualche mattina fa, mi ha fatto venire in mente le mie estati in montagna con i nonni. Il bar della pineta, dove Battista conservava sempre per me e mia sorella una coppetta panna e cioccolato. O il bar di Livemmo, dove fuori stavano i vecchietti con i loro mini-pirli campari dalle 10 di mattina e dentro c'erano Ettore, con il grugno di chi è quasi infastidito che tu sia entrata, e la Annetta, sua madre, che invece si fermava a fare due chiacchiere con la mia nonna, giusto per aggiornarsi sulle ultime disgrazie del paesello. Poi prendevamo i gettoni e facevamo la nostra chiamata a mamma e papà dalla cabina del bar. Tutto bene, sì, hanno cambiato le altalene al parco, adesso devo andare altrimenti le occupano gli altri bambini. Ho fatto la brava e la nonna mi ha comprato le bolle di sapone al negozio della Giuditta. Ieri sera sono andata a fare una passeggiata con la Fausta (allora vecchietta quasi centenaria) mi ha portata al cimitero a vedere le tombe dei suoi fratelli. Erano tantissimi. Mamma, io però non lo voglio un fratellino! Non è che quando torno a casa me lo trovo?
E così via. E' stata la mia pétite madeleine della giornata. Gli odori vengono sottovalutati. Non a caso, invece, si usa lo stesso verbo per il naso, per le orecchie…ma anche per il cuore. Sento. Dunque. Sono.
E Cartesio mi perdoni lo scippo.
In definitiva, è da ciò che ho deciso di proporre una mappa degli odori. Una mappa geografica e interiore. L'ho messo sui social e la risposta è stata pronta e calorosa. Nel giro di una mezz'ora avevo già materiale a sufficienza per scriverci un libruncolo. E mai dire mai.


Federica: la cancelleria nuova prima di tornare a scuola, la crema solare, l'asfalto bagnato dopo la pioggia, il muschio raccolto per fare il presepe, il grano appena strappato, i pomodori nell'orto che non ho mai più sentito. odore di cane "selvatico", Lilla il cane di mia nonna che io consideravo mio, odore di cuccioli. Fumo di sigaretta, misto a fahrenheit. Rossetto. Salsedine e di oleandri. Cucina ospedaliera, definibile anche puzza. Profumo di marsiglia. Macchine con tappezzeria impregnata di fumo. Arbre magique cocco. Ciambelle fatte in casa con zucchero a velo vanigliato. Lievito. Armadio con saponette profumate. Rum.

Rosa: papaveri, caffè della moka appena salito, aria secca degli aerei.

Livia: odore di pece nella sala di danza, le stanze di un luogo in cui sono stata tanto e per lungo tempo.

Ambra: il profumo della palestra dove facevo ginnastica artistica.

Ludovica: L'odore dei camini quando arrivo ad Avezzano, l'odore dell'auto nuova (che già viene la nausea!), il profumo di talco del cassetto sotto il fasciatoio, ... La terribile umidità all'apertura dello zaino dei tuffi rimasto chiuso 24 ore con un costume bagnato dentro!

Michela: L'odore dei sedili del mio camper, indizio di vacanza; il profumo della casa dove c'è un neonato; l'odore degli aghi secchi dei pini marittimi in campeggio; il profumo delle grigliate l'estate; gli scatoloni con gli oggetti di natale; il kimono di judo; l'odore di fieno e al contempo di umido della mia cascina; l'odore di casco che resta sui capelli dopo un giro in kart o una giornata in moto; l'odore di caffè, brioche e benzina dell'autogrill!

Silvia: L'ingresso di casa quando si torna da un lungo periodo all'estero, il bagnoschiuma del papà, le biblioteche con gli scaffali tutti pieni, l'odore dell'erba appena tagliata e dell'asfalto dopo la pioggia e del pacchetto di tabacco nuovo e della crostata che mia mamma faceva quando ero piccola quando la sfornavamo ancora calda…

Stefania: Il profumo della pasta al pomodoro dell'asilo, i libri nuovi della scuola,l'odore degli aeroporti americani che mi fanno sentire a casa,il "profumo" di campagna a casa dei nonni che per noi di città era puzza ...solo ora da grandi vi rendiamo conto che invece era un profumo soave per l'anima, il profumo di mare in lontananza quando si arrivava stremati dal lungo viaggio, il profumo di erba tagliata che si sente dal mio balcone.

