martedì 24 febbraio 2015

Fatti anche tu un soggiorno in ospedale

Uatankaaa!
Se avete compreso questo incipit gutturale, che in realtà è un motto, significa che anche voi un po' perversi lo siete. Sicuramente non quanto registi, produttori e sceneggiatori di Braccialetti rossi, serie tv che ogni domenica, imperterriti, ci ostiniamo a guardare, magari anche lamentandoci che un programma tanto seguito e tanto amato dai ragazzini cominci alle 21.40 anziché alle 20.30.

Piace tantissimo. Specialmente agli adolescenti. Ma non solo. Il format è ispirato alla serie spagnola Polseres vermelles, a sua volta tratto dalla storia vera dello scrittore Albert Espinosa, che per dieci anni ha avuto il cancro e poi, una volta guarito, ha deciso di raccontare la sua triste esperienza in un libro. Eppure, perdonate la crudezza, dubito che Espinosa mentre si trovava in un letto d'ospedale avesse voglia di amoreggiare con le altre pazienti, pure loro malate. O che tra una chemio e l'altra trovasse le forze di andarsi a fare una gita al mare.

Non hanno inventato niente. Né gli spagnoli né gli italiani (Giacomo Campiotti, regia e sceneggiatura; Sandro Petraglia, sceneggiatura). E non solo perché si sono ispirati a Espinosa, ma soprattutto perché hanno preso uno dei topòi tipici della soap opera, l'ospedale, e l'hanno unito agli altri generi (prevalentemente sit-com e real drama). Ne abbiamo visti tantissimi di intrecci amorosi all'interno degli ospedali. Solo che, per fortuna, di solito si aveva il buon gusto di far flirtare medici e infermieri, se proprio il personale asa, ma non i pazienti.

Invece in Braccialetti rossi accade proprio di tutto. Al diciottenne con tumore alla testa scatta l'ormone mente palpeggia una ragazza degente con cancro al seno. Il bimbo appena risvegliato dal coma si è ripreso talmente bene da sfoderare passi di danza e piroette al capezzale di un'adolescente in stato vegetativo. Un ragazzino dimesso da qualche mese viene riportato in scena, perché la dottoressa lo mette a lavorare come inserviente dell'ospedale. E il piccolo canta motivetti napoletani mentre prepara una pastiera (norme igieniche, quando mai, sfruttamento del lavoro minorile cos'è) e discute con l'amico dall'oltretomba. Per non farci mancare nulla, ed essere anche politically correct, abbiamo pure il paziente filippino, che però viene puntualmente scambiato per un cinese. E chiamato Chicco. Come un chicco di riso? 

Poi li fanno recidivare tutti. Alla fine della prima stagione il cerchio doveva in un qualche modo chiudersi. Chi poteva sapere se ci sarebbero stati abbastanza soldi per un secondo ciclo di puntate? Così i giovini erano stati dimessi o quanto meno mostrati in via di guarigione. Tutti i capelli ricresciuti e tutti i traumi passati. Finché c'è vita c'è speranza, starete pensando. Non su rai uno. Incredibilmente, nel giro di due giorni, sono di nuovo tutti malati e ricoverati, un po' come i personaggi di Beautiful che tornano dall'aldilà al momento opportuno. In un reparto dove, per giunta, non si capisce in che cosa siano specializzati, perché la cura è omnibus: bimbi, adolescenti, donne incinte e anziani; tumori, malattie psichiche e traumi cerebrali.


E' questo aspetto che fa rabbrividire. Non l'utilizzo del contesto, ma la totale deformazione della malattia. Forse la gente dovrebbe sapere che di cancro, di traumi post-incidente e di disturbi alimentari si muore. Che stare in ospedale, da veri malati, non è proprio una permanenza al villaggio Valtuor. Nonostante i braccialetti di plastica rossa. E nonostante a trasmettere la storia sia rai uno.



1 commento:

  1. Concordo pienamente! E ti faccio i complimenti per come descrivi benissimo anche con un pò d'ironia la trama! Bravissima!! (cristina)

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