martedì 2 settembre 2014

Attaccami, insultami…ma parla di me

Mai sentito parlare di Diego Diaz Marin? Quasi sicuramente no, altrimenti non avrebbe avuto bisogno di fare quel che ha fatto.
E' il motto dei vip, o meglio, degli aspiranti tali: non importa come, importa che si parli di me. E allora parliamone pure.
Diego Diaz Marin è un fotografo andaluso che lavora per la rivista di moda Harper's Bazar e che ha messo il suo estro creativo al servizio di vari brand, anche molto noti. Cavalli, Acquazzurra e Schield, giusto per fare qualche nome.
Negli ultimi mesi la sua fama si è espansa oltre i confini della nicchia fashion-addicted, con discussioni scoppiettanti, polemiche e anche una bella denuncia. La colata di miele che ha attirato il vespaio è stata la campagna pubblicitaria autunno/inverno 2014-2015 per Schield gioielli. 
Titolo: "Disorder Sisters".


Diverse associazioni per la lotta contro i disturbi alimentari hanno messo in allarme AgCom (Autorità garante per la comunicazione): quello non è uno spot di gioielli, ma un inno alla bulimia. Non deve essere diffuso.
Marin è stato denunciato. L'offesa di queste immagini rapaci non è solo al buon costume e alla sensibilità, ma anche e specialmente alla salute, per il messaggio che bisbiglia infimamente. Schield è un marchio di gioielli che si colloca nelle fasce alte del mercato. Roba da ricchi. Non tutti se lo possono permettere. E le due androgine fanciulle hanno quel velo etereo che rende la loro inquietudine distruttiva quasi affascinante. Per equazione: i disordini alimentari e i disturbi psichiatrici più che malattie mortali paiono tenenze chic. Roba da ricchi, appunto.
La replica è stata talmente ingenua da destare il sospetto che all'interessato non importasse molto difendersi: <<Non era assolutamente mia intenzione inneggiare alla bulimia>> (e infatti questo si era capito benissimo, lo scopo era usare la bulimia per scatenare la polemica) <<Volevo solo raccontare la storia di due sorelle che fanno giochi pericolosi tra loro>> (Pericolosi, appunto. Ma quali giochi? Non hanno forse un nome? E specialmente: mettersi le dita in bocca ed essere spettrali voi lo chiamereste "gioco"?).
Forse voleva imitare la mossa furbetta di Oliviero Toscani, che nel 2007, con la campagna "No anorexia, Nolita" tappezzò le città con la gigantografia mortifera di Isabelle Caro, modella belga morta tre anni dopo per anoressia. 


Già in quel caso non ci voleva nemmeno un QI medio per capire che l'intento era ben lontano dalla sensibilizzazione verso i rischi dei disturbi alimentari. Tant'è vero che anche allora i cartelloni furono presto rimossi. Non prima di aver soffiato sul falò dell'indignazione, ovviamente non per spegnerlo, ma per aizzarlo. Non prima di aver dato nelle mani di una donna malata la ragione per rimanere tale (d'altronde l'anoressia l'aveva resa famosa in tutto il mondo). Non prima di aver più o meno subliminalmente incitato all'emulazione migliaia di soggetti già sensibili al tema. Non prima, guarda un po', di aver rimpinguato il conto in banca di Oliviero.
Non è stata né la prima né l'ultima volta che Toscani se n'è uscito con le sue zingarate: schiaffi al decoro e alla sensibilità che sarebbe troppo generoso chiamare provocazioni. Ricordiamo tutti il bacio tra la suora e il prete per Benetton, così come sta circolando proprio in questi giorni, su tutti i media, la campagna di Fratelli d'Italia contro le adozioni gay. 


Il fotografo ha gridato allo scippo, accusando il movimento politico di aver indebitamente usato una sua fotografia. Ammettiamo anche che Toscani non fosse d'accordo. Che, poverino, non sapesse l'uso che sarebbe stato fatto del suo scatto. Resta la concretezza dell'oggetto incriminato: un'immagine con due coppie omosessuali, ritratte con il volto losco mentre sembrano contendersi un tenerissimo neonato. Oliviero non ha negato di averla scattata. Photoshop non arriva fino a questo punto. E comunque ammetterà anche lui che è difficile credere che i responsabili della comunicazione di FdI siano talmente sprovveduti da usare in una campagna del genere una fotografia d'autore senza il consenso dello stesso.
Insomma, perdonatemi se mi sorge il dubbio che Toscani non sia poi tanto dispiaciuto che in questi giorni si parli tanto della faccenda.
Sulla stessa scia, ma con la responsabilità della ditta produttrice, si colloca lo spot per la linea di vestiti Pakkiano, della Ghiaia Tonon di Motta di Livenza, un'azienda di abbigliamento nel trevigiano. "Salvata da morte certa" il titolo del video: una donna, in chador nero, si prepara a essere lapidata da alcuni uomini musulmani, ma all'improvviso arriva un messaggero: <<Lei veste Pakkiano>>, grida. Gli uomini  lasciano cadere a terra le pietre e la condannata si toglie il velo per mostrarsi in realtà ragazza bionda dai tratti nordici, con una t-shirt dalla scritta:"Sono ancora vergine".


Voleva forse essere un'ammiccamento alla difficile convivenza tra il Veneto leghista e la comunità musulmana? Un non-si-sa-di-che-utilità richiamo ai conflitti arabo israeliani che stanno insanguinando il Medio Oriente? Chi lo sa. Di fatto, il video, che sta raccogliendo migliaia di visualizzazioni sul web, ha innalzato un coro unanime di proteste contro la strumentalizzazione religiosa a scopo pubblicitario.
Fiato alla bocca, volume al portafogli. Una lezione ormai nota allo spagnolo Marin, già piuttosto incline all'aggressività iconica, come dimostrano i servizi passati per Schield (2012), dove l'allusione alla tossicodipendenza è quanto meno lineare:


e "Psichotic love" per Roberto Cavalli (2013).


Insomma, questione di tecnica affinata nel tempo. Per raggiungere uno scopo preciso. Appunto la polemica scatenata dalla campagna Schield 2014-2015. Infatti, sebbene probabilmente non vedremo mai Disorder Sisters sui muri urbani, sulle riviste o nei banner, adesso tutti sappiamo chi è Diego Diaz Marin. 

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