Angela: Odore di erba appena tagliata, odore di fieno, odore di cloro quando entri in piscina, odore di ammorbidente e di biancheria appena stesa, odore del mio cane, odore di ospedale e di disinfettante, odore di fiera, croccante, "tirapicio" e zucchero filato, odore di shampoo sui capelli asciutti, di dopo sole e di burro cacao, odore di pomodori maturi nell'orto, odore di cose nuove, di cose buone, di cose belle…

Sergio: Il borotalco Roberts dopo il bagnato da piccolo.

Silvia: l'odore della big bubble che si rompe sul naso.

Roberta: Il profumo della crema sul viso di mia madre.

Silvia: Il profumo di mandarini a Natale...la colonia alla lavanda della nonna...il profumo di resina di pino dentro un bosco.

Marta: Il profumo del caffè preparato da mio padre che sale fino alla mia camera; il profumo che solo i neonati hanno; il profumo della legna che brucia nella stufa; il profumo degli zampironi anti zanzare; il profumo dell'uva pigiata nei tini; il profumo dell'erba appena tagliata; il profumo del gnocco fritto; il profumo della lavanda...

Floriana: l'odore del caffè in una torrefazione, il profumo di canditi a Natale, l'ovomaltina nel latte la mattina prima di andare a scuola, il basilico d'estate, la sabbia bagnata mista alla cema protettiva al cocco, l'odore dell'acqua e menta, la cenere del caminetto…

E voi? Che cosa sentite?

domenica 22 giugno 2014

Diffidare degli occhi

E’ un illuso chi pensa di sapere esattamente quale sia il suo aspetto. Gli occhi sono i più crudeli traditori. Arrivano a ingannare una sorella: quella mente ospitata nello stesso corpo di cui essi sono le finestre sul mondo esterno. Per questo bisogna rassegnarsi al fatto che l’immagine che di sé si vede allo specchio non è la stessa che percepiscono gli altri.
Vi è mai capitato di vedervi diversi in fotografia? E’ l’effetto di un’esternalizzazione, non solo ottica ma anche cerebrale. Ma cosa accade se quello stesso volto, quello stesso corpo, sono doppiamente filtrati? Non solo da un altro sguardo (che potrebbe essere la macchina fotografica), ma anche da un altro cervello. Si chiama ritratto. Qualcosa che va oltre la storia dell’arte e della fotografia. Qualcosa che entra nelle intercapedini dell’essere e della vita. Perché la mente, cari miei, non è per niente infallibile. Ma questo l’avrete già sperimentato o lo sperimenterete tutti, prima o poi. Ecco perché sono sempre esistiti i supporti mediatici. Appunto come ancelle per quelle funzioni che il cervello non è totalmente in grado di svolgere da solo: comunicare, ricordare, immaginare…
Ma torniamo al ritratto. I ricchi un tempo se lo facevano fare per conservare l’immagine e la memoria delle loro famiglie. Assoldavano pittori e artisti. E stavano in posa per ore intere. Poi è arrivata la fotografia e ora i genitori immortalano i loro pargoli con video e scatti dai cellulari. Rimarranno nella storia o si perderanno nel flusso di stimoli iconici che ci riempiono gli occhi ma prima o poi deperiscono?


Di certo il lato più affascinante del ritratto è che in esso si racchiude quella differenza magica e ineffabile tra realtà e percezione, visione propria e altrui, mondo interiore ed esteriore.
E al ritratto Daniela Braga, una mia amica appassionata d’arte e di fotografia, ha dedicato una serie di eventi che si stanno svolgendo nell’atelier L’altra arte di Delfina Platto. Il prossimo incontro sarà mercoledì 25 giugno, in via Nazario Sauro 20/22 (Bagnolo Mella, BS). Titolo: “Il ritratto nella fotografia”.




