domenica 30 marzo 2014

La scuola fa bene alla salute

Forse l'idea non piace agli studenti più lavativi. E ancor meno alle mamme chiocce. Eppure pare ci sia una stretta connessione fra il livello di istruzione e lo stato di salute della popolazione. Lo ha dimostrato uno studio realizzato negli Stati Uniti e pubblicato di recente su Science.
La ricerca, denominata Carolina Abecedarian Project, è stata condotta dall'Università del North Carolina (UNC), a Cape Hill, e aveva come obiettivo primario verificare se fosse possibile innalzare il quoziente intellettivo (QI) e il grado di rendimento scolastico dei soggetti nati e cresciuti in condizioni economiche di povertà, quindi più ad alto rischio di lasciare la scuola e diventare disoccupati. Ebbene, oltre a dimostrare che la miseria non è incisa sulla pietra, questo studio ha messo in luce anche la correlazione tra un programma intensivo di formazione nei primi anni di vita del bambino e il suo stato di salute raggiunta un età minima di 30 anni.
Già dal 1972 furono reclutate più di 100 famiglie con figli di 2 mesi. Nella maggior parte dei casi si trattava di afro-americani con un bilancio economico che li faceva rientrare nella fascia povera della popolazione. Le madri non sapevano a chi affidare i loro bambini mentre erano a lavorare. Ora, posto che a tutti i partecipanti allo studio venne garantita assistenza nutrizionale e medica, metà di essi (il cosiddetto "gruppo di controllo") ebbe solo quella, mentre l'altra metà fu introdotto anche in un programma intensivo, che prevedeva l'inserimento del bambino in una scuola, prima materna e poi primaria, per 5 giorni a settimana, in media dalle 6 alle 8 ore quotidiane. A scuola i bimbi erano seguiti non solo dagli insegnanti, ma anche da psicologi ed educatori. In pratica: c'era sempre qualcuno che parlava, giocava e si relazionava con loro.



Nulla di sorprendente, penserete voi: lo fanno anche i nostri genitori e i nostri nonni. Certo, ma spesso si tende a dimenticare che "noi" siamo solo una fettina, circa il 20%, della popolazione mondiale. Queste attenzioni non sono così scontate per milioni di bambini e ragazzi che al posto dell'ovetto kinder e del Topolino, o, per attualizzare la situazione, dei giochi sull'ipad, si trovano in mano un pezzo di carbone. E non il carbone dolce, quello di Santa Lucia e della befana, ma il carbone vero, direttamente uscito da una miniera. Tipo Rosso Malpelo, per intenderci.
Insomma, se l'Abecedarian Project ha evidenziato una verità che già si poteva facilmente intuire, ovvero che il gruppo sottoposto a formazione intensiva raggiungeva un QI più elevato e che aveva il quadruplo delle possibilità di laurearsi e il 30% delle probabilità in più di trovare lavoro entro i 21 anni, altri risultati, decisamente più inaspettati, sono emersi dall'evoluzione dello studio dell'UNC. Cioè, non solo i soggetti trattati avevano prospettive più rosee per il futuro lavorativo, ma anche, e forse per questo, uno stato di salute decisamente migliore. All'età di 30 anni, infatti, i partecipanti sono stati sottoposti a test clinici per misurare la pressione sanguigna e il livello di zuccheri nel sangue. I membri del gruppo di controllo, in media, si attestavano al livello 1 di ipertensione (quindi con alto rischio di infarti e altri scompensi cardiaci) e un quarto di essi presentava anche una sindrome metabolica, ovvero una costellazione di sintomi, tra cui iper-glicemia ed eccesso di grasso addominale, connessi alla cattiva alimentazione e all'obesità. Nello status di salute di tutto il gruppo trattato, al contrario, non emergevano anomalie.
Lo stesso team di scienziati che ha condotto la ricerca non è tutt'ora in grado di stilare una connessione sicura e diretta tra il contesto formativo nei primi anni di vita e lo stato di salute in età adulta, sia per i molti fattori che convergono in questo ambito sia per il numero tutto sommato esiguo di soggetti studiati. Certo è che, se non possiamo dire con esattezza il perché, abbiamo comunque dati evidenti che costituiscono i vertici del triangolo formazione-economia-salute. Vale a dire: una cura maggiore delle politiche scolastico-educative garantisce sia un migliore stato di salute sia l'incremento del pil di una nazione. Una connessione importante, specialmente per l'Italia. Da noi le prime voci di spesa pubblica sono infatti: sanità e pensioni. Per contro, l'istruzione e la formazione sono lasciate decisamente nell'ombra, non solo per quanto riguarda i fondi destinati alla ricerca e alle università, ma anche per i servizi collegati allo studio, ovvero progetti educativi per i più piccoli, asili nido, dopo-scuola e campus universitari. Tutti elementi che nella maggior parte dei casi non vengono finanziati dallo Stato, perché, in termini di priorità, sicuramente non sono i primi della lista. E non c'è da stupirsi: se il bilancio, già in forte deficit, è limitato, da qualche parte bisogna pur tagliare. Il problema è una ricanalizzazione degli stanziamenti. Se, per esempio, si prestasse più attenzione alle politiche sociali volte a migliorare l'imprinting formativo della popolazione, ne gioverebbe anche la salute collettiva, generando quindi un bisogno inferiore di spese sanitarie. Al tempo stesso ciò darebbe garanzie più elevate per il futuro, stimolando l'iniziativa privata e riducendo quindi l'afflusso massiccio di dipendenti nel terzo settore, che ormai sta collassando. Senza contare i posti di lavoro generati in ambito sia scientifico che umanistico per offrire servizi educativi.
Non da meno, gli effetti sociali: se nel nostro Paese c'è la tendenza a restare e fare tutto in famiglia, ciò è dovuto anche all'assenza di appigli al di fuori di essa. Senza stimoli economici (per esempio borse di studio), reti comunitarie (avete presente i campus nel Nord Europa o negli Stati Uniti?) e un'adeguata abitudine culturale. Il nostro Welfare State è basato su un sistema familistico, paternalistico e particolarista, che significa: in assenza di servizi sociali adeguati, la cura dei bambini e degli anziani è per lo più gestita all'interno della famiglia, così come, nei casi che lo consentono, le attività economiche sono portate avanti più per cognome che per passione. Questo vuol dire tarpare le ali a molti giovani, restringendo fortemente le possibilità di accesso ai singoli mercati.
Insomma, si tratterebbe di instaurare un circolo virtuoso, interrompendo l'effetto domino della mala o non education.

