giovedì 1 maggio 2014

Ora et…(lab)ora

Un primo maggio amaro, almeno per quei 3 milioni e 248mila italiani senza lavoro. Un cono d'ombra ormai strato-sferico, quello dei disoccupati, che ha raggiunto uno dei picchi più elevati della storia: 12,7% della popolazione tra i 15 e i 64 anni (Istat marzo 2014). Solo nel 2004 e nel 1977 si erano toccate vette simili. Dati, questi, che hanno portato la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso ad affermare che <<questa più che la festa del lavoro sembra la festa della disoccupazione>> e che <<è finito il tempo degli annunci e dei sorrisi, servono riforme che cambino a fondo il Paese e una stagione di veri investimenti che creino occupazione>>. Parole dure, che attendono la concretizzazione delle promesse intavolate dal governo di Matteo Renzi. E il protagonista di questo avverso panorama è appunto il Jobs Act made in Italy, anzi, made in Florence, che a tutti è stato da subito un po' antipatico già dal nome. Perché mai un altro inglesismo? Non siamo in Italia? Appunto. Allora chiariamo la questione: il disegno di riforma del lavoro, studiato dal ministro Giuliano Poletti e promosso dal nuovo governo di centro-sinistra, prende ispirazione dalla legge statunitense JOBS Act (Jumpstarts Ours Business Startups Act), riguardante i finanziamenti per l'avvio di piccole imprese, e dal discorso del 2011 di Obama, che prometteva una ristrutturazione del mercato del lavoro statunitense, con incentivi sugli investimenti, agevolazioni ai giovani e una canalizzazione costruttiva della spesa pubblica. A questi punti, in pratica, fa riferimento anche il nostro Jobs Act. Ma di che si tratta nel concreto? Due le tappe fondamentali: un decreto con disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese; un disegno di legge che delega al Governo la  riforma degli ammortizzatori sociali e delle forme contrattuali. In sintesi: da un lato il comparto imprese, a cui vengono proposti sgravi finanziari e burocratici per incentivarle ad assumere personale, dall'altro la tutela dei lavoratori, con il riordino dei contratti, specialmente quelli di apprendistato, e la pulizia degli ammortizzatori sociali,  al tempo stesso paraurti e zavorre per lo Stato. Avendo preso il via da poco più di un mese, è un po' presto per valutarne l'efficacia. Nel frattempo l'invito, rinnovato oggi stesso dal premier Renzi, è racchiuso in due parole chiave: semplificazione e innovazione. Vale a dire: svincolare le imprese italiane dagli inutili grovigli burocratici e rinfrescare idee, cose e persone nei vari comparti, sia politici sia professionali.


E' evidente, ma forse non abbastanza, che un passo fondamentale per il rilancio economico sia il cambiamento di mentalità, più aperta, senza dubbio, ma soprattutto più ottimista. E allora non buttiamoci giù. Seppur ancora timide, anche le buone notizie non mancano: per la prima volta dall'inizio della crisi, si registra un'inversione di tendenza nell'andamento dell'occupazione: a marzo 2014 ci sono stati 73.000 occupati in più rispetto al mese precedente. Questo potrebbe sembrare in contrasto con i dati allarmanti riguardo alla mancanza di lavoro, ma, è bene ricordare che l'Istat, così come gli altri istituti di ricerca, misura il livello di disoccupazione sul numero di persone che cercano lavoro (e non lo trovano), perciò un aumento di quest'ultimo può anche essere determinato dal fatto che più persone si attivino per trovare un impiego, segno cioè di una rinata speranza nell'economia.



A influire sul tasso di disoccupazione in Italia è senza dubbio la fascia tra i 14 e i 25 anni, in cui la percentuale arriva al 42,7%, (Istat, marzo 2014): sono 638mila i giovani in cerca di lavoro, l'11,4% sul totale della popolazione di quell'età. Il dato positivo è che diminuisce di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente il numero di ragazzi inattivi, i cosiddetti Neet, ovvero che non lavorano né studiano, attestandosi al 73,3%, ben 2,25 milioni. Una quota decisamente elevata, che potrebbe però trovare un tampone nel piano di garanzia, scattato proprio dal 1 maggio, per dare nuove prospettive occupazionali a 50mila soggetti inattivi tra i 15 e i 29 anni. Si tratta di 1.5 miliardi di euro stanziati per questo progetto, che il governo Renzi ha recepito direttamente dall'Unione Europea. Gli organismi comunitari hanno infatti dato vita alla Youth Guarantee, un'iniziativa rivolta ai giovani tra i 15 e i 25 anni (l'Italia ha esteso la possibilità fino ai 29 anni) che non studiano e non lavorano. Apprendistati, tirocini, stage o corsi di formazione. Persino il servizio civile. L'intento è garantire l'entrata nel mondo del lavoro in tempi più rapidi possibili: già dopo 4 mesi dalla cessazione della precedente attività, scolastica o professionale. Trattandosi di una materia di competenza regionale, il progetto è implementato con modalità e risorse diverse a seconda della zona. Per esempio, non hanno diritto ai fondi le regioni con un tasso di disoccupazione giovanile inferiore al 25%. Come le province di Trento e Bolzano. I candidati si iscrivono attraverso il portale appositamente dedicato (www.garanziagiovani.gov.it ) oppure sul sito della propria regione. Dopo aver scelto la zona d'interesse, il soggetto verrà preso in carico dai Servizi per l'impiego o dalle Agenzie private del territorio di competenza e con essi stipulerà un "Patto di servizio", ricevendo una proposta, in base a profilo e disponibilità, entro i 4 mesi successivi.



Nel frattempo, comunque, anche le imprese si stanno aprendo al rinnovamento cercando nuovi profili professionali, rintracciabili principalmente nelle fasce d'età più basse.
Ecco due esempi.
Insomma, se i monaci benedettini pregavano e lavoravano, ora et labora, a noi non resta che pregare per lavorare ora ut labores.

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