Ospite d’onore sarà il fotografo Erminando Aliaj, ritrattista professionista, specializzato nella moda e attivo nell’ambito della musica. Aliaj insegna all’Accademia del Lusso di Milano e nel corso della serata ripercorrerà dapprima la parte storica del ritratto nella fotografia e poi il legame con il mondo della moda. Un modo per capire, anche grazie alle opere di Erminando, le differenze tra pittura e fotografia nella ritrattistica. L’ingresso è gratuito, quindi conviene proprio farci un salto. Anche perché poi seguirà, il 9 luglio, il workshop “Riflessi allo specchio”, un laboratorio creativo in cui ai partecipanti verrà chiesto di lavorare sul proprio autoritratto.



                                                      Foto di Erminando Aliaj

venerdì 20 giugno 2014

Mondiali. Provate a dire che non è così

«Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre». Una frase, uscita dalla bocca di Winston Churchill, che ha piantato radici robuste nella memoria collettiva. Forse perché scandalizza. Forse perché sa di stereotipo. O forse perché, tutto sommato, ha un fondo di verità, come d’altronde ogni leggenda metropolitana. Perché non si può negare che l’Italia nutra una passione sfrenata verso il calcio. Ma con i mondiali è diverso. Quel senso di appartenenza che solitamente unisce e divide la tifoseria in lungo e in largo per lo Stivale, ogni 4 anni rende la nazione una nazione. E così siamo tutti più azzurri, tutti più italiani davanti alla coppa del mondo.

Il calcio sarà anche un credo, un rito sacro celebrato su quell’altare pagano che è lo stadio, o il televisore, ma pur sempre di un gioco si tratta. E allora bando al moralismo. Perché nonostante gli interessi economici e le diatribe che montano senza dubbio il business dei mondiali, ogni quattro anni, ormai da svariati decenni, ha luogo un vero e proprio fenomeno sociale e culturale. Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi del globo che partecipano alla coppa. Uno per tutti, tutti per tutti, per intenderci. E’ proprio il caso di storpiare i proverbi, perché l’afflato patriottico generato da una singola nazionale determina calore e solidarietà tra tutti i cittadini. Uomini e donne, giovani e vecchi. Così, almeno per qualche afosa serata a cavallo tra giugno e luglio, nessuna moglie sbufferà davanti alla partita in tv, e magari preparerà birre e panini alla tifoseria in pole position sul divano. E anche le ragazze prenderanno parte ai raduni serali, organizzati apposta per seguire il torneo. Dal tradizionale concerto di trombette e inni nazionali, con il bagno nelle fontane delle piazze in caso di vittoria, a esternazioni più bizzarre e variegate: torte azzurre o tricolore, abiti a tema, o addirittura il volto dipinto a mo’ di bandiera. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Immagini viste e riviste, immaginate e immaginabili: purtroppo non si può parlare dei mondiali di calcio senza sfiorare il cliché, perché si tratta di un evento che ha nel dna il gene della tradizione. Forse è proprio questo il suo fascino: ripetere gesti e situazioni, fino a farli diventare usanze. Creare atmosfere. Proprio a questo fattore deve la sua fortuna un repertorio sterminato di letteratura filmografica e musicale. I tormentoni discografici, selezionati ed eletti appositamente come inni dei mondiali. Chi non ha ballato il Waka waka di Shakira nell’estate del 2010? E chi, quattro anni prima, non si è emozionato sentendo The time of our lives? Si arriva fino a El Mundial, allegra marcetta scritta da Ennio Morricone per Argentina 1978, passando per Un’estate italiana, cantata da Edoardo Bennato e Gianna Nannini in occasione di Italia ’90. «Non è una favola e dagli spogliatoi escono i ragazzi e siamo noi», il verso cult che ha fatto battere all’unisono i cuori degli italiani in quell’estate di 24 anni fa. La fortuna delle canzoni ufficiali delle coppe del mondo è che esse vengono collegate non tanto al calcio, quanto a tutti gli eventi collaterali che segnano l’estate in una rassegna patriottico-popolare. Così nei mondiali del Brasile non sono i calciatori a giocare sulle note di Pitbull e Jennifer Lopez, ma i nostri ricordi a ballare al ritmo di Olé Olà.