lunedì 24 marzo 2014

Non buttiamoci giù

Regia di Pascal Chaumeil, Gran Bretagna, 2013

Chi non ha mai pensato al modo più eclatante per farla finita? Spero in tanti, ma temo purtroppo non sia così. E allora, se attraversando gallerie buie dei vostri tragitti esistenziali, o più semplicemente spinti da una curiosità macabra ed egocentrica, vi siete chiesti come potrebbe essere il vostro funerale, quante persone ne prenderebbero parte o, questio magristralis, che cosa si prova nel frammento temporale che divide la vita dalla morte, questo film vi potrebbe interessare.
E’ il secondo, in meno di un anno, che parla di morte, l’ennesimo che porta in scena morti viventi. Ma se la profondità del tema si accompagnava in Still Life a una parallela lentezza narrativa e alla serietà fino mai eccessiva dei personaggi, Non buttiamoci giù affronta in maniera del tutto opposta una delle più grandi tragedie umane. Non la semplice morte, ma la morte voluta, vista come unica soluzione di fronte a un futuro invisibile, o forse solo offuscato. Senza stilare liste di pro e contro per cui valga la pena (soprav)vivere o farla finita, i quattro protagonisti si ritrovano contemporaneamente, la notte del 31 dicembre, sul tetto di un grattacielo londinese. Con la medesima intenzione: buttarsi giù. Il primo è Martin, stella televisiva oscurata da un passato recente che non gli fa onore: la relazione sessuale con una minorenne. Divorziato, con due figlie. In fila dietro di lui c’è Maureen, noiosa donna di mezza età con un figlio disabile, che si offre di aspettare il suo turno con discrezione. Starà voltata di spalle mentre Martin precipita nel vuoto e poi si butterà a sua volta. Ma a interrompere e arricchire il quadretto grottesco arriva Jess, ragazza irriverente e sfrontata, figlia del ministro ombra dell’istruzione e con una sorella maggiore dispersa. Mentre i primi due la trattengono dal gesto estremo – non si sa se per questioni di diritto alla precedenza o per non perdere a loro volta il coraggio – arriva il quarto membro della banda: J.J., detto pizza-boy per via del suo lavoro, il quale, in una gara a chi ha il motivo migliore per suicidarsi, rivelerà agli altri di avere un tumore al cervello.
E così, nel tentativo di dissuadersi a vicenda, i quattro perdono temporaneamente di vista il motivo per cui si sono ritrovati su quel tetto e, poche ore dopo, sottoscrivono un patto: aspetteranno il 14 febbraio per suicidarsi. Dopo aver firmato l’accordo sul retro del biglietto d’addio di Maureen, nell’ordine iniziano: un nuovo anno, un intreccio di vicende che si altalenano tra l’assurdo e il banalmente reale e, soprattutto, una splendida amicizia.
Quale sarà la loro sorte di lì a sei settimane? Vorranno ancora forzare il fato, fermare i dadi del destino, o si renderanno conto che nulla è più irrimediabile della morte?
Naturalmente non sta a me dirvelo.



