mercoledì 16 aprile 2014

Babelfish

Gino Pitaro, Edizioni Ensemble




Un pesce può anche essere fuor d’acqua, ma respirare lo stesso. Accade a Pamplona. A Ginevra. A Roma. A Londra. A Singapore. In Costa Azzurra. E’ il pesce di Babele, quello che vive ovunque, ma senza mai abitarci davvero. E’ italiano, di Vibo Valentia, ma il suo nome si declina in forme ibride, che ne confondono l’appartenenza: Rino, Chris, Ivan, Francesco o anche solo “io”. Sono queste le voci che danno vita ai protagonisti delle storie di Babelfish. Punti di vista eclettici su un mondo tanto dispersivo quanto costante, fatto di persone e di cose che scorrono nel flusso del tempo e dello spazio. E allora essere in Francia, in Italia, in Malesia o altrove poco cambia nell’intimità psichica di personaggi votati al nomadismo esistenziale. Sono i flâneur dei giorni nostri: individui che vagano per strade e luoghi di città straniere, catturando immagini e particolari che restano invece invisibili agli occhi degli abitanti integrati. C’è infatti uno stacco, un salto che interrompe il flusso della concretezza quotidiana e ne trasporta frammenti nel mondo interiore dei personaggi. E’ lì che vivono realmente fatti e situazioni. Perché, nonostante Babelfish sia un affresco multietnico del XXI secolo, il sipario narrativo si alza e si abbassa sulla psiche dei protagonisti, zingari calabresi che devono alla loro estraneità dal contesto in cui si trovano la raffinatezza esacerbata con cui percepiscono l’intorno.
Il carattere volatile e labirintico, comunque, non avvolge solo le atmosfere dei singoli plot, ma impregna anche la struttura narrativa: una raccolta  di sei storie tra loro disgiunte e parallele, sia in termini cronologici che spaziali e tematici. Oltre all’analoga provenienza dei protagonisti, però, e al fatto che siano tutti maschi e tutti trapiantati in un altrove più o meno distante dalla loro terra natia, c’è un filo rosso che tesse questo patchwork esistenziale. L’incompiutezza. Il gioco capriccioso del caso, che tira le fila dei destini, aprendo e chiudendo le storie a suo piacimento. L’inizio dei racconti è sempre in medias res e il lettore viene così catapultato nel fare del personaggio, in un momento e in uno spazio specifici della sua vita. Nella maggior parte dei casi si parte da un pensiero, a conferma del modello intimistico, ma la narrazione è sempre onnisciente, con il punto di vista al tempo stesso interno ed esterno al protagonista. Solo in un caso viene usata la prima persona, ma anche in quella circostanza il narratore sviluppa la trama mentre parla a tu per tu con un amico morto e, ripercorrendo gli episodi in cui i due hanno interagito, si fa portavoce non solo dei suoi sentimenti, ma anche di quelli del compagno.
E così, senza nemmeno accorgercene, ci troviamo immersi in una storia, ne assorbiamo avidi l’evoluzione, magari assecondando le piroette del narratore, che ci porta in lungo e in largo per i luoghi e gli anni dei personaggi, e poi scopriamo che è finita così. Senza un “e vissero tutti felici o scontenti”. Come se chi scrive ci avesse giocato uno scherzo e noi avessimo abboccato al primo colpo. Ma Babelfish è il pesce di Babele, non quello d’aprile, e il tranello narrativo è un buon espediente per tenere vivo il ritmo della lettura, per non tentarci a saltare nemmeno una riga delle 127 pagine. Avremmo voluto saperne di più su Rino? Ci sarebbe piaciuto capire che ne è stato di Chris o di Ivan? Non abbiamo tempo per pensarci, perché, mentre incassiamo il colpo del distacco da una storia, arriva subito quella successiva, che ci trasporta verso ben altri lidi.
Lo stile è quello di chi non teme qualche arcaismo: un vi al posto di un ci, un pronome egli o un essa rispolverati da quei cassetti letterari che sembravano ormai chiusi per sempre. Non siamo più abituati a vederli stampati né tanto meno a sentirli, perciò in certi frangenti la concentrazione tematica cede il passo all’analisi testuale: ci fermiamo, interrogandoci sul senso di espressioni e parole che credevamo di aver abbandonato per sempre sui libri di scuola. Ma possiamo perdonare questa interruzione grazie alla capacità dell’autore di descrivere situazioni e sentimenti in modo tale che, mentre li leggiamo, ci viene da dire: «ha ragione, è proprio così!». E questo è garantito solo da quella confidenza con la lingua che permette a uno scrittore di sfruttarne appieno le potenzialità, senza però cadere nell’abuso quantitativo o qualitativo.

Un pesce, quello di Babele, che vale quindi la pena di scegliere nell’oceano ormai popolatissimo ma non sempre altrettanto appagante, della letteratura contemporanea.

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