D’altronde nemmeno i registi si sono risparmiati: c’è un film emblema o documentario più o meno per ogni coppa del mondo. Spesso prodotto dal Paese che l’ha ospitata ma non necessariamente. Il mondo ai loro piedi (Alberto Isaac, 1970), G’olé (Tom Clegg, 1982), Hero (Tony Maylam, 1987), Notti magiche (Mario Morra, 1990), La coppa della gloria (Drummond Challis, David Wooster, 1998), La grande finale (Pat O’ Connor, Michael Apted, 2006). Non mancano nemmeno pellicole non prettamente basate sui mondiali ma che hanno sbancato al botteghino grazie a essi. E’ il caso di Notte prima degli esami oggi (Fausto Brizzi, 2007). Lo stesso regista ammette di essere stato salvato dalla coppa del mondo: «Dopo il successo di Notte prima degli esami, mi chiesero di replicare. O lo fai tu, o lo farà qualcun altro, dissero. Doveva essere sempre incentrato sulla maturità e possibilmente con gli stessi attori. Quindi non potevo realizzare un sequel, dovevo proprio fare un remake. Ma non era facile, sia perché alcuni fiori all’occhiello del cast, da Giorgio Faletti a Cristiana Capotondi, non ci sarebbero stati sia perché il primo film era ambientato negli anni 80 e il suo fascino era quel periodo, quell’atmosfera. Dovevo trovare un elemento altrettanto forte per caratterizzare una storia che, lo ammetto, non aveva nulla di particolare e in più si rifaceva a un modello già visto a distanza di pochissimo tempo. Per fortuna c’erano i mondiali di calcio». E in effetti non si può dare torto a Brizzi: quella notte prima degli esami, traslata dal 1989 al 2006, non avrebbe nulla di emozionante se non ci fosse il costante sottofondo dei mondiali. La sceneggiatura va infatti completamente fuori strada rispetto al titolo: nessun adolescente si rivedrebbe mai in quella notte pre-maturità, se non per un particolare: la partita in tv, quella che riempie i locali e costituisce la colonna sonora delle serate di studio collettivo, il valido motivo per distrarsi dai libri. E, a proposito di libri, anche la parola scritta ha intascato qualche asso in occasione dei mondiali di calcio. Lo sa bene Gianni Brera, celebre giornalista sportivo che ha prodotto il testo forse più completo e significativo sul tema: I mondiali di calcio, una raccolta di racconti, aneddoti personaggi e tradizioni sulla coppa del mondo dal 1930 al 1974, con la ristampa di Ebook, arricchita dalla postfazione di Gigi Bignotti, in occasione di Sud-Africa 2010 e a 8 anni dalla morte dell’autore. Che il tema dei mondiali fosse in grado di far comprare un libro anche a tutti quelle persone che leggono solo la Gazzetta dello Sport, Brera lo aveva senza dubbio intuito, tanto che non si limitò a quel testo, ma pubblicò anche I miei mondiali (1986) e La leggenda dei mondiali (1990). Come lui fecero anche altri, seppure con meno gloria: Raffaele Ciccarelli, con Ottanta voglia di vincere. Storia dei mondiali di calcio (Cento autori, 2010), Gino Cervo e Antonio Gurrado, con Mondiali dal 1930 a oggi. La coppa del mondo e i suoi oggetti di culto (Bolis, 2010), Carlo Chiesa e Lamberto Bertozzi, con Il secolo azzurro 1910-2010 (Minerva, 2010). Tutti serviti freschi in libreria qualche settimana prima della grande ouverture: da sfogliare con calma sotto l’ombrellone, da divorare senza ritegno a poche ore dalla diretta tv o da conservare, come consolazione, per non sentirsi troppo spaesati a mondiali conclusi.
In tutto ciò non poteva mancare la buona o cattiva maestra del XX secolo, la scatola sempre più piatta, sempre più larga, sempre presente: è la televisione l’ancella indispensabile dei mondiali di calcio. E se le reti, sportive o generaliste, si contendono i diritti per trasmettere le partite, il restante comparto si rifà con i programmi di approfondimento, gli speciali con ospiti d’eccezione e pure con la fiction. Per Brasile 2014, ad esempio, I Simpson, serie-tv ideata da Matt Groening, hanno preso nel loro diabolico mirino i mondiali, con un episodio realizzato appositamente per celebrarli. O meglio: per canzonarli in maniera beffarda. In cosa consisterà? Molto semplice: proprio come è già accaduto in passato con molte star che si sono viste disegnate nei divertenti personaggi dei Simpson, ognuna delle squadre di calcio che parteciperanno al progetto subirà una trasformazione nel tipico stile Groening. Tra le squadre che hanno già accettato ci sono FC Barcelona, FC Zenit San Pietroburgo, Corinthians e Boca Juniors. Inoltre, a marzo 2014, è andata in onda la puntata speciale dal titolo “You Don’t Have To Live Like a Referee” (“Non c’è bisogno di vivere come un arbitro”), che ha visto lo scanzonato padre di famiglia Homer impegnato per i mondiali nel ruolo di arbitro.

