martedì 8 aprile 2014

Il magico mondo della finanza

Vi sembrerà strano, ma pure le donne hanno capito che le borse non sono solo quelle che si mettono a tracolla e che ci fanno impazzire davanti alle vetrine. Insomma, c'è chi, come la sottoscritta, è particolarmente affascinata dai mercati finanziari. E da quelli che ci lavorano.


Per capire come mai Milano venga definita una metropoli, bisogna andare in piazza Aulenti. Sembra di non essere in Italia. Ma a New York. O a Londra. Grattacieli vetrati, ampie fontane raso terra, ventiquattrore al posto dei piccioni. Sede Unicredit. Entrando nella torre 9, passati i controlli di sicurezza, un badge apre, almeno fisicamente, le porte del mondo dei mercati finanziari. Sei camere di contrattazione, infiniti uffici che gestiscono ogni aspetto delle reti italiane, 4.000 addetti ai lavori. L’istituto di credito milanese ha appena completato il trasferimento dell’intero comparto nella sede in zona Garibaldi. Sono state incorporate 26 filiali, prima sparse nell’hinterland, al fine di ottimizzare il lavoro e la comunicazione della banca. Una vera e propria cittadella del denaro. Denaro invisibile, che fluttua e cambia il suo valore in tempo reale, concretizzato solo dai numeri sui quattro, cinque, sei monitor che riempiono le scrivanie dei manager, tutti rigorosamente in camicia bianca.
«Pronto, hallo?»
«Uno stacco a mezzo!»
«Stacca a mezzo, Sergio!»
Spezzoni di conversazioni telefoniche, il cui tono frenetico riecheggia nell’open space della sala di contrattazione. Qui vengono negoziate le sorti finanziarie dei mercati. Lo fanno i sales, che gestiscono gli interessi dei clienti, e i traders, che monitorano le reti della banca. C’è la zona execution, quella di contrattazione sui mercati, e l’area production, in cui vengono pensati, strutturati e realizzati i prodotti finanziari di Unicredit. La struttura si ripete uguale nelle varie sale, che si differenziano principalmente per le reti, italiane o straniere, e i clienti, piccole o grandi aziende, a cui afferiscono. Un’attività, quella del brokeraggio, che genera dai 15 ai 20 miliardi l’anno. Specializzazione, numero di clienti, rapidità del servizio e capillarità delle reti sono gli indici che determinano la buona o la cattiva qualità degli operatori di mercato.
Swot, swap, future: non è solo la moneta a inflazionarsi, ma anche la lingua inglese e le sigle. Altro fattore che confonde l’orientamento geografico del visitatore. Ma che siamo in Unicredit lo si può intuire dai colori dell’arredamento: il bianco e il rosso del mobilio, unito al nero dei computer. Le stesse tinte di quella carta magnetica tanto nota ai clienti della banca. I clienti, appunto: il singolo cittadino, la grande azienda, lo Stato. Soggetti che si portano appresso esigenze e interessi diversi, talvolta contrastanti. Tutti però hanno a che fare ogni volta con una variabile determinante: il rischio. E’ un circolo, virtuoso o vizioso a seconda dei punti di vista: più alto viene percepito, meno si tende a rischiare, ma meno si rischia meno i mercati sono dinamici, con influssi negativi sull’economia. D’altra parte, maggiore è la propensione all’avventura finanziaria, più sale l’astrazione di valore del capitale, con il pericolo di generare effetti deleteri, come la vicenda dei sub-prime. In pratica, il rischio era diventato entità talmente eterea per gli azionisti e per gli operatori dei mercati finanziari che si era generata l’illusione della sua inesistenza. Gli investimenti di tanti e i beni di tantissimi galleggiavano all’interno di una bolla speculativa in continua espansione. Finché questa bolla è scoppiata e con essa il valore dell’immobiliare, che ha determinato, per effetto domino, stragi economiche su tutti i mercati, sia a livello settoriale che geografico.



Tanto è cambiato da quel 2008, che pare già lontanissimo. Si sono trasformate in primis le abitudini di consumo dei cittadini, ma anche la percezione degli investitori, oggi forse più ancorati alla concretezza. Il risparmio, visto come la palla al piede del commercio e della ripresa economica, è stato invece l’airbag di molte famiglie, specialmente italiane, sopravvissute alla crisi grazie ai soldi messi da parte nel corso di una vita e alle abitudini oculate che caratterizzano la nostra nazione. Eppure negli ultimi dieci anni il non speso è stato ben poco, perché poco è stato in generale il denaro e alti, rispetto al tenore delle buste paga, i prezzi. Questo anche in Italia, che rimane comunque il bengodi degli istituti creditizi stranieri, attirati dalla nostra forte propensione al risparmio.
In un simile panorama si staglia la nuova reputazione delle banche, che hanno la fama di cacciatori in una prateria di agnelli. Tale è l’idea che piace divulgare, soprattutto a quella politica che pure ha contribuito, con la dilatazione del debito pubblico, ad aggravare la crisi economica. Eppure le banche sono esse stesse imprese, non enti di carità. E come soggetti economici vanno trattati: non si può obbligare un soggetto a svolgere un’attività che gli generi perdite. Di conseguenza, anche gli istituti creditizi possono e dovrebbero valutare l’affidabilità finanziaria dei loro clienti, la capacità che questi hanno di risanare i debiti. Ciò a dispetto anche delle lamentele sull’impossibilità di piccoli e medi imprenditori di accedere al credito.
E così riecheggia quella parola. Capitale. Non il Capitale di Marx, figlio indiscusso dell’economia moderna. Semmai il Capitale Umano. Sì, quello di Stephen Amidon e di Virzì. Perché in fondo non sono solo le compagnie assicurative a calcolare il valore prodotto dalla vita di un uomo. Forse lo fanno anche quelli che investono per mandare il figlio all’università. O per comprarsi in futuro la villa con piscina. Un po’ come i protagonisti del romanzo e del film, che, pur traslati dall’America all’Italia, sono sempre mossi da quel fattore imprendibile e capriccioso che è il rischio.





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