domenica 6 aprile 2014

Fino all'ultimo scatto

Vi svelo un segreto. Potete far passare anche mezz'ora senza scattare una foto. Persino un giorno intero. O una settimana. Il corpo prosegue i suoi ritmi vitali, la fisiologia continua il suo corso. Il sole sorge e tramonta lo stesso. So che la cosa pare impossibile a tutti coloro che intasano il web con selfie (autoscatti), foodie (foto di cibo), clothesie (foto di capi d'abbigliamento) e ora anche #aftersex (foto post-sesso), perché non sia mai che agli amici sfugga la nostra ultima performance focosa. Insomma, se prima c'era la sigaretta, adesso c'è l'iphone, che forse è meno dannoso per la salute fisica, ma, per quanto riguarda il rapporto con il partner, beh, non ne sarei così certa.
Ci sono tanti aspetti che entrano in gioco nell'utilizzo smodato della fotografia pubblicata sui social network. Innanzitutto, possiamo ancora chiamarla fotografia? O forse sarebbe più opportuno lasciare questa denominazione a immagini che possiedano un minimo di emotività e non siano solo il frutto di gesti compulsivi?
E' difficile dare una risposta, perché, se è vero che negli scatti rubati al flusso del quotidiano con gli smartphone e ingordamente pubblicati all'istante sul web mancano la preziosità dell'atto studiato e sentito, la sacralità della ricerca creativa e l'emozione della posa o la fortuna dell'evento immortalato, se è vero che manca tutto questo, è pur vero che non si possono mettere sullo stesso piano i prodotti di mezzi e finalità diversi. Mentre infatti la fotografia analogica o digitale realizzata con una fotocamera ha solitamente la funzione di raccontare e di imprigionare qualcosa, sia esso un ricordo, un'emozione o il semplice prodigio, lo scatto dagli smartphone serve per mostrare, mostrare e mostrare. Ma anche per condividere. Non a caso, se le fotografie tradizionali si conservano quasi gelosamente, nell'album di famiglia, nel book del maestro o più recentemente in un dvd, selfie&co non aspettano altro che essere rubati, diffusi, resi noti. Cercano la spettacolarità, ma non hanno nulla di sacrale, perché sono inflazionati. Però hanno una funzione: appunto quella di comunicare. Sono un po' l'equivalente degli sms in rapporto alla lettera. In una società di nativi digitali, di occhi educati all'immagine in pixel e di diete mediatiche iper-attive ma mai sature, ognuno usa gli strumenti di comunicazione che gli sono familiari. Non necessariamente più giusti o sbagliati. Per esempio, i nostri nonni ci hanno messo un po', a loro tempo, per imparare come si usa un telecomando e di certo la maggior parte di loro non trova molto simpatici computer e telefoni cellulari, ma...avete mai visto le loro grafie? L'eleganza e la pazienza con cui delineano ogni lettera? Beh, è la stessa praticità che noi abbiamo quando scattiamo un selfie al nostro bel faccione e spigliatissimi lo postiamo su Facebook e Instagram.




Molti miei colleghi non sono troppo contenti della prodezza tecnologica che caratterizza le nuove generazioni. Non parlo dell'epico scontro tra apocalittici e integrati. Quelli erano gli anni 60 e Umberto Eco si riferiva alla cultura di massa. La preoccupazione degli addetti al settore era semmai per la tutela del pubblico-lettore e della sua coscienza, mentre oggi i timori sono altri e si rivolgono al futuro di una professione, quella degli specialisti nella comunicazione, che si profila sempre più a rischio. Perché il video lo gira anche mio cugino Pinco con il telefonino. E pure mia sorella Pallina può scattare una foto e mostrare qualcosa all'umanità. Persino il mio ragazzo Fortunato fa cronaca attraverso il suo blog. Insomma, pare che la mia unica sicurezza sia quella di non essere preda futura della crisi del mercato immobiliare: il peggio che potrà accadermi sarà fare a botte con qualche barbone per il posto sotto un ponte. E, vista la mia mole, forse dovrei comunque preoccuparmi.
Ma sto divagando. Eravamo partiti dai selfie. Che comunque c'entrano eccome, anche con l'aura dei reporter. Se infatti non sento ancora di avere il destino segnato, è proprio perché c'è una differenza che separa il giornalista dal giornalaio. Ed è la stessa che si interpone tra la comunicazione come risposta al bisogno di apprendere e ragionare e la semplice diffusione delle informazioni. Il medesimo dislivello lo abbiamo fra una foto realizzata da un professionista che sta ore a meditare luce e angolatura giuste, la polaroid di famiglia o in comitiva, dove tutti si mettono in posa al momento sbagliato, e lo scatto che la tredicenne fa di se stessa davanti allo specchio o al sushi che ha nel piatto. Sia chiaro: quella appena citata non è una scala di valori. Semmai di funzioni.
La comunicazione è lo specchio della società che la produce, forse per questo mi interessa tanto. E quella di oggi è improntata sul fai-da-te. A volte diverte, alte annoia, altre ancora incuriosisce.


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