Insomma, una compagnia costante, che si conserverà non solo negli archivi digitali, ma per molti anche in armadi e cassetti. Chi non ha ancora, magari accantonato in un angolo sperduto della casa, un portachiavi con Ciao, l’omino tricolore stilizzato di Italia ’90? O un cappellino da baseball blu di France ’98? Quest’anno ci tiene compagnia Fuleco, l’armadillo scelto come mascotte per Brasile 2014. 


Il nome deriva dalla fusione delle due parole portoghesi futebol (calcio) ed ecologia (ecologia) e l’animaletto ha ovviamente un valore simbolico, visto che ha la capacità di avvolgersi come una palla. Peccato solo per i colori, giallo, azzurro, bianco e verde, che sono più o meno gli stessi di Foody, contrassegno di Expo 2015. Riusciremo a non nausearci con questa quadricromia? Presto per pensarci. Intanto si spera di usare Faces per brindare alla vittoria italiana. Che cos’è Faces? Non un surrogato di facebook, ma un vino, il vino ufficiale di Brasile 2014. E a idearlo è stata una giovane enologa di origini vicentine, Monica Rossetti. Quindi ecco la frase di un altro uomo, il cui volto è rimasto impresso nell’annuario politico del popolo italiano. Disse un giorno Fausto Bertinotti: «L'impresa della vittoria ai mondiali di calcio fa la gioia di un intero Paese, che nella festa scopre le ragioni di qualche momento di fraternità». Pur sperando che i motivi di solidarietà siano anche altri, non lo si può contraddire.

giovedì 5 giugno 2014

Maleficent. Chi è il vero cattivo?

Dipende tutto dal punto di vista. Basta un antefatto, un retroscena, per cambiare il senso della storia. E allora quello che è sempre stato l'eroe diventa un po' meno buono, un po' meno coraggioso. E anche lo storico antagonista può mutare sembianze. Pur restando, entrambi, il buono e il cattivo.
Non in tanti conoscono La bella addormentata nel bosco. Si tratta di una fiaba tradizionale europea, nota soprattutto nella versione che Charles Perrault ne fece ne I racconti di mamma oca (1697) e ovviamente nel classico film animato Disney del 1959. E' la mia fiaba preferita.
Il re Stefano governa felice nel suo bel castello e un giorno lui e la moglie hanno una bimba. La principessa Aurora. Organizzano un banchetto per il battesimo della piccola, ma non invitano la fata Malefica. La quale, giustamente, si risente. Tanto da scagliare un maleficio contro la bambina: <<Prima che il sole tramonti sul suo 16° compleanno, ella si pungerà il dito con il filo d'un arcolaio e morrà>>. 


