lunedì 29 settembre 2014

Arrivano i pagliacci

Per fortuna alla fine arrivano sempre. Per fortuna, dopo il numero dei trapezisti, quello in cui trattieni il fiato e ti mangi le pellicine attorno alle unghie, cercando di non affogare nella tua stessa paura, arriva sempre lo show dei pagliacci. Arriva un momento che rimedierà in qualche modo la catastrofe (se uno dei trapezisti dovesse cadere e sfracellarsi al suolo, per esempio). E se la catastrofe non avviene, rimane solo il momento da attendere mentre soffri, il pensiero felice di Peter Pan, l'altro punto in cui guardare mentre ti prelevano il sangue.
La storia dei pagliacci, comunque, non me la sono inventata io. L'ha fatto Chiara Gamberale nel suo libro Arrivano i pagliacci.


Appunto, direte voi.
L'ho comprato perché mi sono detta: finalmente un titolo come si deve. Perché mi piace la parola pagliaccio, che ti riempie la bocca, un po' come il nome Carlotta, che se ci pensi mica è tanto bello (deriva da Carlo e a me, personalmente, il nome Carlo sa di uomo di mezza età che fa l'avvocato e tradisce la moglie e il nome Carla di donna a cui i genitori non volevano troppo bene). Anche la parola pagliaccio potrebbe essere un dispregiativo di paglia al maschile. Ma pagliacci, al plurale, è più facile da pronunciare e non fa venire in mente It.


Ma dichiariamo anche lo smodato egocentrismo. Seguo Chiara Gamberale come autrice. E l'interesse deriva da alcuni tratti biografici - non solo il nome, ma anche - che ci accomunano. E per fortuna mi sta simpatica, altrimenti immaginate che brutto pensare al mio nome e associarlo non solo all'immagine in fondo stoicamente ok che ognuno si fa di sé, ma anche a una persona sgradevole. Débâcle.
Insomma l'ho comprato per una serie di buoni motivi. E l'ho letto per nessuno in particolare, se non per il fatto che non riuscivo a staccarmici. Mi starete intimamente implorando di risparmiarvi la scontata teoria secondo cui un romanzo vale solo se non riesci a mollarlo, solo se lasci tutto da parte per sapere come va a finire. No, non sono d'accordo. Ci sono libri che ti danno qualcos'altro. Per esempio, per favore, non ditemi che Anna Karenjna o i Buddenbrook ve li siete letti tutti d'un fiato. O I Promessi Sposi, mettiamo. Eppure direste che non hanno valore? A me certe volte tornano in mente le esclamazioni dei Bravi o di Don Abbondio e rido da sola. O mi immagino le feste di Natale a casa Buddenbrook e sogno un po'. E se ripenso alla settimana in cui ho letto Anna Karenjna (11-18 agosto 2012, Porto Ottiolu, Sardegna), credetemi non mi vengono in mente falò sulla spiaggia con gli amici a tarda notte o gite in barca o altre cose accorpabili nel set dei ricordi felici. Anna Karenjna l'ho letto nel disperato tentativo di portare la mente altrove e di fermare il corpo. E un libro serve anche a questo, no? A salvarti un poco dalla disperazione.
Stessa cosa con la saga di Harry Potter, che puoi leggere la prima volta per sapere come va a finire, ma la seconda e quelle successive, come per tutte le storie, lo fai per trovare altro: una compagnia rassicurante, particolari che non ricordavi, la smentita o la conferma della posizione del libro nel tuo indice di gradimento. Cose così, sicuramente lontane dalla foga narrativa. Lontanissime dall'originalità dell'impavido lettore e della sete di conoscenza.


Ero partita, comunque, dal romanzo della Gamberale. Sì, come tutte le penne impazzite, inizio con un'idea e uno scopo e mi perdo nell'impacchettare il messaggio. Non abbiatene male, faccio così anche durante le chiacchierate con gli amici, o le confidenze intime con mia sorella, che la gente alla fine si altera, perché si sente un tantino presa per i fondelli. Come quelli che ti portano un pacco regalo enorme e poi ti fanno scartare a matrioska mill'un scatole e scatoline e poi alla fine il regalo magari nemmeno è all'interno della confezione iniziale, ma in un luogo suggerito da un rebus su un bigliettino all'interno del pacco più piccolo. 
Di solito, però, al punto c'arrivo.
Infatti adesso comincio a raccontarvi, per esempio, del perché mi è piaciuta Allegra Lunare, la protagonista di Arrivano i pagliacci. In primo luogo, non vi sembrerà un granché come motivazione, ma il suo nome mi ha ricordato quelle persone strane, tipo folletti ubriachi in un mondo di gnomi da giardino. Come Luna Lovegood, che in Harry Potter e l'ordine della fenice, dopo aver rassicurato Harry sul fatto che non è pazzo a vedere i Thestral (cavalli neri scheletrici, che nessuno vede tranne chi si è trovato a tu per tu con la morte), si mette a parlare del budino al cioccolato.