Questa pellicola si presta tuttavia a un’altra riflessione che covo da un po’. L’impatto mediatico del suicidio. Che cosa significa? Quando è lecito per giornali e tv annunciare una morte autoindotta e quando invece ciò si trasforma nell’ennesimo atto di spettacolarizzazione del macabro? Perché, per esempio, non si dà quasi mai notizia delle tante persone che si lanciano sotto i treni o di quelle che si addormentano per sempre imbottite di farmaci? E perché invece hanno risonanza certi episodi, come i recenti suicidi dell’imprenditore veneto e del disoccupato siciliano? In questo frangente una spiegazione c’è. E, a mio parere, legittima. Se infatti nel secondo caso ci può essere una valenza sociale e di stimolo alle autorità, visto che l’imprenditore e il disoccupato si sono entrambi suicidati nell’arco di 24 ore per il lavoro, gli annunci di morte riuscita, magari correlati al clamore e alle reazioni di shock che ne derivano, sono solo benzina sul fuoco per altri suicidi. Ed è un po’ questo il punto. Una delle cause scatenanti di questi gesti è proprio il senso di impotenza, di invisibilità, di assenza (propria e di un senso generale) provati da chi ne è protagonista. Uso questo sostantivo non a caso. Il motivo che spinge a suicidarsi è proprio il desiderio di sentirsi protagonisti e non comparse, attori e non spettatori, soggetti e non oggetti, almeno per una volta, almeno nell’ultimo atto della propria vita. Non mi addentro nelle ragioni psicologiche e cliniche che possono indurre a sostenere una scelta del genere. D’altronde non sono una psicologa né una sociologa, ma mi guardo intorno, lo faccio innanzitutto per istinto naturale e poi per lavoro. E penso: in un qualche modo non è tutto dentro la testa di queste persone. E’ sì uno spettacolo grottesco che si auto-allestiscono, ma lo fanno perché ne sentono il bisogno, perché crescono e vivono in una società in cui se non sei qualcuno non sei nessuno. E scusate, se così non fosse, non avrebbero così successo i reality-show e i giochi a premi, dove tutti, in teoria, possono diventare famosi. Va bene, questa è una generalizzazione fin troppo estrema, di certo non tutti aspiriamo a essere celebrità, però in tutte le cerchie, in tutte le reti sociali, aleggia un senso di rivalsa, un desiderio di essere il centro. Non credo sia del tutto sbagliato, ognuno deve essere in grado di rendersi l’eroe o la principessa della propria favola, ma appunto deve imparare a farlo da solo, altrimenti ci sarà sempre un altro pronto a metterlo nell’angolo.

Ed è un po’ questo senso di marginalità, di auto-esclusione sociale e affettiva, a far incontrare Martin, Maureen, Jess e J.J. (tra l'altro, non riesco a non notare la simmetria nella scelta dei nomi: due che iniziano con M e due con J, un maschio e una femmina per tipo) sul tetto di quel grattacielo. Tutti e quattro hanno apparentemente valide ragioni per dire addio al mondo, ma non sono quelle valide ragioni a solleticare in loro l’idea del suicidio. Pensateci: i più disperati, in realtà, sono quelli che non conoscono il motivo per cui si disperano.

domenica 23 marzo 2014

Perché quando sento gelato mi spunta il sorriso

E' ufficialmente primavera e domani, 24 marzo, sarà pure la giornata europea del gelato. E allora lasciatemi sbizzarrire su di un tema che mi vede espertissima. Perché io il gelato lo mangio tutto l'anno. Anche con la neve. Anche a Natale. Anche rischiando di perdere il treno in stazione per pigliarmi il mio cono da Venchi.
Insomma, per ognuno c'è qualcosa o qualcuno a cui non riesce mai a dire di no. Io il qualcuno non l'ho ancora trovato (forse) ma il qualcosa sì. Il gelato, appunto.