Poi arriva una delle tre fatine buone, Serena, tutta vestita di azzurro, la quale non ha ancora dato il suo dono ad Aurora e quindi rimedia al maleficio, dicendo che il sonno potrà essere destato dal bacio del vero amore. Serena, Flora e Fauna, le tre fatine buone, per sedici anni accudiscono Aurora nella casetta di un taglialegna. Lo fanno senza magia, come fossero contadinelle. 



Poi, allo scoccare del sedicesimo compleanno (e qui uno si chiede: ma aspettare qualche settimana in più no?), la riportano al castello del padre. Dove lei ovviamente si punge il dito con l'arcolaio (anche lì: chissà come mai se li avevano bruciati tutti ne deve rimanere proprio uno e, pensate la sfortuna, la furbissima ragazza ci appoggia sopra il ditino...), cadendo addormentata. Quindi arriva Filippo, figlio del re Uberto, dunque principe pure lui, che, in sella al  suo cavallo bianco, slinguazza la principessa, di cui è già innamoratissimo, pur avendola vista una sola volta. E vissero tutti felici e contenti.


Questa è la versione tradizionale, quella che separa in maniera netta bene e male.
Poi c'è Maleficent.
Frutto del debutto alla regia di Robert Stromberg, il film è uscito da poco nelle sale. 28 maggio in Italia.
Malefica è una fata. La bellezza algida di Angelina Jolie si accosta a fattezze da creatura magica piuttosto ambivalenti. Più o meno un incrocio tra Barbie e gli elfi del Signore degli Anelli. O, se preferite, tra Avatar e Tomb Raider. In una danza che parte come un lento romantico per arrivare ai balletti mozzafiato in stile Kill Bill. Ma, a dispetto del nome, Malefica non ha nulla di cattivo. E' solo una ragazza innamorata e sognatrice. E Stefano mica è un principe. Nossignori. Lo diventerà, con l'inganno e il tradimento, ma solo dopo essersi presentato come contadino, a dire il vero anche un po' sfigato. Per salire al trono promette al sovrano morente di uccidere Malefica, che vive nella Brughiera e non concepisce l'idea di dominio. Ma in fondo il giovane non ha ben chiari i suoi sentimenti. O ha poco coraggio. Infatti non riesce a uccidere Malefica, ma le strappa semplicemente le ali. Le porta a re Enrico e ottiene il trono. 



Poi la storia continua, più o meno come la conosciamo. Ovviamente, però, la guardiamo con un diverso paio di occhiali. Le tre fatine sono sbadate e rompiscatole, Aurora è sì bellina, ma nulla in confronto a Malefica. E quest'ultima farà anche la parte della cattiva, ma risulta quasi simpatica, oltre che tenera. E Filippo? Il principe che dovrebbe salvare la bella addormentata dal sonno profondo? Beh, già nella favola non si può definire un campione di sagacia: lui e il suo cavallo che mangia carote. Ma nella pellicola di Stromberg assume sfumature comico-patetiche: prima non trova il regno di Stefano e vabbè, caro mio, ci sono solo una brughiera e un paesello, forse un navigatore sarebbe eccessivo. Poi si fa problemi a baciare Aurora, appunto dormiente, perché: <<si sono visti una volta soltanto e si sentirebbe in imbarazzo>>. Ma sei o non sei l'eroe, per dindirindina? Insomma, non ci siamo. 



Per fortuna c'è Malefica. E non solo perché ci regala il piacere di una fiaba antica libera dagli archetipi, ma anche perché alza un velo sul significato della parola amore. Che non è tutto pathos e baci alla francese, non solo un sentiero in avanti, ma anche un perdersi, tornare sui propri passi, ritrovarsi, ricostruire su fondamenta più solide. Pentirsi. Perdonare.