mercoledì 21 gennaio 2015

Hungry hearts: il confine tra amore e ossessione


Amare da morire. Già, ma chi? O meglio, che cosa? Difficile non porsi questa domanda dopo aver visto Hungry hearts. Il film, liberamente ispirato al romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, è diretto da Saverio Costanzo. Aveva già fatto il suo ingresso nel mondo del cinema con la presentazione al Festival di Venezia nel 2014, dove si era aggiudicato due coppe per le interpretazioni dei protagonisti (Alba Rohrwacher in Mina e Adam Driver in Jude). In questi giorni agli occhi del grande pubblico.


Sconsigliato ai deboli di cuore. Ma anche ai pressapochisti. E a coloro che faticano a distinguere il contenitore (un'ossessione alimentare e spirituale) dal contenuto (l'amore, la paura, la solitudine, il senso di impotenza). Perché la storia non si lascia guardare spensierata. E i pop corn potrebbero andarvi di traverso.
New York, anni nostri. Jude e Mina si incontrano nella toilette del ristorante cinese in cui hanno appena mangiato. Lì rimangono rinchiusi per colpa di una porta difettosa. La situazione non è delle più romantiche, visto che Jude ha appena avuto fastidiosi problemi gastrointestinali - il bagno è cieco - e Mina non sembra sforzarsi per farlo sentire meno a disagio. E' da quel loculo puzzolente dipinto all'orientale che nasce l'amore.
Mina, italiana, lavora in Ambasciata. Jude è un ingegnere. Il volto e il corpo della Rohrwacher, che molti di noi avevano già conosciuto in altre pellicole impegnative (Melissa P., Caos calmo, La solitudine dei numeri primi, Le meraviglie, tanto per citarne alcune), si confermano simulacri del disagio psichico, sociale e personale. Con una bellezza, però, con uno stile, capaci di incantare. E ammalia anche il dinoccolato e acerbo Jude. Schiavo ma non sottomesso. Sarà lui a rifugiarsi in una chiesa per dare al figlio l'omogeneizzato di carne. Sarà lui ad abbracciare la sua Jude con quella stretta capace di dire senza parlare. Dire che andrà tutto bene, che se la caveranno loro due. Perché sono soli, Jude e Mina. Soli in mezzo a una città, New York, che inghiotte e non vede, in cui le radici sono forse sotto il cemento e allora si cerca di ripescarle piantando un orticello biologico nella serra sul tetto di un condominio fatiscente. Soli durante un matrimonio, celebrato forse a Las Vegas, forse nello stesso locale cinese in cui si sono conosciuti, forse in un luogo dove nessuno deve ufficializzare e testimoniare. Dove sicuramente la mattina dopo gli sposi non ricorderanno nemmeno i nomi dei presenti. Eccetto di una, la madre di Jude. 

Roberta Marxwell

Interpretata da una maestrale Roberta Maxuell, non è solo la mamma dello sposo, messa all'angolo per motivi che non ci è dato sapere. E' anche l'aspirante matrona della di lui nuova moglie e del di loro figlio. Dice a Mina di andarla a trovare, per qualsiasi evenienza, "anche senza Jude, anzi meglio senza li lui". Le affermazioni che la sua bocca spruzza irriverente dopo qualche bicchiere di vino possono passare inosservate, ma se avrete il coraggio di guardare Hungry hearts fino alla fine, tenete ben a mente questa donna, che trasmette la tessa inquietudine di altri due personaggi cinematografici: la vicina di casa (Grace Zavriskie) in Inland Empire di Lynch e Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) in Requiem for a dream di Aronofsky.


Grace Zaviriskie


Ellen Burstyn











Jude e Mina fanno l'amore. Appassionati, belli e struggenti. Poi uno sparo. E un cerbiatto morto che attira l'attenzione di Mina. Quel cerbiatto ammazzato, forse in un sogno o forse no, diventa una presenza onirica costante per la giovane donna ed è la molla che le fa scattare l'ossessione alimentare.
Anche quel cerbiatto non scordatelo, quanto meno se amate rintracciare la trama di oggetti simbolici sparsi nella sequenza di immagini in movimento.
Mina si sveglia ogni mattina con una nausea che le impedisce di mangiare. Non solo perché è incinta, ma soprattutto perché nei suoi sogni continua a comparire il cerbiatto ammazzato. E' così che decide di eliminare dalla sua dieta tutti gli alimenti di origine animale, fino a nutrire lei e il piccolo di soli semi e verdure.
La scelta di Mina va al di là di principi etico-ambientalisti o estetici. Nasce da una convinzione generata dal colloquio con una medium e maturata leggendo volumi di guru spirituali. Suo figlio è in Indu, una creatura venuta al mondo per salvare la Terra. Per questo lei deve eliminare ogni forma di impurità dall'intorno del bambino e crescerlo fortificandolo pian piano. Per esempio evitandogli ogni contatto con l'esterno per i primi sette mesi di vita. Latte, carne e antibiotici sono veleno e il pediatra una figura da cui tenersi alla larga. 
Quando Jude si rende conto che le condotte di Mina stanno seriamente mettendo in pericolo il figlio, si troverà incastrato in una gabbia affettiva. Assecondare le idee della moglie, che non ha altri se non lui e il bimbo, per non rischiare di farla fuggire o dare la precedenza alla salute del piccolo?


Il fatto è che la lucidità svanisce in fretta quando si ama. 
Chiedete a un amante del fuoripista se ha paura di morire sotto una valanga. O a un anziano marinaio se lo sfiora il dubbio che una volta il mare potrebbe anche essergli fatale. Nell'Antico Testamento, Abramo stava per sacrificare suo figlio Isacco.
Anziché dare un verdetto e siglarlo tra le cose che è bene dire o pensare, sospenderete il giudizio. Vi lascerete travolgere dalle inquadrature sghembe, dai grandangoli deformanti e dalle semi-soggettive che vi impediranno di acquisire la parte dell'uno o dell'altro personaggio. Il regista vuole questo? Non si sa. Ma di certo deve essersi divertito cambiando il punto di vista, talvolta opacizzandolo, come se gli occhi fossero proprio quelli del neonato, oppure dando un senso di vertigine, grazie alle riprese dall'alto, che accentuano tra l'altro l'aspetto stravolto e allampanato dei due coniugi.
In questo vortice di sacro e profano, amore e possesso, ragione e desiderio, vi farete trascinare per quasi due ore. E poi, alla fine di una trama che attorciglia psicologia, giallo e sentimento, anziché avere risposte, vi porrete qualche domanda. Magari sulle declinazioni del verbo amare e su come lo si possa coniugare alla volontà di un'idea. Perché in fondo chi mai, spontaneamente, mette in dubbio la propria concezione di bene? Chi non pensa, pur senza ammetterlo, che questa sia universale? E chi, davanti a una scelta, preferirà il meno peggio al meglio?


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