Ero partita prevenuta su Allegra. Il fatto che il suo film preferito fosse Dirty Dancing mi lasciava perplessa, perché ecco, mi sa di gusto un po' retrò, che vuole però sembrare semplice e originale al tempo stesso. Una cosa quasi radical-chic. Poi mi son fatta due conti e ho pensato che, se Allegra è nata nel 1980, Dirty Dancing sta a lei come Titanic sta a me (1988). Non è un commerciale finto, che sarebbe stato peggio della antipaticissima nicchia.
Costruire protagonisti imperfetti e riuscire ad amarli profondamente è sempre una delle difficoltà più grandi. Perché significa dare vita e non vivere un personaggio. Fare il tifo per lui senza essere lui. Solidarietà e non identificazione. In definitiva: biografia senza il prefisso auto. E non è facile, credetemi, perché per portare avanti una storia, inevitabilmente bisogna attingere dall'esperienza personale. Puoi documentarti quanto vuoi, ma il vocabolario delle emozioni devi averlo scritto tu. E quindi il rischio è di creare protagonisti-statue-greche: perfetti, ma inveri. Non difettanti ma difettosi. Terribilmente insopportabili, tranne a te che scrivi e che ti senti loro, ti senti che se il romanzo dovesse essere una pièce teatrale o un film, la parte del(la) perfettissimo/a sarebbe la tua. E allora così non vale.
Il rischio però è anche quello di cadere nell'eccesso opposto. Cioè di prendere le distanze da tutto e da tutti e quindi scrivere un racconto in cui l'autore è solo ed esclusivamente narratore. E è un narratore giudicante e impietoso con i personaggi. Tipo Manzoni, ma ok Manzoni se lo poteva permettere, io mica tanto. Da qui, il passo per arrivare al moralismo è davvero più corto di quelli che facevo al liceo quando andavo in bagno durante le lezioni e volevo ritardare il più possibile il rientro in classe.
Invece allegra è tonda, non nel senso fisico, perché per fortuna non si parla del suo aspetto esteriore se non di "capelli castani e occhi verdi-marroni, che però sulla carta d'identità ha fatto scrivere solo verdi. E altezza 1,69 m". Dico per fortuna perché uno avrà pure il diritto di immaginarsela come vuole, no? E specialmente di non aver a che fare con lo stereotipo della ragazza cicciona che tutti prendono in giro ma che alla fine ha successo comunque e la congiunzione avversativa si potrebbe anche levare perché di solito quando arriva al raggiungimento della felicità è anche snella, visto che le sventure prima affrontate l'hanno smagrita senza bisogno di diete. (E tante grazie.) Oppure, peggio ancora: la ragazza magra come un chiodo ma complessata per questo. (Poverina eh). Magari presa in giro per i suoi capelli rosso ramato. (Guarda caso, una rarità). 
I punti neri, invece, li ho proprio graditi.
Il discorso che vi facevo prima sui personaggi lo capirete benissimo se e quando leggerete di Vera. Chi non vorrebbe essere come lei? Invece la odierete dal primo istante. E in questo caso la bravura della Gamberale scoppietta in quei fuocherelli di ironia che bruciano le doti impeccabili della superba psicoterapeuta Vera Salesani.
Un padre intellettual-rivoluzionario-aspirante-neoborghese, una madre americanina che infarcisce le frasi di parole inglesi (ma parole inglesi che più o meno tutti conoscono), un fratello che soffre della sindrome di Down, due zie lesbiche e un'amica presumibilmente ninfomane a cui la madre ha dato il nome Zuellen, che doveva essere Sue Ellen di Dallas ma né la donna - tale Paoletta, la zoppa - né l'impiegato dell'ufficio anagrafe sapevano come si scrivesse. Questi e molti altri i fili di corda umana che intrecciano il tappeto del romanzo. Lo stesso tappeto con gli elefanti di casa Lunare, forse. La stessa plastica di cui dovrebbe essere fatto l'orologio della Swacht con le bandiere delle varie nazioni. O le cornici di plastica che fanno da salvagente a gente che un tempo era (in)felice e oggi chissà.


Sono gli oggetti in questa storia i perni dell'io-narrante Allegra Lunare/Chiara Gamberale. 20 e 22 anni che spingono l'urgenza di raccontare, prima di dire addio a un piccolo mondo - la casa, appunto -, prima di affidare quel mondo a un'altra storia - quella dei signori Godalla -, prima di perdersi definitivamente e di ritrovarsi per un po'. Meglio, comunque, che la cosa ve la spieghi Chiara (Gamberale!)
Ho scritto Arrivano i pagliacci quattordici anni fa: avevo ventidue anni, ero alla ricerca pazza di non sapevo neanche io che cosa e quello che scrivevo lo era con me. Quando si fa così il rischio è quello di dare voce a un’urgenza, anziché riflettere bene per dare urgenza a una voce. E forse l’ho corso.
E sì, certi rischi vanno corsi. Fosse anche per la possibilità di trasformare un mi in un ci e un me in un noi

Nessun commento:

Posta un commento