Cono o coppetta? Visto che andiamo sul personale, direi decisamente cono. Purché non mi si rifili quella schifezza stampata. Nossignore. Il cono deve essere rigorosamente in cialda, anche se alcuni intenditori con la puzza sotto il naso ammantano la necessità del cono stampato per esaltare il sapore del gelato. Ma raccontatela a qualcun'altro. La verità è che costa meno.





Diffidate sempre dei primi due (cono stampato e wafer), scegliete i secondi (cialda e crunchy).

No, il gelato deve essere una parentesi di godimento dall'inizio alla fine. Non esiste che finisci la parte cremosa e poi devi mandare giù un solido di cartone. O raschiare lo scodellino con la paletta plasticosa. O, peggio di tutto, trovarti in bocca un legnetto che ricorda tanto quello che ti infilava tra le fauci il pediatra.
Ovviamente sono opinioni.
Ma veniamo al secondo quesito esistenziale. Gusti crema o frutta? In genere io scelgo le creme. E sono anche piuttosto attenta agli abbinamenti. Per esempio, sapete che se scegliete il pistacchio insieme alla nocciola o la crema con il fiordilatte o bacio e cioccolato vi perdete metà del piacere? Perché non riuscite  a distinguere i sapori. Troppo simili. Il segreto è variare aroma, colore e possibilmente anche consistenza. Per esempio un gusto chiaro e uno scuro, uno intenso e uno delicato, uno variegato e uno liscio. Ok, queste sono chicche da intenditori, tanto quanto spingere il gelato nel cono, per averne anche nella parte finale. Rasentano un po' l'ossessività ludica.
Anche i gusti alla frutta, tuttavia, hanno un loro perché, a patto che li si abbini almeno a una crema o allo yogurt. E che, possibilmente, abbiano pure loro, poverini, una base di latte o un substrato cremoso.
E se tra le creme vincono mascarpone, bacio, pistacchio e nutellone, come frutta direi invece: fragola, fico, banana, pera. E poi yogurt e yogurt alla fragola, che non sono niente male. Il gelato al limone, invece, per conto mio potrebbe sparire dalla faccia della terra. E sinceramente mi fanno proprio ridere quelli che entrano in una gelateria e si pigliano il cono (magari stampato, ahahahah!) con una (una???) pallina al limone. Ma scusate, a questo punto non prendetevelo, evitate il supplizio di entrare nel girone dei golosi se non volete peccare. Che poi il vero peccato è appunto non cedere alla tentazione, secondo me.



