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domenica 20 aprile 2014

Veganhood, veganmood, veganwood

Lo so, è Pasqua, non Natale, quindi non dovrebbe forse valere la regola: siamo tutti più buoni. E infatti meglio così. Giusto perché, se dobbiamo farci venire le carie, tanto vale che siano colombe (quelle di pasta, canditi e mandorle) e uova di cioccolato a farcele venire. Tuttavia, proprio perché sono giorni di festa e ci penseranno prozie, nonni e cognati a mettere il becco in tante faccende che il buon senso denominerebbe “affari nostri” (dal come-sei-vestita al non-è-ora-che-ti-trovi-un-fidanzato al ti-preferivo-coi-capelli-corti al perché-non-mangi-la-trippa-che-ho-impiegato-cinque-giorni-a-cucinare), colgo l’occasione per riflettere su un tema che mi incuriosisce da un po’.
Un’opportuna premessa. Vivi e lascia vivere. Banale, certamente, ma non così scontata. Quanto meno per la maggior parte di noi. Perché, c’avete mai fatto caso? Siamo talmente abituati a considerare il nostro modus vivendi il modus vivendi che spesso giudichiamo, critichiamo, deridiamo quello altrui. No gente, così non va. Non si chiama libera opinione, ma mancanza di rispetto. Ecco allora che entro nel vivo dell’argomento. Il veganismo. Che c’entra? Vi starete chiedendo. Beh, partiamo dal presupposto che chi scrive non ha mai pensato né sta pensando di convertirsi a tale regime, adora carne, pesce e latticini e non rinuncerebbe mai a un maglione di lana. E, diciamolo pure, inizialmente si è trovata parecchio a disagio vedendo inondata la propria home di facebook da auguri pasquali che esortano a non uccidere gli animali. Ma come, il coniglio che mi piace tanto? E la faraona ripiena della mamma? Che male faccio? Insomma, questo per farvi capire che non è mia intenzione promuovere una campagna vegana e che sono io la prima a non avere una sensibilità così marcata verso gli animali da rinunciare – perché per me di rinuncia si tratterebbe – a uno stile di vita che per forza di cose comporta il sacrificio di qualche essere vivente. Ciò non toglie, comunque, l’esigenza di approfondire le ragioni e la motivazione di chi intraprende una simile scelta. E, proprio perché ho imparato che non è tutto bianco o nero, non tutto giusto o sbagliato, ammetto che ci sono alcuni principi a cui si ispirano i vegani che vorrei fare anche miei. Senza privarmi di nulla, per l’amor del cielo, ma semmai avvicinandomi a un modello di vita più sostenibile e sano. Infatti con veganhood, veganmood e veganwood (le ultime due, espressioni da me coniate) mi riferisco proprio a un ritorno alla natura, a uno stile di vita più rispettoso di essa, oltre che di noi stessi.



Il veganismo nasce dalla concezione che non sia necessario, oltre che costruttivo, restare immersi nel flusso della quotidianità senza chiedersi se si stia facendo tutto il possibile affinché questa quotidianità abbia un futuro. Bisogna aprire gli occhi. Il pianeta sopravvivrà se ci abbandoniamo allo spreco e al consumo di risorse scarse? Noi stessi arriveremo all’età dei nostri nonni se continuiamo a imbottirci di prodotti iper-trattati e sottoposti a processi chimici per coprirne la scarsa qualità? L’ecosistema non è un gioco a somma zero: mors tua vita mea. Non siamo come i cavernicoli, che se volevano sopravvivere dovevano uccidere le fiere e metterle sul fuoco. Ma specialmente: possiamo vivere, e meglio, anche senza quelle abitudini di consumo smodato che impoveriscono i nostri sensi, oltre che il nostro portafogli.
Appunto, non è una summa al veganismo, perché io stessa ritengo che si possa vivere in salute e nel rispetto degli altri esseri viventi pur facendo uso di elementi di origine animale. E adoro seitan, tofu e burger di soia, ma solo per una questione di gusto, tanto quanto mi piace una buona tagliata. Un vegano puro probabilmente storcerebbe il naso, perché si tratta di persone con un fortissimo senso etico, che hanno fatto una scelta. Ruotare di 360° il proprio stile di vita per allinearsi a un modello bio-compatibile. Perché essere vegani non significa solo bandire la carne, vuol dire che tutti, e dico tutti, gli elementi di origine animale vengono esclusi dalla propria dieta, alimentare e di consumo in genere. Per intenderci: niente pesce, uova e latticini, ma anche niente borse, vestiti e accessori in pelle, niente maglioni di lana, niente o pochissimi prodotti industriali. Ed è sul concetto di base che vorrei soffermarmi e invitarvi a fare altrettanto. Non necessariamente rinnegare ciò che deriva dagli animali, ma semmai ciò che proviene dallo sfruttamento di essi. Facciamo un esempio pratico: le uova. Mi sono sempre chiesta che male ci fosse nel consumare un prodotto che in fondo è inserito nel ciclo di vita: la gallina, per sua natura, depone le uova. Sì, ma c’è una differenza tra covatura naturale, che comporta un numero ristretto di uova in un determinato arco di tempo, e l’allevamento forzato delle galline, in cui queste vengono stimolate, anche attraverso mangimi e procedimenti chimici che poi ne deteriorano inevitabilmente il frutto, a deporre un numero di uova elevato all’ennesima potenza. Il quadrato dell’industria.
Al tempo stesso, forse un po’ ingenuamente, mi sono sempre sentita un corpore sano (sulla mens continuo a riservarmi il beneficio del dubbio) nel mio beveraggio mattutino di latte o nell’analogo consumo di yogurt. Tanto calcio per le ossa, proteine per i muscoli, fibre per l’intestino, zuccheri semplici per il cervello, liquidi per i reni. Una bomba, insomma. Ovviamente – e qui si spiega la mia reticenza alla mens sana – la mia pia illusione si è sempre avvalorata di un quadretto idillico pastorale ad hoc. L’allegra mucca che scampanella felice, munta dal nonno di Heidi nella pittoresca baita della Selva Nera. Non immaginavo nemmeno lontanamente che per produrre il fresco latte di x marca a bovini e suini venissero introdotte sonde nel ventre per spremere più latte, per togliere il caglio, per pastorizzare il tutto. Cioè, pastorizzato deriva da pastore, no? E allora non può essere negativo. Invece sì.
E la carne argentina. O i deliziosi spezzatini messicani. Una prelibatezza. Magari non farà male, quanto meno non se ne consumi una porzione quella sera festeggiando al ristorante o ne compri un po’ dal macellaio di fiducia. Ma di certo il danno esiste, non lo si può negare. Avete presente tutte le campagne che sosteniamo e condividiamo contro il disboscamento, l’effetto serra e compagnia bella? Ecco, sappiate che per allevare intensivamente i bovini in centro e sud America vengono abbattuti ettari ed ettari di verde. Insomma, non ci mangiamo solo il fegato di vitello, ma anche il polmone del pianeta.