Rimanendo in tema di gelato artigianale, ecco la mia classifica delle migliori gelaterie. Mi limito alle zone di Brescia, Milano e Varese, perché sono quelle che conosco meglio.
1. Imperiale (Brescia)
Da provare: gusti mascarpone e bacio, fragolina di bosco, pistacchio e pera, ma anche fico, d'estate.
2. Bedussi (Brescia)
Mitici lo yogurt alla fragola e il croccante. Io lì prendo sempre il cono per celiaci, perché ha la cialda più buona.
3. Cioccolatitaliani (Milano e Varese)
Ti riempiono il cono - rigorosamente in cialda - di cioccolato, da scegliere nelle varianti bianco (il mio preferito), al latte e fondente. I gusti migliori sono bianco avorio nocciolato e rosa al cioccolato bianco. Anche pistacchio, comunque, si difende bene.
4. Dolci Brividi (Varese)
Gelato bello grande, che costa poco e nel cono in cialda come piace a me. Il top è  nutellone.
5. Annyrose (Varese)
Tanta varietà, fanno anche i semifreddi, le crepes e il frozen yogurt o lo yogurt variegato.
6. Pecora Nera (Brescia)
Il motivo principale per cui ci vado è il gusto "crema al biscotto bresciano". Hanno anche creme fredde, come mou, ma sconsiglio vivamente di prenderne due in una volta: non riuscireste a finire il gelato perché sono dolcissime. Meglio abbinarle a gusti più freschi.
7. La casa del gelato - Rondinelle (Roncadelle, Brescia)
Se vi capita di passare in questo centro commerciale nella periferia di Brescia, fate un salto alla Casa del gelato. Ci sono tanti gusti e sono pure generosi. Il top è il gusto Kinder Paradiso, che personalmente non ho trovato in nessun'altra gelateria.
8. Venchi (stazione centrale Milano)
Allora, a suo vantaggio ha il fatto di usare ingredienti biologici e senza aggiunta di conservanti, però bisogna dirlo: è piuttosto caro. Un cono medio 3,50€. E la bontà varia a seconda delle volte. Questione di fortuna?
9. Grom (Milano)
Lo decantano in molti, a me non ha mai detto nulla di particolare. Certo, sicuramente ha un gelato migliore di altri e utilizza ingredienti genuini, ma anche in questo caso i prezzi sono elevati e il gelato piccolo, a meno che uno non voglia svuotarsi il portafoglio. Inoltre è una catena, quindi si tratta di gelato falsamente artigianale.
10. L'oasi del gelato (Milano)
Posto carino, da provare il gusto cassata siciliana.
11. La Romana (Brescia e Varese)
Forse eccessivamente molle, però senza dubbio ricercato nei gusti, specialmente croccante all'amarena, croccante della nonna, bacio di dama e panna cotta e pinoli.
12. Riva Reno (Milano e Brescia)
Devo dire che l'ultima volta che ci sono andata mi ha parecchio delusa, ma in altre occasioni non ho avuto da ridire. Qui consiglio contessa, leonardo e matilde, ma anche New York New York e Sweet Alabama.
Prossimamente vorrei provare anche i punti Lindt. In ogni caso, consiglio spassionato: nelle gelaterie-cioccolaterie (Venchi, Cioccolatitaliani, Lindt) evitate come la peste i gusti frutta. Lì sono esperti di cioccolato. Prendete quello.
E, ultima raccomandazione, in tanti dicono che i migliori gelati siano quelli dall'aspetto più bruttino, perché privi di conservanti. Secondo la mia esperienza, può essere vero ma anche no. Da Grom, Cioccolatitliani, Rivareno, La Romana, per esempio, tengono il gelato nei contenitori coperti, per non fargli prendere aria. E ci può stare. D'altra parte, ho gustato tantissimi ottimi gelati che erano una meraviglia anche per gli occhi. Diffiderei invece di quei composti che danno già l'idea di essere un ammasso di ghiaccio dalla vetrina. Non sono più genuini, solo più stantii.

Ecco, e adesso passiamo al terzo punto fondamentale. I gelati confezionati. La leggenda vuole che siano una schifezza, per via del processo di lavorazione industriale. Ma ovviamente è solo una leggenda. Spesso si dimentica  infatti che anche molte gelaterie artigianali, purtroppo, oggi usano preparati industriali, in genere buste, o montano il gelato con le macchine per fargli inglobare più aria e aumentarne quindi il volume.
Insomma, occorre togliersi il paraocchi.
Tra l'altro, non saranno goduriosi come quelli artigianali, ma i gelati confezionati hanno dalla loro la sicurezza dell'igiene e della sterilizzazione. Cosa che è molto più difficile testare se il gelato viene fatto a livello artigianale. Certo, tanto dipende dalla modalità di conservazione. Basta una partita tenuta troppo nel vagone aperto di un camion d'estate, o il freezer del bar non chiuso bene da un bambino, o il guasto nel banco di un supermercato, per deteriorare un prodotto. Se però il gelato artigianale lo si può trovare fresco in ogni stagione, con quello confezionato si rischia un po' di più, perché è difficile che i bar si riforniscano d'inverno. Ecco allora campeggiare tristi tristi nei freezer i rimasugli dell'estate. Non fate mai l'errore di acquistare un gelato confezionato in un bar tra ottobre e aprile. Al di là della scadenza che può essere riportata sulla confezione, non pensateci nemmeno. La cialda sarà molliccia, la crema ghiacciata. Cose brutte, insomma. Se proprio siete fan del gelato packaged, comprate le confezioni al supermercato, ma anche lì, optate per le marche più conosciute e vendute: non per nulla. Semplicemente, con quelle avrete maggiori garanzie che ci sia un riciclo anche d'inverno.
E quindi veniamo alla mia seconda classifica, appunto quella dei gelati industriali.

1. Cornetto Algida classico

2. Magnum Sandwich Algida


3. Magnum bianco Algida



4. Sansonì Sanson



5. Winner Taco Algida



Diciamo che questi sono i cinque intramontabili, poi potrei andare molto oltre, ma mi pare inutile, visto che alcuni sono in edizione limitata.

E adesso immagino proprio di avervi fatto venire voglia di scofanarvi un'intera gelateria. Beh, consolatevi: come diceva una persona di mia conoscenza, il gelato non può essere calorico, è freddo!


giovedì 20 marzo 2014

La felicità è contagiosa

Dato che oggi è la giornata della felicità, eccovi una ricerca interessante a riguardo.


Abbiamo una ragione in più per essere felici: rendere tali anche gli altri. La felicità si diffonde in maniera dinamica nelle reti sociali: lo dimostra lo studio del Framingham Heart Study, pubblicato dal British Medical Journal.
Dal 1983 al 2003, attraverso ripetute rilevazioni, 4.739 soggetti, denominati ego, hanno dichiarato il loro grado di felicità con la CES-D, la scala depressiva del Centro di studi epidemiologici. La CES-D si compone di 4 voci relative a come i partecipanti si sono sentiti nella settimana precedente all’esaminazione: «fiducioso nel futuro», «felice», «Mi sono goduto la vita», «Ho avvertito di valere quanto le altre persone». A ognuno di questi stati è stato assegnato un punteggio da 0 a 3 e tutti e quattro i risultati sono confluiti in un numero finale, da 0 a 12, ovvero dal minimo al massimo grado di felicità. Ogni ego è stato poi associato ad altri 18 soggetti, detti alter: madre, padre, una sorella, due fratelli, tre figli, due amici, cinque vicini e tre colleghi di lavoro.
Ed ecco che cosa ne è derivato. Più una persona è socialmente connessa più aumentano per lei le probabilità di essere felice e le persone felici tendono a instaurare relazioni reciproche. La centralità di un individuo nella sua rete locale è quindi il motore primario per la sua felicità futura, ma il meccanismo non è reversibile: una maggiore felicità non assicura una successiva centralità nella rete. La felicità si diffonde da un individuo all’altro, ma devono esserci prossimità fisica, vicinanza temporale e un grado di separazione limitato. Una persona che vive a circa 1,6 km di distanza ed è felice accresce del 25% la possibilità che un suo amico lo diventi. Effetti simili si sono visti in coniugi coresidenti (8%), fratelli e sorelle che vivono fino a 1,6 km di distanza (14%) e vicinato (34%). Il beneficio tende però a decadere nel corso del tempo: le probabilità per gli ego di essere felici diminuiscono dal 43 al 22% a seconda che i rispettivi alter esaminati lo siano stati nei sei mesi o nell’anno precedente. E non conta tanto la profondità del legame, quanto la frequentazione. Ecco perché sono più incidenti i rapporti con i vicini di casa rispetto a quelli con familiari e coniugi che vivono distanti.
Influisce anche il sesso: le donne sono tendenzialmente meno infelici degli uomini e i legami più potenti sono quelli omofili, cioè tra persone dello stesso genere. Il fattore più forte, tuttavia, è la direzionalità: hanno molta più rilevanza i rapporti amicali reciproci rispetto a quelli percepiti come tali solo da una delle due parti. Prova ne è che la felicità di un alter in una relazione mutuale accresce del 63% le possibilità dell’ego di essere felice in futuro, mentre lo stesso stato in un legame univoco determina un incremento solo del 12%.
Ma c’è un’altra buona notizia. Mentre la felicità è contagiosa, l’infelicità lo è meno: se una persona diventa felice accresce del 9% le probabilità che lo diventino anche i suoi contatti, ma se diventa infelice le possibilità che lo diventi anche chi la circonda scendono al 7% .

La felicità può quindi rientrare a pieno titolo nei criteri di determinazione della qualità della vita, inoltre azioni che la accrescono, come le misure a tutela della salute pubblica, potrebbero generare effetti a cascata, migliorando così l’efficacia e i costi degli interventi. Se infatti la malattia è una fonte di infelicità, fornire cure migliori a chi sta male accrescerebbe non solo la sua felicità ma anche quella di chi lo circonda, dando quindi maggiore dignità alle politiche sociali.


Il richiamo delle sirene

Funziona un po' come per Ulisse, l'eroe omerico che si fece legare a un palo per poter sentire le voci delle sirene senza caderne vittima. Solo che noi non possiamo farci legare a un palo. E nemmeno tapparci le orecchie. La tv, la radio, i giornali, il web ci passano sempre sotto il naso e loro però non cantano, gridano al pericolo, alla sciagura, alle catastrofi. E' il fascino dell'allarmismo. Premetto che non auspico a un sistema dell'informazione che filtri il mondo attraverso lenti rosa-shocking, ma nemmeno il  nero pare essere particolarmente utile.