Tutte queste note informative non vogliono essere un incentivo a smettere di consumare carne e derivati, ma a farlo in maniera più consapevole, preferendo, dove è possibile, prodotti a kilometro zero, provenienti da realtà piccole, quindi non soggetti allo sfruttamento intensivo degli animali e al trattamento chimico che comporta la lavorazione industriale. So che non è facile: chi vive in città, specialmente nelle metropoli, non può andare dal contadino a prendere la frutta e la verdura, non ha l’allevatore di fiducia che gli vende le uova e il latte e di certo non ha il tempo di cucirsi i maglioni con lana appositamente scelta. Ma non è nemmeno obbligato a girare come un cieco nei supermercati e ficcare nel carrello i primi prodotti messi alla sua altezza sugli scaffali. Non ci si deve per forza fiondare al Mc Donald’s in pausa pranzo, perché tanto la carne negli hamburger è di qualità (e infatti costa 2€ perché il Mc è un istituto di carità, non una multinazionale), il grana è padano doc (certamente, infatti, Mc Donald’s si rifornirà in esclusiva dai produttori romagnoli, non da quelli statunitensi o ungheresi che vendono il Parmisan a un terzo del prezzo italiano) e il pane rustico (la dolcezza sarà forse data per osmosi dalle barbabietole con cui è fatto il ketchup’s e i semi di sesamo saranno naturalmente incorporati).



Insomma, se è vero che occhio non vede, cuore non duole, sarebbe forse il caso di indossare un paio di occhiali. Quelli della consapevolezza. Semplici gesti, come leggere le etichette dei prodotti e scegliere quelli con la lista di ingredienti meno lunga. Riabituarsi al consumo di cibi fatti in casa o, quanto meno, non confezionati. Non usare l’automobile se si devono percorrere 200 metri, fare un giro al mercato anziché al distributore automatico o nel megastore. Convincerci che si può fare la doccia anche senza far scendere le cascate del Niagara o lavarsi i denti e spegnere il getto mentre li si spazzola.
D’altronde una decina di anni fa solo la raccolta differenziata ci sembrava l’ultima frontiera dell’ecologia. Chi avrebbe mai pensato che sarebbe divenuta un’abitudine più o meno consolidata? E lo stesso dicasi per le auto elettriche.  O  per i sacchetti di plastica biodegradabile, che abbiamo accolto con ghigni schifati (non solo per il loro odore di funghi essiccati, ma anche perché non potevamo uscire dal supermercato riempiendo le sportine fino all’orlo, pena la rottura di queste). Anche i pannelli solari stanno diventando una realtà sempre più diffusa e, se avete fatto un giro al Salone del Mobile e al Fuori Salone la scorsa settimana, vi sarete senza dubbio accorti che uno dei temi dominanti era proprio l’ecologia, la crescita sostenibile. Anche nel design, anche nella moda. Certo, purché non sia solo una moda. Il bio, l’ecologia, il veganismo. Per adesso, comunque, male non è, perché se verde è trendy, avremo almeno qualche vaga speranza di coinvolgere anche chi agisce mosso dalla fascinazione e non dalla sensibilità.




Per chiudere il cerchio, mi ricollego al discorso iniziale: se vi troverete con un commensale vegano a tavola, quest’oggi, per favore evitate di guardarlo come un marziano, chiedendogli, magari con la bocca masticante agnello, da dove la prende la vitamina B12 o come fa a star bene con le sue verdure. Saranno affari suoi. Al tempo stesso, si spera che l’amico green non guardi gli altri come alieni, facendoli sentire in colpa a ogni boccone di selvaggina che deglutiscono. Saranno affari loro.