Parliamo di economia. Se la ripresa è ancora timida, la crisi lancia sfrontata quelli che, si spera, siano i suoi ultimi colpi di coda: un tasso di disoccupazione in crescita, livelli occupazionali che stentano a decollare. Ma la situazione è davvero così buia? Senza dubbio l’ottimismo da noi non è mai stato di casa: urlare è più liberatorio che parlare. Ritornelli forse più conosciuti delle tabelline: siamo un popolo di bamboccioni, guidati da istituzioni corrotte; in Italia non c’è speranza per i giovani, meglio fuggire all’estero; la ripresa è solo una bugia, il lavoro non si trova.Eppure basterebbe analizzare i dati, pulirli dagli attributi clamorosi che tanto piacciono ai media, per vedere il panorama da un’altra prospettiva. Che, in altre parole, vuol dire mettere al bando i luoghi comuni. Per esempio, è vero che il tasso di disoccupazione è cresciuto nel 2013 e crescerà anche nel 2014, ma questa informazione va letta alla luce di un risveglio dell’economia: più persone cercano lavoro e, almeno per un primo periodo, la tendenza delle imprese è sfruttare le risorse interne, aumentando gli straordinari dei dipendenti e riducendo il ricorso alla cassa integrazione. Quanto alla cosiddetta disoccupazione giovanile, sarebbe utile delineare limiti più precisi, perché, se si considerano i disoccupati tra i 15 e i 24 anni, la quota è senza dubbio elevata, ma si tratta di soggetti nella maggior parte dei casi privi di specializzazione formativa o ancora studenti. L’università non serve più? Pare proprio di no, visto che il tasso di occupazione più elevato si colloca nella fascia dei laureati (75,7% su una media del 55,6%), che sono anche quelli con un minore livello d’inattività (18,2% nel 2013, contro il 65,2% di chi ha una licenza elementare o nessun titolo di studio e il 29,3% di chi possiede un diploma) e di disoccupazione (7,3% su una media del 12,2%).
E’ più facile essere scoraggiati che presentare proposte innovative, buttare la spugna piuttosto che sudare sui libri. E se non si hanno le idee chiare riguardo al futuro? Provare comunque, imboccare una strada, perché non fare nulla è peggio che fare qualcosa di sbagliato. Il problema in Italia è proprio questo: non ci piace rischiare. E’ così che firmiamo la nostra auto-condanna: sprofondare nelle sabbie mobili del pessimismo.

sabato 15 marzo 2014

Fiocchetti lilla


Se questo sabato fosse un colore, sarebbe il lilla. Che in fondo è una tinta opaca, a metà tra la tenerezza del rosa e la solennità del viola. Un colore che a me, personalmente, mette tristezza. Ma forse è giusto così. Non c’è molto da stare allegri parlando di disturbi alimentari. E il 15 marzo è proprio la giornata nazionale della lotta contro di essi.
Questo lilla, insomma, dà l’idea di spegnere qualcosa. L’ascolto. Il desiderio. La fame. Le relazioni. La vita. Sì, anche quella, perché di disturbi alimentari si muore: sono la prima causa di decesso per malattia psichica e oggi è l’anniversario della scomparsa di Giulia Tavilla, morta a 17 anni per bulimia.

Ma il problema sta a monte: non nella poca, ma nella cattiva informazione. Non è vero che di disturbi alimentari si parla poco, semmai se ne parla male. Tante critiche alla società della moda e ai media, alle passerelle e alle top model. Certo, daranno il loro contributo nocivo, ma una persona non si ammala di anoressia o di bulimia perché vuole sfilare per le griffe. Quasi sempre i modelli mortiferi sono molto più vicini. La compagna di banco, l’amica, la cugina, la sorella. Oppure non ci sono modelli, ma solo la ricerca estrema di un’identità. Detto ciò, sicuramente i media non aiutano. Perché? Perché quando parlano di disturbi alimentari adottano la stessa modalità usata per tutto il resto: spettacolarizzare. Quindi le storie che diventano notizia sono solo quelle di ragazze ridotte in condizioni da biafra, vedete la campagna che Oliviero Toscani realizzò qualche anno fa per Nolita. E poi la chiamano prevenzione? No, ha un altro nome: istigazione. Già, perché forse chi non ha una conoscenza sufficientemente approfondita di queste patologie non lo immagina (e a questo punto sarebbe utile domandarsi: perché sto raccontando qualcosa di cui non so?), ma chi è affetto da un disturbo dell’alimentazione non si sente mai abbastanza grave per essere curato. La cura è aiuto, ok? E’ sollevarsi dal fardello della penitenza o del castigo e tutte le scuse sono buone per non legittimarsi a imboccarla. Sia perché, almeno inizialmente, c’è un certo piacere masochistico nel perpetrare condotte distruttive sia perché il sintomo stesso diviene anestetico emotivo: non si avvertono più le gioie, ma nemmeno i dolori, e allora tornare a “sentire” fa estremamente paura.
Quindi: per favore, non pubblicate foto di ragazze con ossa in vista, dati numerici di pesi estremamente bassi, esempi di modalità autodistruttive. E se lo fate, non dite che è per aiutare chi soffre o potrebbe essere indotto ad ammalarsi di disturbi alimentari. Perché non è così. State solo facendo il vostro gioco, arricchendovi in fama o in denaro, solo che i fenomeni da baraccone, questa volta, non sono nani e ballerine ma scheletri ambulanti. E di certo le spese qualcuno le paga. Per esempio chi si confronterà con un ologramma di 20 kg e dirà: beh, se io ne peso 40, allora cavoli, sono grassa e non ho bisogno di mangiare di più. O chi dirà: se lei vomita 10 volte al giorno e io solo 3, posso ritenermi ancora sana.
Piuttosto che sbandierare numeri e immagini shock, spesso ritoccate, dite di come si finisce di vivere in un bagno, riverse su un water, tra schizzi di sangue. Dite come si muore smettendo un giorno di potersi infilare i pantaloni da sole, quello dopo di camminare e il successivo di tossire autonomamente. Ditelo che con l’anoressia e la bulimia, ma anche con le altre e infinite patologie alimentari, non si è solo scriccioli indifesi che suscitano tenerezza, ma anche mele marce, divorate dal verme dell’ossessione. Che gli amici ti stanno vicini, sì, ma poi si stancano. Che non esistono più affetti e vita sociale. Che l’unico desiderio è starsene rintanate sotto una coperta e non vedere nessuno. Che la vita diventa rinuncia e privazione. Che le mamme e i papà piangono. Che vivere in casa diventa un inferno. Che la mente è invasa solo da un pensiero: come e quanto (non) mangiare. Non c’è nient’altro.
E ditelo che si può stare molto male anche se fuori non si vede nulla, che spesso a essere più in pericolo sono proprio le persone normopeso, quelle che non danno nell’occhio, che appaiono quasi floride, ma che nascondono dentro l’inferno. E non si sentono nemmeno legittimate a dire: sto male. Perché hanno paura di non essere credute.
Un messaggio ai miei colleghi giornalisti, se non si era capito.



Passando però al concreto, ecco come l’Italia si tinge di lilla. Lo stivale riempito di fiocchetti, a simboleggiare una lotta che coinvolge sempre più persone, famiglie, associazioni e ospedali. Istituita da Stefano Tavilla, padre di Giulia, l’associazione Mi nutro di vita ha dato il via a una serie di iniziative nelle varie città italiane.
A Brescia ci sarà un aperitivo per raccogliere fondi che finanzieranno il Centro per i disturbi del comportamento alimentare di Gussago e l’associazione di volontariato Bucaneve. Una serata all’insegna dell’allegria, del divertimento, dello stare insieme e anche della sana informazione. Saranno infatti presenti, oltre ai medici del Centro di Gussago, diverse persone toccate da dca e disponibili a offrire la loro testimonianza. A contribuire anche l’estro culturale dei ragazzi di Officina 9, associazione no profit che sta spopolando nel bresciano. Il tutto in un contesto elegante ma confortevole, al Red App, locale di recentissima apertura in via Moretto 55. E non è un caso che il nuovo tipo di pirlo (a Brescia lo spritz si chiama così) proposto da Red App si chiami Red Kiss e sia disponibile in diverse varianti, che vanno dal dolce della pesca all’asprino del pompelmo. Un invito ad assaporare colori (il rosso e il lilla) e sapori della vita, usando la bocca non solo per mangiare e per bere, ma anche per baciare.

Insieme al cocktail sarà dato un fiocchetto lilla e, per chi lo volesse, materiale informativo sul tema. Insomma, se vi va di fare un salto stasera in via Moretto, al prezzo di un aperitivo – e io che sono un’esperta di spritz posso confermarne la bontà – avrete anche svolto una buona azione.